N. 7 - Luglio 2008
(XXXVIII)
Il brigantaggio
politico
Presupposti e limiti
della rivoluzione
borghese del 1860
di Ciro Pelliccio
Il brigantaggio postunitario presenta delle indubbie
peculiarità rispetto alle forme precedenti.
Un primo elemento di differenziazione sostanziale è
il forte condizionamento che il fenomeno ha dal
crollo del regno, questa volta, a differenza del
1799 e del 1806, irreversibile sotto la spinta di un
processo rivoluzionario esterno; un secondo è lo
stretto legame che esso ha con il processo
d’unificazione guidato dalla destra moderata e le
sue profonde ripercussioni sulle strutture politiche
e sociali del mezzogiorno, soprattutto quello
continentale.
Un terzo elemento è rappresentato dalla profonda
crisi economica che il Sud attraversa ormai fin
dallo sbarco a Marsala, dovuta alla rapida
integrazione di mercati molti diversi
strutturalmente e alla stagnazione economica
derivante dall’impegno bellico: costituzione di un
mercato unico, l’importazione d’inflazione,
l’abolizione del protezionismo; tutti errori
destinati a provocare forti squilibri economici tra
le varie parti dell’Italia, ma soprattutto nell’ex
regno delle Due Sicilie. Crisi tanto devastante
quanto più va ad inserirsi nella deludente fase
della soluzione della questione demaniale.
Per comprendere come il brigantaggio si sviluppa
nella grande crisi del 1860-1861, occorre analizzare
la reazione delle classi rurali all’avanzare di
Garibaldi. Diversa è la reazione tra la Sicilia e il
continente, e in quest’ultimo diversissima fra le
varie aree geografiche. In Sicilia vi è,
nell’immediatezza, un primo e considerevole appoggio
del contadiname, che si organizza nelle bande dei
«picciotti» guidate dalla borghesia liberale a sua
volta egemonizzata dalla potente nobiltà fondiaria,
chiaramente annessionista.
Non è, peraltro, estranea la tradizionale ostilità
verso il Borbone. Poco dopo la conquista di Palermo
però si intravedono i primi elementi della
trasformazione del carattere dei moti contadini, che
si connota ora in rivendicazioni sansimoniste
culminanti nell’episodio della ducea di Bronte in
cui si consuma lo strappo definitivo tra il
garibaldinismo e la masse contadini. Istanze che non
possono peraltro essere recepite da un esercito
rivoluzionario composto quasi esclusivamente da
settentrionali –democratici o moderati che siano – e
che si pone nell’immediato solo l’obiettivo politico
di Roma e Venezia. Verso queste istanze é quindi
indifferente, ostile, distante per mentalità, stili
di vita dai contadini siciliani, tradendo in tal
senso la sua composizione medio-borghese.
Nel Mezzogiorno continentale in Calabria,
Basilicata, Puglia e i due Principati, si ha una
posizione molto simile a quella siciliana: un’attesa
iniziale fiduciosa delle classi rurali alimentata
dalle promesse dei possidenti. Anche qui il moto
viene interpretato come rivendicazione di classe:
rivendicazione delle terre usurpate, riaffermazione
degli usi civici soppressi. Nelle province a Nord,
gli Abruzzi, Terra di Lavoro, Contado di Molise le
masse contadine rimangono sostanzialmente fedeli
alla dinastia, e danno, di conseguenza, uno
scarsissimo appoggio alle truppe di Garibaldi che
urtano sempre più sul fronte determinato
dall’aggregazione delle bande contadine con truppe
regolari borboniche; atteggiamento cui sono spinte
proprio in reazione alle insurrezioni provocate dai
gruppi liberali delle province.
Nell’ottobre del 1860 interviene l’esercito
piemontese con la direttiva fondamentale di
riportare l’ordine a Napoli e per il quale appare
necessario fermare i garibaldini e spegnere la
fiamma insurrezionale: negli ultimi due mesi del
‘60, contro anche il parere di Vittorio Emanuele II
e Cavour, il generale Fanti «congeda» tutti i
volontari. Molti di questi però sono ormai
meridionali, reclutati da elementi della borghesia
liberale che hanno progettato un loro inserimento
nel futuro quadro politico ed istituzionale del
nuovo stato, e la chiara liquidazione cui sono ora
sottoposti è interpretata come il rifiuto della
destra cavouriana e moderata di collaborare ed
accettare una qualsiasi forma d’alleanza con la
piccola e media borghesia meridionale che tanto ha
fatto contro l’assolutismo borbonico.
