.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]

RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

> Storia e ambiente

.

N. 9 - Febbraio 2006

LA CRISI ENERGETICA DEL XXI SECOLO

Minaccia nucleare, ultimi giacimenti di petrolio e utilizzo delle biomasse

di Leila Tavi

 

Mentre l'accordo di Montréal del 10 dicembre scorso assicura in materia di tutela ambientale la perennità del protocollo di Kyoto dopo il 2012, l'Europa sta vivendo in questi freddi giorni d'inverno la prima grande crisi energetica del XXI secolo.

 

Sabato 10 dicembre 2005 è stata la giornata decisiva per la Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici, i cui lavori sono stati inaugurati il 28 novembre nella città di Montréal. Più di 2.000 negoziatori, giunti nella metropoli canadese da tutto il mondo, hanno partecipato ai lavori. Il presidente della Conferenza, Stéphane Dion, Ministro canadese dell’ambiente, ha espresso il desiderio che le soluzioni prospettate durante la conferenza potranno “riconciliare l’umanità con il suo pianeta”.

 

La novità interessante dell’accordo di Montréal è l’introduzione di una sorta di mercato internazionale del diossido di carbonio che sarà operativo dal 2008. Ad ogni stato verrà attribuito un numero massimo di crediti che non dovrà superare. Sarà inoltre possibile acquistare i crediti da altri paesi o da imprese, fondi d’investimento, o addirittura da persone fisiche.

 

Il diossido di carbonio è prodotto durante tutti i processi di combustione. La produzione industriale e le emissioni delle automobili costituiscono un problema ecologico che tutti ormai conosciamo, l’effetto serra. In casa la principale fonte di emissione sono gli apparecchi a combustione.

 

Gli sbalzi climatici degli ultimi anni, l’innalzamento della temperatura atmosferica, lo scioglimento dei ghiacciai perenni, la tutela ambientale in generale hanno un risvolto della medaglia: l’energia e il suo utilizzo.

Tra le fonti di energia maggiormente impiegate il petrolio e il gas naturale, materie da cui l’umanità dipende dopo il boom economico del dopoguerra e che stanno in questi ultimi anni di sviluppo industriale vertiginosamente diminuendo provocando crisi internazionali e minacce di guerre.

 

Da quando il 1. gennaio di questo anno abbiamo assistito alla disputa tra Russia e Ucraina per l’approvvigionamento di gas di quest’ultima, tutti noi Europei sappiamo da dove proviene il 60% del gas metano che scalda i nostri appartamenti: dal gigante russo, dal Gazprom, con capitale a maggioranza statale e con ben un quinto delle riserve mondiali di gas. La grande impresa russa si prepara a entrare di diritto tra le grandi multinazionali dell’energia insieme alla Shell, alla BP e alle altre, come ha auspicato il vicedirettore Alexander Medvedev, annunciando all’inizio dell’anno l’apertura al capitale straniero del gruppo russo.

 

Investire nelle fonti di energia in Russia è rischioso, come ci insegna il caso Jukos: una forte pressione fiscale manipolata dal Cremlino per mettere a terra l’impresa privata. Le azioni della Jukos sono passate dalla quotazione massima di 68 dollari nell’estate del 2003 alla minima di 1,90 dollari nell’anno successivo. Ma nel caso del Gazprom il capitale detenuto da stranieri non potrà superare il 49,9% e sarà sempre lo Stato a possedere il pacchetto maggioritario.

 

Con il colosso russo collaborerà l’ex premier tedesco Gerhard Schröder e nel 2008, alla fine del mandato presidenziale, si vocifera che sarà personalmente Vladimir Putin al comando di quella che sembra essere un’impresa fuori dal comune, sia per le modalità in cui si muove nel mercato internazionale dell’energia, che per il gruppo dirigenziale che ne è a capo.

 

Schröder sarà il presidente della North European Gas Pipeline Company, un consorzio che si occuperà della costruzione del gasdotto che collegherà la regione di San Pietroburgo con il Nord della Germania attraversando il mar Baltico, come ha annunciato venerdì 9 dicembre Alexeï Miller, attualmente a capo del Gazprom. Il gruppo russo deterrà il 51% della North European, registrata a Zurigo, le tedesche BASF e E.ON avranno ciascuna il 24,5%. Entro il mese di aprile un terzo investitore dell’Europa occidentale potrà detenere un 9%, in lizza sono la società olandese Gasunie, le britanniche BP e Transco e la francese Gaz.

 

Per una lunghezza di 1.200 chilometri, con un bilancio di 55 miliardi di metri cubi di gas per e dall’Europa, il 10% della produzione russa, il gasdotto “è un progetto di cooperazione senza eguali tra la Russia e l’Europa”, ha dichiarato il premier russo Michail Fradkov. 

