N. 24 - Maggio 2007
IL MOVIMENTO FEMMINISTA
Dall'emancipazione all'enfasi per la "diversità"
di
Stefano De Luca
Il movimento delle donne
nasce in Italia verso la metà degli anni Settanta,
quasi in coincidenza con la battaglia per il divorzio.
Già a partire dai primi anni Sessanta si formarono i
primi gruppi femministi, che a differenza dalle
organizzazioni femminili della sinistra storica, come
l’UDI, si distaccavano dal classico emancipazionismo.
Per la prima volta le donne rifiutavano
l’egualitarismo come ‘emancipazione’, enfatizzando
invece la diversità.
A differenza dei primi
movimenti femministi, che avevano concentrato le
proprie energie sull’apertura delle istituzioni al
voto femminile, e creduto fermamente nella democrazia
parlamentare, il movimento che si sviluppa all’inizio
degli anni Settanta è permeato da una profonda
avversione per lo Stato. Certo che le istituzioni
parlamentari si erano rivelate incapaci di realizzare
riforme reali, ed il movimento femminista si mostrò
spesso diffidente nei riguardi delle leggi in
generale. Lo dimostra ad esempio la campagna sulla
violenza sessuale del 1978-79, che non si pose come
obbiettivo primario la presentazione di una legge e la
relativa approvazione.
Un altro elemento di
differenziazione sta nella radicalità degli obbiettivi
perseguiti, e nei metodi di lotta utilizzati (azioni
espressive, violazioni di regole, pratica
dell’autocoscienza, lotte politiche a fini
istituzionali).
All’inizio degli anni
Settanta vi fu una grande crescita di raggruppamenti
femministi, che pur nascendo dallo stesso clima
culturale, erano molto spesso autonomi l’uno
dall’altro, e ogni gruppo privilegiava uno degli
aspetti della condizione della donna. Vi erano unioni
come il Gruppo Demistificazione Autoritarismo (DEMAU),
nato nel 1966, secondo cui la causa dell’oppressione
della donna non è determinata unicamente dalla
condizione economica, ma dipende soprattutto dai
valori interiorizzati, che hanno nella famiglia il
principale punto di riferimento e di riproduzione. Vi
è una forte critica della famiglia, e quindi
dell’autoritarismo patriarcale, che diventa più in
generale una critica ai fondamenti autoritari della
società.
Anche nel movimento
femminista, come negli altri nuovi movimenti sociali
del periodo, centrale è la tematica
dell’autoritarismo. Vengono messe in discussione le
istituzioni sociali e i valori dominanti della società
‘patriarcale’; valori maschili, che avevano portato
alla supremazia dell’uomo nelle società. Da questo ne
è derivato un carattere di forte contrapposizione,
spesso di antagonismo, che il movimento femminista
assunse verso la società maschile.
Vengono criticati i
modelli culturali legati al ‘maschilismo’,
l’organizzazione della società che è vista come
imposizione di una gerarchia tipica del mondo
maschile, e criticano anche il modello femminile che
viene proposto sia dalla cultura tradizionale che dai
mass-media.
Secondo altri gruppi,
come ad esempio Lotta Femminista e Rivolta Femminile,
la causa dell’oppressione delle donna era costituita
dal lavoro domestico. Infatti la conquista del salario
per il lavoro domestico veniva considerata il primo
passo verso la liberazione della donna. Questa
rivendicazione venne aspramente contestata da altre
componenti del movimento femminista, che vi videro la
rinuncia all’obbiettivo della socializzazione del
lavoro domestico.
Altra tematica centrale
nel movimento era la richiesta della depenalizzazione
dell’aborto, che ha rappresentato la punta di massima
mobilitazione ed aggregazione del movimento femminista
italiano. Il Movimento della Liberazione della Donna (MLD),
al suo primo congresso, aveva stabilito che la
liberalizzazione della sessualità femminile dal
maschio significava sia liberalizzare la
contraccezione e l’aborto, sia riappropriarsi di sé e
del proprio corpo.
Ebbero luogo grandi
manifestazioni che arrivarono a contare centomila
partecipanti, ed è anche grazie all’intervento delle
femministe, che nel 1978 viene approvata la legge
sull’interruzione volontaria della gravidanza.
I gruppi femministi di
provenienza marxista, come il Movimento di Liberazione
della Donna Autonomo (MLDA) che si era formato
all’interno del movimento studentesco del ’68,
insistevano sull’inscindibilità del rapporto fra lotta
di liberalizzazione della donna e lotta di classe.
L’ala moderata del movimento era rappresentata da quei
gruppi come Fronte Italiano di Liberazione Femminile (FILF),
che erano assolutamente contrari ad ogni forma di
separatismo, si può dire che erano molto più vicini
alle tematiche del tradizionale ‘movimento di
emancipazione delle donne’, che non a quelle del
neo-femminismo.
Il movimento femminista
ha sperimentato forme organizzative alternative sia
nella struttura che nei metodi di lavoro, da quelle
utilizzate ad esempio dal movimento degli studenti
(particolarmente importante per la nascita del
femminismo), che è stato criticato per il suo
verticismo, la burocratizzazione e il centralismo. Le
donne sottolineavano la discrepanza fra l’ideologia
egualitaria del movimento e l’oppressione che
continuavano a subire al loro interno.
