N. 87 - Marzo 2015
(CXVIII)
PASSAGGI REMOTI
LE PORTE SPARITE DELLE MURA SERVIane - PARTE III
di Federica Campanelli
Sul
Quirinale
si
apriva
la
porta
più
settentrionale
della
Roma
repubblicana:
la
porta
Collina.
Tra
le
più
antiche
dell’Urbe,
era
situata
dove
oggi
sorge
il
Ministero
delle
Finanze,
tra
via
XX
Settembre
e
via
Goito.
Il
nome
si
deve
al
sostantivo
collis,
poiché
il
Quirinale
era
considerato
il
Colle
per
antonomasia.
Nel
1872,
proprio
in
occasione
della
costruzione
del
Palazzo
delle
Finanze,
l’ipotesi
dell’esatta
collocazione
di
porta
Collina
trovò
indubbia
conferma
con
il
rinvenimento
delle
sue
fondamenta
e di
tracce
delle
mura
che
la
fiancheggiavano:
preziosissime
testimonianze
serenamente
demolite
(pietra
più,
pietra
meno).
La
porta
era
attraversata
dal
Vicus
Portae
Collinae,
prosecuzione
dell’antico
percorso
viario
Alta
Semita
(oggi
via
del
Quirinale-via
XX
Settembre),
ed
era
probabilmente
affiancata
da
due
torri
di
guardia
a
pianta
trapezoidale.
Al
di
fuori
di
essa
si
ergeva
un
santuario
intitolato
alla
Venus
Erycina,
la
cosiddetta
Venere
di
Erice,
il
cui
culto
si
diffuse
in
territorio
italiano
a
partire
dalla
Sicilia
nell’ambito
della
prima
guerra
punica
(264-241
a.C.),
che
fece
dell’Isola
la
prima
provincia
romana.
Molti
sono
stati
gli
eventi
bellici
di
cui
la
porta
fu
silenziosa
spettatrice.
Scrive
lo
studioso
Nibby
che
“questa
porta
fu
fatale
a
Roma;
poiché
per
essa
i
Galli
entrarono
l’anno
365
dopo
la
sua
fondazione,
388
[o
390]
avanti
l’era
volgare.
Imperciocché
essendo
questa
porta
quasi
in
piano,
e
più
scoperta
delle
atre,
era
anche
più
esposta
ad
essere
espugnata,
e
dalla
storia
di
Roma
si
vede,
che
gli
assalti
de’
suoi
nemici
furono
sempre
diretti
contro
questa
parte:
in
Livio
ne
abbiamo
parecchie
memorie,
come
quella
quando
i
Sabini
nel
284
dalla
fondazione
di
Roma
vollero
assalirla;
e i
Fidenati,
e i
Vejenti
presso
questa
si
accamparono
nel
319;
e
Annibale
vi
si
presento
per
batterla
l’anno
543”
(Antonio
Nibby, Le
mura
di
Roma,
Roma
1820).
Tra
gli
episodi
più
rilevanti
vi è
la
Battaglia
di
Porta
Collina,
ultimo
capitolo
della
guerra
civile
romana
dell’83-82
a.C.
La
mattina
del
primo
novembre
82
a.C.
gli
uomini
di
Lucio
Cornelio
Silla
giunsero
nei
pressi
della
porta
per
affrontare
e
distruggere
i
populares
sostenuti
in
quel
frangente
dal
sannita
Ponzio
Telesino,
che
intanto
assediava
Roma.
Le
due
fazioni
si
batterono
in
uno
degli
scontri
più
sanguinosi
della
Roma
repubblicana.
A
prevalere
furono
infine
gli
optimates
del
generale
Silla,
che
da
quel
momento
sarà
il
controverso
dictator
legibus
scribundis
et
rei
publicae
constituendae
in
una
forma
di
governo
assoluto
con
funzione
costituente
volto
alla
riorganizzazione
della
repubblica
e
all’accentramento
del
potere
nel
Senato.
A
porta
Collina
è
inoltre
connesso
il
dolente
ricordo
del
campo
scellerato.