La discriminazione antidemocratica spinge il governo
di Cavour su posizioni concilianti verso uomini e
strutture ex borboniche, riorganizzando su tale
principio la stessa Guardia Nazionale, che quale
braccio armato della borghesia liberale ha sempre
escluso elementi borbonici. E’ evidente la profonda
frattura creatasi sul fronte liberale. Questa scelta
di moderatezza è quella che forse più influisce
sull’atteggiamento della borghesia meridionale
complessivamente e che costituirà il fattore
politico-militare che agevolerà l’esplosione del
brigantaggio.
Intanto alcune scelte impopolari aggravano la
situazione materiale dell’ex regno. Una leva di
36.000 uomini è chiamata proprio mentre scoppiano i
primi tumulti anti-unitari, con l’effetto di
spingere sulle montagne ben 10.000 renitenti.
L’oscillante politica dei moderati verso il clero è
un altro degli errori d’estrema gravità e carichi di
conseguenza sulle vicende successive.
La crisi industriale, il calo della produzione
agraria, la stagnazione degli scambi determinata
dalla campagna garibaldina, l’importazione
dell’inflazione, il protezionismo doganale venuto
meno nell’immediato dell’Unità, sono i fattori che
più mettono in crisi la struttura sociale del
mezzogiorno che subisce rapidi processi di
depauperazione nelle classi rurali, operaie e
perfino del ceto medio cittadino delle province.
Questo contesto economico influisce non poco sulle
scelte di adesione al brigantaggio da parte delle
classi più povere, spinte dalle ormai sempre più
misere condizioni di vita morali e materiali. Perchè
mentre nel passato borbonico la sovrappopolazione
relativa nelle campagne dovuta a fasi congiunturali
negative del ciclo economico veniva assorbita da
fenomeni di immigrazione interna o dalla politica di
investimenti pubblici, nell’immediato
dell’annessione la disoccupazione diventa
strutturale e facilita il reclutamento coattivo
nelle varie bande di briganti.
E’ il clero però il primo artefice della razione su
cui esercita una notevole influenza i decreti
anticlericali emessi dal Mancini durante la
luogotenenza Carignano, che aboliscono il concordato
del 1818 e minacciano la confisca dei beni
ecclesiastici. Sebbene mai attuati, spingono il
clero in funzione reazionaria. Nell’autunno del 1860
scoppiano i primi moti repressi nel sangue dalla
Guardia Nazionale un po’ in tutti i piccoli centri
della provincia. Nella primavera del 1861 vi è una
recrudescenza del fenomeno che impone al dicastero
Ricasoli, successo a Cavour, deceduto nel giugno
dello stesso anno, a prendere atto del fallimento
della discriminazione antidemocratica, optando per
un’opzione militare.
Cialdini attua una inaspettata apertura ai
Democratici, nel palese tentativo di costruire un
fronte unico con i Moderati contro la reazione. Con
i Democratici è possibile accordarsi, per poi
eliminare il Partito d’Azione una volta soffocata la
reazione. Attua con una certa abilità questa linea,
scatena un persecuzione della nobiltà legittimista,
istituisce zone militari impiegando truppe regolari
che assicurano la sicurezza almeno dei grossi centri
abitati e dei maggiori assi viari. Nell’estate del
1861 nuove forze arrivano nelle province
meridionali, fino a giungere nel dicembre a 50.000
unità. Nell’autunno i Moderati, che hanno accetto
con riserva l’esperimento del fonte unico del
Cialdini, optano decisamente per una svolta
accentratrice per il pericolo che intravedono nelle
minacce al regime unitario.
Le repressioni dell’estate del 1861 portano ad una
stasi della situazione che conosce però nell’autunno
un nuovo sussulto, in cui si verifica il passaggio
dal brigantaggio politico a quello sociale, in cui i
legittimisti devono lasciare la guida della reazione
alla protesta dei contadini.
La chiusura dell’esperienza del Borjes segna
l’inizio del brigantaggio in grande stile che
imperverserà fino al 1865 almeno. Grosse bande a
cavallo si confrontano militarmente con l’esercito
italiano in centinaia di scontri. Emergono capibanda
tutti contadini, per lo più salariati o ex soldati
borbonici: Tamburini e Pastore in Abruzzo, Centrillo
sulle Mainarde, Chiavone nel sorano, Guerra e Fuoco
in Terra di Lavoro, Giordano nel matese, i fratelli
La Gala in Irpinia, il sergente Romano nel barese,
Crocco, Ninco Nanco ed altri fra Basilicata,
Capitanata e Molise. Gli scontri diventano sempre
più numerosi. Il generale Franzini denuncia 111
scontri nei solo dieci mesi del 1862 nell’
avellinese.
