N. 15 - Agosto 2006
IL G8
A SAN PIETROBURGO
Gli scontri, la crisi energetica, il nucleare
e il Medio oriente
di Leila
Tavi
Nel sontuoso palazzo Konstantinovsky, a
Strelna, nei pressi di San Pietroburgo, si sono
svolti dal 15 al 17 luglio i lavori del G8.
L’argomento principale delle discussioni avrebbe
dovuto essere il nucleare in Corea del Nord e in Iran,
ma la crisi Isreale-Hezbollah ha stravolto l’agenda.
L’allestimento del vertice è costato 397 milioni di
dollari; le misure di sicurezza, nonostante i servizi
segreti russi hanno tirato un sospiro di sollievo dopo
la morte di
Shamil Basayev, sono state senza
precedenti.
I visti per i visitatori sono stati limitati per paura
dell’arrivo in massa di dimostranti e di no
global; la strada principale che passa per
Strelna, così come il collegamento diretto tra
Pietroburgo e Peterhof, sono stati chiusi al
traffico. All’interno del blocco non hanno potuto
circolare neanche i mezzi pubblici.
A Strelna si sono riuniti i rappresentanti delle otto
nazioni più industrializzate del mondo: Canada,
Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Italia,
Russia e Stati uniti, insieme al presidente
dell’Unione europea.
L’intero programma si è svolto nel palazzo di Strelna;
per l’occasione sono state ristrutturate venti ville
della tenuta per ospitare i partecipanti, solamente
una cena informale di benvenuto ha avuto luogo a
Peterhof.
Quella che doveva essere la carta vincente per la
Russia, in vista di una prossima ammissione al WTO;
la sua consacrazione a potenza economica mondiale, grazie
alle riserve di gas e alle esportazioni di gas e
petrolio, si è rivelata una delusione per i padroni di
casa e per gli ospiti.
Il G8 di Vladimir Putin, il primo in Russia, ha
innanzitutto confermato che gli attuali rapporti
diplomatici tra la Russia e gli Stati uniti non sono
più così distesi come nell’ultimo decennio del XX
secolo.
Una prova tangente ne è il veto degli Stati uniti
all’entrata della Russia nel WTO, comunicato da
George W. Bush a Vladimir Putin proprio durante un
incontro bilaterale a Strelna venerdì 14
luglio, prima dell’apertura dei lavori.
Prima del G8 c’è addirittura stato un tentativo da
parte dei senatori americani John McCain,
repubblicano, e
Joseph Lieberman, democratico, di boicottaggio del vertice.
Il punto di frizione tra le due nazioni è senza dubbio
“la sicurezza energetica mondiale”, un fattore
strategico nell’equilibrio del potere geopolitico del
XXI secolo.
André Glucksmann,
in un articolo apparso nel “Corriere della Sera” del
14 luglio, sostiene, a nostro avviso a ragione, che
Putin sta cercando di portare la nuova Russia a
essere, come durante la guerra fredda, una potenza
mondiale; questa volta sfruttando però i nuovi
equilibri multipolari a livello internazionale, senza
i quali, adesso che non dispone più del controllo su
metà dell’Europa, non sarebbe possibile l’ascesa a
superpotenza.
Abbandonata completamente l’ideologia, che era il
sostrato dell’ex Unione sovietica, la Russia di Putin
si fa forte delle stesse arme utilizzate dagli Stati
uniti negli anni ’80: pragmatismo, politica
energetica, consumismo.
“Il Russian way of life deve importare
tutte le comodità della società dei consumi, dal
big Mac al computer” ha dichiarato Glucksmann.
A favore della Russia giocano in questo momento la
disunione dell’Europa e la crisi energetica.
A suo sfavore la violazione dei diritti umani in
territorio russo e i difficili rapporti con alcuni
degli stati della CIS in materia di politica
energetica.