Questo
era
il
luogo
dove
si
compiva
la
feroce
tradizione
di
seppellire
e
murare
vive
le
sacerdotesse
consacrate
alla
dea
Vesta,
le
Vestali,
qualora
queste
non
avessero
assolto
l’impegno
di
mantenere
ininterrottamente
vivo
il
sacro
fuoco
o
nel
caso
di
sacrileghe
relazioni
sessuali
(comprese
quelle
non
consenzienti).
Porta
Viminalis
A
nord-est,
nella
piana
tra
i
colli
Viminale
ed
Esquilino,
la
città
–
come
già
letto
in
Nibby
–
risultava
particolarmente
suscettibile
di
attacchi.
Al
fine
di
potenziare
l’impianto
difensivo
in
quel
tratto,
fu
costruito
il
sistema
agger
et
fossa
(IV
secolo
a.C.),
che
si
svolgeva
dal
campus
sceleratus
di
porta
Collina
fino
a
raggiungere
la
porta
Esquilina.
Oggi,
nonostante
abbia
ormai
le
parvenze
di
una
discarica
a
cielo
aperto
e
orinatoio
pubblico,
possiamo
apprezzare
una
notevole
porzione
di
tale
struttura
in
piazza
dei
Cinquecento
(parallelamente
a
via
Marsala),
presso
la
stazione
Termini.
L’estensione
dell’aggere
originale
è
stata
stimata
in
circa
1300
metri,
per
una
larghezza
di
36 e
un
fossato
profondo
17.
L’altezza
del
muro
addossato
al
terrapieno
ai
tempi
di
Servio
poteva
aggirarsi
intorno
ai 5
metri
mentre
in
età
repubblicana
raggiunse
i 10
metri
(e
pare
che
Silla
in
alcuni
punti
lo
abbia
innalzato
fino
a 15
metri).
Altri
autori,
tra
cui
Strabone
e
Dionigi
di
Alicarnasso
in
età
augustea,
ne
forniranno
dettagliate
descrizioni
dichiarando
tuttavia
che,
seppur
di
poco,
i
dati
risultavano
tra
loro
discordanti.
Ciò
documenta
il
continuo
processo
di
rimaneggiamento
e
ricomposizione
delle
fortificazioni
cittadine.
Nel
punto
mediano
dell’aggere
si
collocava
la
porta
Viminalis,
nell’attuale
piazza
dei
Cinquecento.
Resti
di
questa
porta
riemersero
dagli
scavi
eseguiti
nel
1877
durante
la
costruzione
della
stazione
ferroviaria.
Probabilmente
la
porta
apparteneva
alla
più
antica
cinta
muraria
serviana
del
VI
secolo.
Il
suo
nome
è
dedotto
dal
toponimo
Viminalis,
con
cui
era
identificata
l’altura
che
entrò
a
far
parte
della
città
di
Roma
con
Servio
Tullio.
Si
noti
che,
come
per
le
porte
Collina
ed
Esquilina,
l’appellativo
dell’antico
varco
non
scaturisce
dalla
vicinanza
di
monumenti
pubblici
di
particolare
interesse,
ma
solo
dal
territorio
circostante.
.
Resti
della
porta
Viminalis
presso
la
stazione
Termini
Alla
Viminalis
si
dirigeva
il
Vicus
Patricius
(oggi
via
Urbana),
ossia
un
ramo
dell’Argiletum,
antica
strada
che
connetteva
il
Foro
alla
Suburra
(il
suo
tragitto
è
riconoscibile
nella
via
Leonina).
Il
Vicus
Patricius
si
distaccava
dall’Argiletum
per
poi
proseguire
a
nord-est
dell’altura
Cispio
(la
zona
che
si
estende
nei
pressi
Santa
Maria
Maggiore),
propaggine
dell’Esquilino.
Porta
Esquilina
Giunti
alla
porta
Esquilina
terminava
l’aggere
serviano,
chiudendo
così
la
porzione
perimetrale
più
debole
della
città.
Come
le
porte
Viminalis
e
Collina,
essa
apparteneva
alla
più
antica
fase
di
costruzione
delle
fortificazioni
cittadine,
quando
Servio
estese
i
confini
della
città.