Nel novembre del 1863 il giornale milanese “La
Perseveranza” pubblica una corrispondenza da Napoli
nella quale si afferma, sulla base dei dati forniti
dal VI Gran Comando, che ogni giorno arrivano da 60
a 100 rapporti su fatti di brigantaggio. Dinnanzi ad
un fenomeno di così vasta scala la classe politica
si divise: i Moderati, cercarono di minimizzarlo, se
non nasconderlo, limitandosi ad indicare nella
presenza di Francesco II a Roma l’origine del
problema chiedendone un allontanamento; la Sinistra
intraprende una battaglia aspra in sede
parlamentare, sia pur nei limiti prevalentemente
politici di non vanificare l’ Unità appena
raggiunta.
L’esercito appare sempre più il protagonista della
lotta che coinvolge tutto l’ex regno. Anni dopo, il
Settembrini scrisse che l’esercito era «il filo di
ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita».
Il generale Mazè de la Roche, comandante della zona
militare del Molise, scrive già nel 1861: «Nel
distretto sono sindaco, giudice, comandante dei
carabinieri esercito un’autorità quasi assoluta su
una quindicina di comuni tra cui vi è un capoluogo
di provincia col suo governatore».
Nel febbraio del 1864 nel Mezzogiorno continentale
sono di stanza 116.000 uomini, sottoposti ad un
logorio ed un’usura che poteva compromettere
l’intero esercito. Pertanto, dopo la fine dello
stato d’assedio diventa improcrastinabile per
Esercito e Governo lanciare l’offensiva definitiva
contro il brigantaggio. I prodromi si hanno con
l’arrivo di Minghetti, che ha Spaventa a capo della
polizia e Peruzzi al ministero dell’Interno.
Spaventa nel dicembre del 1862 scrive: «Distruggere
radicalmente e presto il brigantaggio nel Napoletano
o condannarsi a perire».
L’intenzione è di istituire tribunali militari per i
briganti e i complici, mobilitazione della Guardia
Nazionale, potenziamento della Polizia e dei
Carabinieri, soldo regolare e pensioni ai
repressori. L’introduzione della Legge Pica
nell’Agosto del 1863 rappresenterà la sanzione
giuridica ad una prassi repressiva già da tempo in
atto. I tribunali militari svolgono il loro compito
celebrando circa 3.600 processi solo fra il ‘63 e il
‘64 e giudicando 10.000 persone, di cui oltre 6.000
sono contadini. Nella sola Basilicata, il Racioppi
parla di 2.400 arresti nei primi sei mesi di
applicazione della legge. Si parla di altri 12.000
arresti e deportazioni nelle isole.
L’artefice della soppressione definitiva del
brigantaggio è il Pallavicini che usa una tattica di
«persecuzione incessante» che, pur costando
all’esercito un forte logoramento, ottiene il
risultato sperato. Verso la fine del 1863 sconfigge
la banda di Michele Caruso; nel 1864 quella di
Crocco. Fra il 1860 e il 1865 il grande brigantaggio
con più forte connotazione politica, fu battuto sul
piano militare. Dopo il 1865 il fenomeno restò
diffuso, con un’impennata nel 1867, ma privo delle
motivazione politico-insurrezionale e oggetto ormai
di sola repressione poliziesca.
Il brigantaggio e la sua repressione appaino forse i
limiti più evidenti dell’intera rivoluzione borghese
italiana: il Risorgimento. L’interesse storiografico
sul fenomeno riflette immancabilmente posizioni
ideologiche e politiche divergenti. Appare
eccessivamente riduttivo l’interpretazione
conservatrice che tende a descrivere e circoscrivere
il fenomeno come di matrice esclusivamente
delinquenziale ma neppure appiano condivisibili le
interpretazioni di una certa Sinistra che vuole
conferire al brigantaggio un contenuto
anticapitalistico, o comunque antiborghese, maggiore
di quanto ne abbia in realtà.
Questa vede nei contadini un’avanguardia
rivoluzionaria o, quantomeno, un tentativo
alternativo di formazione della società italiana in
opposizione alla Destra moderata e borghese.