Il movimento femminista,
ad eccezione dell’Unione delle Donne (UDI), vicina al
Pci, e del Movimento di Liberazione delle Donne (MLD)
vicino al partito radicale, si strutturò in piccoli
gruppi decentrati e informali con un basso livello di
coordinamento, delegittimando ogni tipo di potere
formale e burocratico. Il piccolo gruppo
rappresentava, nelle intenzioni delle attiviste, il
rifiuto della burocrazia e dell’aspirazione al potere,
visti come elementi tipicamente maschili.
Il coordinamento tra i
vari gruppi avveniva all’interno di organizzazioni di
movimento, costituite per svolgere questa funzione. A
questo proposito furono create delle sedi cittadine,
come ad esempio quella di via Col di Lana a Milano e
di via del Governo Vecchio a Roma. A partire dalla
metà degli anni Settanta in numerose città furono
aperte delle librerie delle donne, fondate case
editrici (come Il vaso di Pandora e La Tartaruga),
delle riviste come Noidonne, Campagna, Effe,
Differenze, Quotidiano Donna, con lo scopo di creare
una rete di coordinamento tra i vari gruppi. Anche i
campeggi, organizzati annualmente, rappresentavano
altrettante occasioni di incontro per i collettivi
attivi in tutto il paese.
Nella sua fase
d’incubazione, il movimento delle donne si presentò
come un movimento soprattutto culturale, rivolto a
trasformare il sistema dei valori e il modo di fare
politica. Lo scopo delle donne era di superare il
tradizionale discorso sull’emancipazione con quello
più innovativo della liberazione, che verrà cercata
attraverso due percorsi.
Il primo, più
psicologico, sfocerà nella pratica dell’autocoscienza,
cioè in una rivisitazione della vita quotidiana
insieme ad altre donne, considerata fondamentale per
analizzare le dimensioni culturali e sociali
dell’oppressione della donna. Più che di politica i
collettivi femministi discutevano di temi quali la
riproduzione, la sessualità, i rapporti interpersonali
e la vita quotidiana.
Il secondo, più
economicista (che non riscuoterà tanto successo
all’interno del movimento), verrà portato avanti da
quei gruppi, come ad esempio Lotta Femminista, che
chiedevano il salario per le casalinghe. Qui
l’attenzione veniva focalizzata sullo sfruttamento
materiale, economico delle donne in casa, che secondo
questi gruppi stava alla base di ogni altro aspetto
della condizione femminile.
I collettivi femministi
affermarono il ruolo centrale della contraddizione
uomo-donna, la prevalenza della differenza di sesso
rispetto all’unità di classe. In generale il movimento
si concentrò sui temi più legati alle trasformazioni
della cultura, che alla riforma delle istituzioni.
L’attenzione al potere era svanita e prevalse la
voglia di trasformare se stesse, senza curarsi troppo
della realtà esterna. L’autocoscienza, pratica
inventata negli Stati Uniti e poi diffusa in Italia
dai gruppi di Rivolta Femminile, divenne il modo
alternativo di fare politica. Vi fu la rinuncia da
parte di molte donne all’altra politica, alla politica
al “maschile”, e di conseguenza l’uscita dalle
organizzazioni della vecchia e nuova sinistra.
Secondo le donne c’era
un solo modo per sottrarsi al simbolico maschilismo:
partire da sé. Nel piccolo gruppo di autocoscienza le
donne socializzavano esperienze di vita personale,
mettevano insieme quello che verrà chiamato il
‘proprio vissuto’. Il movimento diverrà così il luogo
di ricostruzione del percorso di oppressione subito
dalle donne, e dove si sperimentavano nuovi rapporti
non autoritari.
Il movimento delle donne
introdusse nuovi modelli di protesta nel repertorio
dell’azione collettiva, come ad esempio le
auto-denunce pubbliche sul tema dell’aborto. La
ricerca di forme d’azione ‘non maschili’ portò i
collettivi femminili a puntare sulla creatività,
attraverso mostre grafiche, improvvisati sketch per
strada, o la distribuzione di volantini fumetto. Alla
violenza si sostituiva la provocazione con fantasia,
come fu ad esempio il blocco per quattro ore delle
linee telefoniche di un quotidiano.
Venivano utilizzate anche
tattiche di protesta basate su azioni illegali ma non
violente. Ad azioni perturbative, come l’occupazione
di luoghi pubblici e asili, l’incatenarsi ai cancelli
di edifici pubblici, si aggiunse la pratica del
self-help per l’aborto, chiamata ”autogestione
dell’aborto”.
Caratteristica del
movimento femminista, ma di tutti quelli che si
sviluppano negli anni Ottanta come quello pacifista ed
ecologista, è la mobilitazione su single-issue.
All’inizio degli anni
Ottanta anche il movimento femminista, come gli altri
movimenti del periodo, entrò in una fase di crisi. Ma,
a differenza di buona parte degli altri movimenti,
esso non scomparve, si trasformò in un’aggregazione di
centri culturali, riviste sempre meno impegnati su un
terreno direttamente politico, ma caratterizzati da
una ricchissima produzione culturale.
Riferimenti
biblioghrafici:
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