A
porta
Esquilina
terminava
anche
la
principale
via
del
popolatissimo
quartiere
della
Suburra,
il
Clivus
Suburanus,
che
–
come
il
Vicus
Patricius
– si
distaccava
dall’Argiletum
ma
proseguiva
il
suo
percorso
a
sud-est
del
Cispio.
Ancora
oggi
è
possibile
determinare
quale
doveva
essere
l’andamento
del
Clivus
Suburanus,
essendo
questo
più
o
meno
conforme
alle
attuali
via
in
Selci
e
via
di
San
Vito,
nell’area
urbana
compresa
tra
piazza
della
Suburra
e
via
Carlo
Alberto.
Al
di
fuori
della
porta
avevano
invece
inizio
le
strade
consolari
Labicana
e
Prenestina,
dirette
a
Labicum
la
prima
e a
Praeneste
e
Gabii
la
seconda.
All’altezza
del
civico
45
di
via
Carlo
Alberto,
inglobata
nella
facciata
di
un
moderno
edificio,
è
tuttora
visibile
un
basamento
in
laterizio
sormontato
da
tre
filari
di
blocchi
di
tufo
di
Grotta
Oscura.
Questa
sezione
muraria
andava
poi
a
connettersi
con
la
porta
Esquilina,
con
la
quale
si
trova
perfettamente
in
linea.
È
questo
uno
dei
punti
di
riferimento
utili
alla
ricostruzione
dell’originale
tracciato
murario,
senza
perdere
l’orientamento
nella
viabilità
moderna.
Proseguendo
per
via
Carlo
Alberto
dal
civico
45
in
direzione
piazza
Vittorio
e
imboccando
la
prima
traversa
sulla
destra
ci
si
ritrova
sulla
via
di
San
Vito,
che,
come
accennato
in
precedenza,
ricalca
l’antico
tracciato
terminale
del
Clivus
Suburanus.
Qui
troviamo
uno
straordinario
monumento
in
opera
quadrata
di
travertino,
ben
inserito
tra
le
costruzioni
moderne
e la
quattrocentesca
chiesa
dei
SS.
Vito,
Modesto
e
Crescenzia.
Si
tratta
dell’Arco
di
Gallieno,
ricostruzione
in
loco
dell’antica
Esquilina.
Il
primo
rifacimento
della
porta,
avvenuto
nel
I
secolo,
si
deve
alla
volontà
di
Augusto,
il
quale
la
concepì
a
tre
fornici:
sono
difatti
ancora
visibili,
seppur
non
immediatamente
riconoscibili,
le
tracce
dei
due
ingressi
laterali
ormai
ridotti
a
pochi
blocchi
sovrapposti.
L’aspetto
che
l’arco
conserva
attualmente
è
invece
dovuto
a
successivi
interventi
eseguiti
nel
262,
come
testimonia
l’iscrizione
posta
sull’architrave.
In
questa
si
fa
esplicito
riferimento
all’imperatore
Gallieno
– da
cui
il
nome
dell’arco
– e
alla
moglie
Salonina,
ai
quali
il
Vir
Egregius
Marco
Aurelio
Vittore
dedicò
tale
opera
(Vir
Egregius
–
abbreviato
v.
e.
nelle
iscrizioni
– è
un
titolo
portato
dagli
appartenenti
all’ordine
degli
equites).
L’Arco
di
Gallieno,
con
il
suo
singolo
fornice,
è
oggi
caratterizzato
da
un
profilo
quasi
quadrato
e,
nel
complesso,
da
uno
stile
sobrio
ed
essenziale.
Nel
corso
dei
lavori
di
restauro
del
1995
sono
stati
raccolti
diversi
dati
che
testimonierebbero
la
presenza
di
un
attico
al
di
sopra
dell’attuale
trabeazione,
di
cui
però
non
si è
potuto
stabilire
l’altezza,
nonché
deboli
tracce
di
intonaco
dipinto
che
un
tempo
avrebbero
ricoperto
l’intera
superficie
dell’opera.
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