Putin cerca di sfruttare in questo momento la
propensione dell’attuale politica internazionale al
multipolarismo, dopo una breve fase, alla fine
della guerra fredda, di incontestata supremazia
americana, per fare della
Gazprom l’arma con cui
riuscire a riconquistare una posizione di
superpotenza.
Con il gas Putin tiene in mano i paesi europei che,
invece di pensare a una controffensiva comune, si
affrettano a concludere con la Russia singoli accordi
bilaterali, nel timore che in futuro la Russia possa
riservare all’Europa lo stesso trattamento
riservato all’Ucraina nell’inverno scorso.
L’Europa ha fallito il tentativo durante il G8 di far
firmare alla Russia la “Carta europea dell’energia”,
sottoscritta già da 51 paesi, che impedirebbe alla
Russia di interrompere senza preavviso le forniture di
gas, come è successo nel dicembre 2005 all’Ucraina.
La Russia naturalmente può fare a meno di scendere a
compromessi con l’Europa; altri acquirenti meno
pretenziosi si sono fatti avanti: Cina e India.
Putin ha dimostrato in quest’ultima edizione del G8
che la formula degli otto paesi va sostituita con una
allargata quantomeno a Cina, India e Brasile.
Il 17 luglio hanno preso parte ai lavori del G8 anche
il presidente cinese Hu Jintao, quello
sudafricano Thabo Mbeki, il premier brasiliano
Luiz Ignacio Lula da Silva e quello indiano
Manmohan Singh.
La Russia inoltre ha stipulato accordi con la
Sonatrach algerina e il Venezuela; Hugo Chavez
si è recato il 27 luglio in visita a Mosca per
acquistare degli aerei da caccia, dei Sukoi,
e degli elicotteri di fabbricazione russa; il tutto
condito da un latente sentimento antiamericano.
A niente sono valse le richieste di Tom Casey,
portavoce dello State Department americano,
al Ministro della difesa russo Sergej Ivanov di
non vendere armi e apparecchiature al Venezuela; la
Russia non è più disposta a chiedere il permesso agli
Stati uniti quando si tratta di rapporti commerciali,
o ancor più diplomatici, con gli stati che praticano
una politica spiccatamente antiamericana.
L’idillio di una lotta comune contro il terrorismo
concordata all’indomani dell’11 settembre è vacillato
dopo la crisi dell’Iran e non perché al
Cremlino non fossero chiari già dall’inizio gli
intenti degli Stati uniti in Medio Oriente, è venuta
meno per Putin l’esigenza di avere gli Stati uniti
come alleati nella lotta ai separatisti in Cecenia,
dopo che, a seguito dell’innumerevoli azioni degli
agenti segreti russi e della Guardia di Kadirov, i
ribelli si trovano adesso in una fase di
disorientamento e di debolezza.
Nella crisi iraniana la Russia mette molto in gioco: i
rapporti commerciali che intercorrono tra i due paesi
sono ottimi; dopo la Cina e l’India, l’Iran è il terzo
più grande acquirente di armi russe. Non solo, Teheran
è il partner ideale, per ragioni sia geo-strategiche
che politiche, per poter tenere il più lontano
possibile gli Stati uniti e la NATO dal Mar
Caspio.
D’altra parte, però, Mosca non ha nessun interesse a
che l’Iran diventi una potenza a livello regionale o
che sviluppi il nucleare a scopi bellici.
Il rifiuto da parte dell’Iran della proposta di
mediazione da parte di Putin di proseguire le ricerche
per il nucleare a scopo civile in territorio russo, ha
inclinato i rapporti tra i due stati e la Russia ha
rivisto negli ultimi tempi la sua posizione rispetto a
delle probabili sanzioni del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU a carico dell’Iran.
Ciò nonostante l’accordo riguardo alle sanzioni
all’Iran non è avvento perché la Russia non ha
ottenuto dagli Stati uniti come controparte
l’ammissione al WTO.