Se Schröder ha abbandonato la politica per dirigere il progetto significa che le prospettive di guadagno, e non solo di guadagno, ma di affermazione sulla scena internazionale, sono certe. Gli “oligarchi del gas” hanno piani ancora più grandiosi che la semplice costruzione del gasdotto del mar Baltico. La società ha rilevato la compagnia petrolifera Sibneft nell’ottobre 2005 per la cifra di 13 miliardi di dollari e ha intenzione di estendere il suo giro di affari al Giappone e soprattutto alla Cina, nonché di diventare, grazie ai giacimenti del mare di Barents e dell’isola di Sahalin, il fornitore principale di gas naturale per gli Stati Uniti, che consumano ben un quarto della produzione mondiale.

 

Gazprom controlla l’87% del mercato russo del gas e il 20% delle riserve mondiali e rifornisce, oltre che l’Europa, alcuni tra i paesi della ex Unione Sovietica. Proprio perché paesi dell’ex Unione, la Georgia e l’Ucraina avevano delle tariffe privilegiate rispetto a quelle applicate all’Europa occidentale, ma dal 1. gennaio di questo anno la Russia ha triplicato anche per loro il prezzo esigendo dall’Ucraina per 1.000 metri cubi di gas 160 dollari e non più 50. Gazprom ha cercato di rilevare anche la rete di gasdotti georgiana, ma senza successo. I russi hanno rialzato il prezzo anche in Georgia portandolo da 60 a 110 dollari per 1.000 metri cubi.

 

Nella notte del 22 gennaio la detonazione di due bombe ha fatto esplodere il gasdotto che attraverso l’Ossezia del Nord fa giungere il metano a Tbilisi; nelle prime ore della mattina del 23 altre due esplosioni hanno colpito la linea ad alta tensione che porta l’elettricità alla capitale georgiana attraverso la repubblica Karachaevo-Cherkessia. Michail Saakashvili, il presidente georgiano filo occidentale, salito al potere dopo la “Rivoluzione delle rose” del 2003, ha subito accusato il Cremlino di aver voluto sabotare il gasdotto che rifornisce Georgia e Armenia come ritorsione all’ “affrancamento politico” della Georgia dopo la rivoluzione del 2003. Potrebbe invece trattarsi di una reazione da parte della Russia alla costruzione dell’oleodotto BTC, ovvero Bakou-Tbilissi-Ceyhan, che arriva fino alle rive turche del Mediterraneo passando per la Georgia. Un oleodotto che è stato promosso e finanziato dagli Stati Uniti e realizzato tramite un consorzio a guida BP. Nel 2007 dovrebbe essere realizzato il gasdotto BTE, che unirà Shah Deniz, in Azerbaigian, a Erzerum, in Turchia.

 

La Russia si è fermamente opposta alla costruzione dell’oleodotto BTC senza ottenere risultati. Quando l’oleodotto BTC sarà ultimato la Russia non sarà più il passaggio obbligato per il petrolio che dal mar Caspio va verso l’Europa.

 

Ma l’attacco ha colpito anche l’Armenia, fedele alleata della Russia per via della tensioni religiose con l’Azerbaigian. Se si può prefigurare una colpa russa nel sabotaggio il motivo non sono certo le recenti “rivoluzioni colorate”, piuttosto il pericolo di perdere una posizione dominante nel trasporto di gas e petrolio. Da ciò la volontà di cercare nuovi potenziali clienti come la Cina, con un bisogno energetico in costante crescita, su cui dirottare le proprie risorse energetiche a scapito delle ex repubbliche sovietiche, mercato poco remunerativo.

 

L’attendibilità della Cina come fedele cliente della Russia ci lascia però perplessi; la China National Petroleum Company vuole anch’essa, come gli Stati Uniti, stringere relazioni economiche con le ex repubbliche sovietiche. In primis con il Kazahstan con cui realizzerà nel 2007 998 chilometri di oleodotto che uniranno la città di Atasu, in Kazahstan, a Alashanku, in Cina. Senza contare che la Cina si sta creando un suo canale preferenziale con l’America Latina finanziando la “ferrovia delle Ande” allo scopo di permettere che il petrolio sudamericano abbia uno sbocco diretto sul Pacifico. Hugo Chavez, il presidente socialista che ha lanciato la sua “rivoluzione bolivariana”, può contare sull’80% delle esportazioni di petrolio che coprono il 50% delle entrate nelle casse dello Stato. Il presidente populista lo sa bene e sfrutta il motto “La nueva PDVSA [Società nazionale del petrolio] es del Pueblo” a fini elettorali per guadagnarsi il consenso del popolo a garanzia dell’insuccesso di altri tentativi di golpe come quello del 2002.