Questa analisi presuppone una coscienza di classe e
una diffusa consapevolezza di massa che non può
esistere. Interpretazioni di questo genere
riflettono suggestioni populistiche o
anarcoideggianti che idealizzando la spontaneità
delle classi subalterne. E’ utile, invece,
concentrare l’analisi su due problematiche di fondo
del brigantaggio postunitario: il carattere di
classe e l’impatto che ha sulla crisi della società
meridionale, e quindi sul processo di formazione e
consolidamento dello Stato Unitario. Il primo
aspetto è pacificamente riscontrabile nella
composizione sociale delle stesse bande dove tutta
la base, la gerarchia intermedia e quella apicale
appartiene ai ceti contadini.
L’estrema povertà, la mancanza assoluta di una
qualsiasi proprietà o di forme di condivisione della
rendita agraria, predispongono i ceti rurali alle
coercizione extraeconomica della stessa rendita. Per
il secondo aspetto, si può senz’altro notare come il
fenomeno ha consensi, ampi, in parte occulti, dagli
strati semiproletari e poveri delle campagne:
fittavoli, coloni, piccoli proprietari parcellari.
Questo appoggio rende possibile l’esistenza e il
risorgere del brigantaggio anche dopo colpi che
sembrano letali, poiché alimenta di continuo le
bande.
Questo appoggio, peraltro, trova origine dal
malcontento per lo sfruttamento diretti dei ceti
proprietari e dal tipo di soluzione che questi
stanno dando all’annosa questione demaniale.
L’influenza degli sviluppi storici della questione
demaniale e delle soluzioni che vanno a adottarsi, e
la sua connessione con il brigantaggio è così palesi
da non sfuggire agli stessi contemporanei: il
Massari, superficialmente; più acutamente il Saffi.
La questione demaniale protrattasi per tutta la metà
del secolo, costituisce un fattore importante nella
trasformazione dei rapporti di proprietà nella
campagna dove però i rapporti di produzione in
agricoltura rimangono alla stato ancora feudale.
Le forze politico-sociali promotrici sono la
monarchia (i napoleonici prima e i Borbone dopo) che
tendono a riportare i rapporti sociali, politici ed
economici sotto il controllo di uno stato
centralizzato; dall’altro una nascente borghesia
fondiaria che aspira a ricondurre la proprietà
terriera sotto il diritto comune. Ma nel 1860, dopo
oltre 50 anni di operazioni demaniali, risultano
distribuiti solo 116.264 quote per 205.988 ettari, e
la maggior parte di esse sono ripassate nelle mani
dei ceti possidenti. Tuttavia il liet motiv della
quotizzazioni, anche quando espressione della
piccola e media borghesia, è un indubbio strumento
politico perché dirotta le pretese delle classi
rurali solo sui terreni demaniali, e nell’incanalare
la loro lotta sul solo terreno della legalità,
impedisce la formazione di un «comunismo agrario»
che avrebbe avuto quale obiettivo la completa
espropriazione e ridistribuzione della rendita
agraria.
I briganti non furono tutti partigiani del re, nè
furono tutti banditi di strada, pur tuttavia è
singolare come le due diverse anime siano convissute
a volte nella stessa persona, tant’è che molti
provenivano dall’esercito garibaldino; sicché molti
furono briganti e partigiani insieme. Vi era inoltre
un folto numero di essi che, giovani e meno giovani,
vivevano al limite delle legalità. D’altronde al Sud
occorreva davvero poco, per gli appartenenti alle
classi meno abbienti, diventare fuorilegge. La
durezza della vita, la scarsa elasticità del
sistema, la costellazione di abusi, sfornavano
tecnicamente molti delinquenti.
C’era quindi un’aspirazione diffusa al rientro
all’ordine e molti videro nella risalita del
Garibaldi la possibilità di riabilitarsi; ma ben
presto furono delusi .Questa esperienza rimane
tuttavia importante perché senza l’esempio delle
camicie rosse, il proletariato rurale non avrebbe
mai preso appieno coscienza delle prospettive che
potevano loro schiudersi nel far parte di un gruppo
armato. Lo capì perfettamente Torino che cercò
subito di disinnescare la bomba garibaldina
sciogliendo l’esercito. Il regime borbonico non era
esattamente «la negazione di Dio eretta a sistema»
tanto cara al Lord Gladstone, ma rimaneva tuttavia
un refuso della vecchia Europa in via di
dissoluzione. Il sostegno della classe media, nerbo
di ogni sistema moderno, non ci fu al momento di
crisi del regno. Anzi la parte più liberale si
affrettò a decretarne la fine perché si ispirava a
modelli culturali e politici che i Borbone non
avevano mai preso in considerazione. Furono le
avanguardie di questi a indurre in errore i
Piemontesi.