Sul piatto della bilancia, come eventuale
contropartita, la Russia è disposta a proporre agli
Americani ancora un’alternativa: il “patto
sull’atomica”, che permetterebbe alla Russia di
poter entrare in competizione con gli Stati uniti in
quello che è stato, de facto fino ad ora, un
monopolio americano che frutta migliaia di dollari e
che controlla a livello mondiale lo smaltimento del
materiale radioattivo.
Finora lo smaltimento dei rifiuti radioattivi ha un
giro di affari di 20 miliardi di dollari l’anno e il
95% del mercato mondiale è controllato dagli Stati
uniti.
Il paradosso del veto americano all’entrata della
Russia nel WTO è la decisione, presa proprio durante
il G8, di concludere le trattative per il “Doha
round”, il negoziato sulle nuove regole
commerciali, entro la fine del mese prossimo.
Con la ripresa economica in atto dal 1999 e con una
crescita economica del 6% l’anno la Russia è ritornata
prepotentemente sulla scena della politica
internazionale: nella produzione di greggio è seconda
solo all’Arabia saudita e dispone del 65% delle
riserve di gas mondiali.
Putin intende gestire questo patrimonio all’insegna
dell’autarchia, come nella migliore delle
tradizioni.
Il caso Mikhail khodorkovsy-Yukos è da
analizzare più come un tentativo da parte del governo
russo di impedire qualsiasi intromissione di capitale
straniero nel settore petrolifero, che come
persecuzione dei magnati e degli oligarchi, un’entourage
che il presidente russo sembra gradire e proteggere.
Per ciò che attiene i rapporti con gli altri paesi
della CIS, dopo un recente incontro a Mosca il 22 e 23
luglio, è chiaro il tentativo della Russia di
“riconquistare”, se pur sul piano economico, il
controllo sui paesi che sono stati in questi ultimi
anni teatro delle “rivoluzioni colorate”: la
Georgia, la Kirghisia e l’Ucraina.
I contrasti maggiori sono però tra la Russia e il
Turkmenistan, il cui presidente Saparmurat
Nijasov, ha declinato l’invito alla conferenza CIS
di Mosca.
L’autocrate, che si fa chiamare “Turkmenbaschi”,
padre di tutti i Turkmeni, intende aumentare il prezzo
per la Gazprom dagli attuali 65 dollari per
metro cubo a 100 dollari; questa sua decisione ha
scatenato una vera e propria “guerra del gas” e
anche per la Russia potrebbe esserci il rischio di un’
improvvisa sospensione delle forniture.
Un’altra defezione è stata quella del presidente
ucraino Viktor Juschtschenko, che dopo la
disputa del dicembre scorso e la decisione di Putin di
alzare il prezzo delle forniture di gas per l’Ucraina
da 95 dollari a metro cubo a 250-300 dollari, il
normale prezzo di mercato, cerca alleanze con
l’Occidente, presentando per l’Ucraina la candidatura
a membro dell’EU e della NATO.
Nel caso di un ritorno al governo dell’ex premier
Viktor Janukovitsch, “l’uomo di Mosca”, la Russia
riconquisterebbe l’influenza sia politica che
economica persa dopo la vittoria della Rivoluzione
arancione dell’inverno 2004.
Anche con la Georgia i rapporti sono tesi; il
presidente Michail Saakashvili ha comunicato
solo con breve preavviso di non voler prendere parte
alla riunione del CIS, a seguito del rifiuto di Putin
di avere un incontro bilaterale con il collega
georgiano.
Il divieto del governo russo di importare vino e acqua
minerale dalla Georgia, che ha danneggiato
pesantemente l’economia georgiana, ha avuto come
conseguenza la minaccia da parte della Georgia di un
veto sull’ingresso della Russia nel WTO.
Anche il presidente dell’Armenia Robert Kocharian
si è dato malato all’ultimo momento; dalla parte della
Russia sembrerebbe essere rimasto ormai solo il
presidente del Kazakistan Nursultan Nasarbayev.