 

Dal 1998 il prezzo del petrolio venezuelano è passato dai 10 dollari al barile ai 40 dollari nel 2005. Con 313 miliardi di barili il Venezuela detiene la più grande riserva di petrolio del mondo. Dopo il Venezuela è la Bolivia del neo eletto Evo Morales, che ha incontrato a Pechino il 13 gennaio scorso Hu Jintao, un probabile fornitore per la Cina.

 

La Cina ha inoltre recentemente stipulato un accordo con l’India per la “armonizzazione delle politiche di acquisizione di energia”, ossia per evitare che la concorrenza tra loro faccia salire i prezzi del petrolio sul mercato internazionale. Si tratta della più grande alleanza nel settore economico che rischia di creare una situazione di duopsonio in futuro per quanto riguarda i mercati del greggio e del gas.

 

Ma torniamo in Europa. La Russia è di nuovo in una posizione di supremazia rispetto ai paesi vicini, questa volta come superpotenza dell’energia e Putin ha scelto di puntare sul gas come arma vincente perché il mercato del gas non è così versatile come quello del petrolio: è difficile e costoso da trasportare, in più necessita di impianti che, in caso di rottura, non si possono sostituire in poco tempo e quindi l’erogazione si interrompe. Allora il gas diventa un ricatto politico per i paesi alleati della CIS (Bielorussia, Kazahstan, Tadžikistan, Armenia e Kirgizistan), un monito a non prendere esempio dalle altre repubbliche che hanno tradito: Georgia e Ucraina.

 

E se i paesi piccoli e vicini alla Russia non hanno alternative alla dipendenza dal Gazprom, l’Unione europea parla di diversificazione delle fonti energetiche, di affrancarsi nel lungo periodo dalle forniture di gas russo. Ma l’EU, il garante della perennità degli accordi di Kyoto, invece di puntare sulle fonti alternative ricade nella spirale del nucleare.

Attualmente il gas costituisce un quarto dell’energia in Europa, l’energia nucleare il 14%, ma negli ultimi discorsi della trojka europea Blair-Chirac-Merkel il nucleare riemerge subdolamente nel tentativo di convincere gli Europei che si tratta, in fondo, di energia pulita se gli impianti sono sicuri e controllati. Se ne è parlato al vertice franco-tedesco di Versailles e Tony Blair lo ho reintrodotto nella sua “energy strategy” con le parole: “Energy policy is meant to be for the long term”.

 

Per fortuna in Europa ci sono ancora paesi che non considerano attrattiva la prospettiva di un potenziamento delle centrali nucleari per il fabbisogno di energia; la Svezia, per esempio, sta investendo sulle biomasse e in particolare sul biocarburante brasiliano, un estratto alcolico della barbabietola da zucchero, che in Brasile cresce e si riproduce velocemente come la gramigna a ogni angolo della strada. La Svezia prevede di abbandonare definitivamente il petrolio per il 2020.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Jean-Michel Bezat, Le russe Gazprom veut se placer au cœur du paysage gazier européen, in « Le Monde », martedì 13 dicembre 2005, p.16

Marie Delcas, Hugo Chavez. Le bolivarisme pétrolier, in « Le Monde », mercoledì 7 dicembre 2005, pp. 24-25

Fabrizio Dragosei, Bombe contro il gasdotto russo. Georgia al gelo, accuse a Mosca, in “Il Corriere della Sera”, lunedì 23 gennaio 2006, p.14

Oliver Grimm, Gazprom: Riese auf dem Weg nach Westeuropa. Der Streit mit der Ukraine erteilte den Expansionsplänen des russischen Konzerns einen Dämpfer, in „Die Presse“, sabato 7 dicembre 2005, p.18

Sylvie Kauffmann, Les manœuvres de la Russie, busculée dans sa <<zone d’influence>>, in « Le Monde », martedì 13 dicembre 2005, p.26

Hervé Kempf, L’accord de Montréal assure la pérennité du protocole de Kyoto après 2012, in « Le Monde », martedì 13 dicembre 2005, p. 8

Joseph S. Nye, Per la Russia il gas è un arma. Spuntata, traduzione di Maria Sepa, in “Il Corriere della Sera”, martedì 24 gennaio 2006, p.38

Massimo Nava, Merkel promuove l’atomica di Chirac. Vertice franco-tedesco a Parigi, in “Il Corriere della Sera”, martedì 24 gennaio 2006, p.14

A revival of nuclear power generation looks more likely than ever, in “The Economist”, 3 dicembre 2005, p. 36

Stefan Voß, Gasprom öffnet sich dem Ausland, in „Der Standard“, sabato/domenica 7/8 gennaio 2006, p. 12

 



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA  N° 215/2005 DEL 31 MAGGIO]

.

.