Mentre i lavori del G8 si svolgevano all’insegna dello
sfarzo, a Pietroburgo i pochi dimostranti, scampati ai
blitz della polizia nei giorni precedenti al
G8, hanno sfilato per le strade in una atmosfera
nervosa e sotto il totale controllo delle forze
dell’ordine, che hanno proceduto all’arresto di decine
di dimostranti.
Alcune volte con pretesti inverosimili, come
l’eccessiva lunghezza degli striscioni o aver orinato
in luogo pubblico; questo è il caso dei due studenti
tedeschi di Bielefeld, nella regione
OstWestfalen-Lippe, che hanno condotto un
corteo di protesta in bicicletta fino a Pietroburgo,
dandone notizia alla radio della loro università. La
richiesta di detenzione in carcere per i due ragazzi è
stata di 10 giorni.
Il permesso di riunirsi è stato dato solo nel vecchio
stadio Kirov, lontano dal centro e dalla sede
dei lavori del G8; lì, nonostante la repressione della
protesta, sono state convogliati 850 attivisti di
partiti di sinistra e di ONG, a cui è stato proibito
di lasciare lo stadio.
Ad alcuni attivisti stranieri è stato negato il visto
di ingresso. A 86 persone è stato impedito di
raggiungere la città via treno e 28 altre sono state
arrestate appena giunte nella stazione di San
Pietroburgo.
Secondo l’indipendente SPB8.net il tentativo da
parte di circa 30 manifestanti collegati al
Network against G8 di bloccare la prospettiva
Nevskij, proprio davanti a uno degli hotel dove
pernottavano alcune delle delegazioni, è stato
brutalmente soffocato dai poliziotto con i manganelli.
All’azione di protesta hanno preso parte gruppi di
anti-capitalisti da Berlino, Cardif, Chishinau, Kiev,
Minsk, Mosca, San Pietroburgo e Varsavia.
Contemporaneamente in alcune capitali europee
manifestazioni di protesta si sono svolte davanti alle
sede delle ambasciate russe.
Le repressioni della polizia sono state sistematiche
anche nella settimana precedente al G8: almeno 25
attivisti politici e per i diritti umani sarebbero
stati arrestati nei giorni precedenti al vertice dal 7
al 13 luglio.
Un rapporto non confermato della Сибирской
Конфедерации Труда, la Confederazione siberiana
del lavoro, parla di 200 arresti.
Nonostante gli arresti e i divieti di manifestare per
le strade i partecipanti al Social Forum sono
scesi in piazza.
Per i ragazzi russi del Social Forum e di altre
organizzazioni non governative il G8 ha rappresentato
la prima occasione per una protesta che coinvolgesse
l’opinione pubblica internazionale e che fosse
un’esperienza di cooperazione internazionale.
Le difficili condizioni in cui si può manifestare la
libertà di pensiero in Russia sono aggravate dalle
continue scorribande di gruppuscoli di destra, che si
accaniscono contro immigrati e attivisti, e dal
tentativo delle autorità di controllare e canalizzare
le proteste in organizzazioni finanziate e pilotate
dallo Stato, come il Naschi, un
movimento anti-fascista democratico creato dal
Cremlino.
A quanto pare il tentativo della nuova elite russa di
formare attorno al G8 di Pietroburgo una mobilitazione
comunque leale allo Stato e a Putin ha sortito gli
effetti desiderati e la Russia ha mostrato ancora una
volta al mondo come si possa mascherare dietro uno
scenario di cartone un cinico dispotismo.
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Peter Schwarz, G8-Gipfel: geopolitisches
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St. Petersburg G8 Summit must not be forgotten!,
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Madeleine Vatel, A Moscou, Hugo Chavez achète des
armes et cherche un soutien politique, “Le Monde”,
28.07.2006 |