I fuoriusciti che vivevano in Piemonte non erano
attendibili e l’errore più grande che fecero fu
quello di spargere la voce dell’arcadia meridionale.
Un regno ricco di risorse e di terre fertili che in
realtà non esistevano. Essi appartenevano tutti alla
classe più colta, che si era formata nella capitale,
che non conosceva assolutamente la vita nelle
province. Ritenevano che sarebbe bastato qualche
riforma liberale e un poco di lavori pubblici per
integrare i due stati e le due economie. Non
parlarono del baratro d’odio che divideva i
galantuomini dai contadini; non parlarono della
miserevole vita delle classi rurali e della violenza
che generava; non parlarono della lacerazione di
ogni tipo di rapporto sociale.
Così i piemontesi bevvero il racconto dei
fuoriusciti, anche perchè non disponevano di
informazioni di prima mano.
Calcoli politici elementari, disinformazione,
faciloneria politica fecero sì che l’incontro tra le
due Italie si risolvesse nell’amarezza delle
delusioni incrociate e il brigantaggio fu il primo
frutto di queste delusioni. Anche i galantuomini di
sicura fede unitaria, rimasero delusi: speravano in
un matrimonio, assistettero ad uno stupro.
I piemontesi si aspettavano essere accolti con i
fiori e le fanfare, invece furono accolti a
fucilate; i contadini si aspettavano un
miglioramento delle proprie condizioni di vita,
trovarono il plotone di esecuzione. S’erano
aspettate campagne ricche e trovarono una massa di
cafoni poveri, da cui trassero questo convincimento:
il paese è ricco di risorse e questi sono poveri,
vuol dire che non hanno voglia di lavorare; ma
impareranno presto! Da qui alla logica del plotone
di esecuzione come strumento pedagogico, il passo fu
breve.
Le forze che si contrapposero furono notevoli. Nel
1862 vi erano nell’ex regno 52 reggimenti per oltre
120.000 uomini, 83.927 uomini della Guardia
Nazionale, 7.489 carabinieri che si opponevano a
135-140.000 componenti le varie bande.
Il bilancio della “rivoluzione italiana” fu
drammatico. Non esistono cifre precise, ma quelle
più accreditate danno, dal 1861 al 1870, 123.860
fucilati, 130.364 feriti, 43.629 deportati, 41 paesi
completamente distrutti; 10.760 briganti condannati
all’ergastolo, 382.637 briganti condannati a pene
varie. Da parte piemontese le perdite ammontarono a
21.120 soldati caduti in combattimento, 1.073 morti
per malaria o malattie o ferite, 820 dispersi.
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- Arturo Berisio Editore -1965
Pasquale Soccio, Unità e brigantaggio, Edizioni
scientifiche italiane
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drammatici giorni della fedelissima Civitella del
Tronto, Editrice “ La perseveranza”
Giorgio Cucentrentoli di Monteloro, Morire a
Civitella del Tronto, Editrice “la Perseveranza”
Luisa Basile e Delia Morea, I briganti napoletani,
Editrice newton
Carlo Alianello, La conquista del Sud, Rusconi
editore
Bianco di Saint Joriz, Il brigantaggio alla
frontiera pontificia dal 11860 al 1864, Milano,
Daelli, 1864, Forni Editore
Coppini, Storia politico militare del brigantaggio
nelle province meridionali d’italia, Firenze 1884,
Forni editore
Denis Mack Smith, Garibaldi una grande vita in
breve, Mondadori editore, 1993
Don Giuseppe Buttà, Un viaggio da Boccadifalco a
Gaeta, Bompiani Editore 1985
Aldo De Jaco, Il brigantaggio Meridionale, Ed.
Riuniti, 1979
Michele Topa, I briganti di Sua Maestà, Fratelli
Fiorentino editori
Roberto Maria Selvaggi, Nomi e volti di un esercito
dimenticato, Editori Napoli, 1990
Salvatore Scarpino, Indietro Savoia, Leonardo
paperbook
Antonio Ciano,I Savoia e il massacro del Sud,
Gradmelò Editore
F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità
d’Italia, Feltrinelli editore, 1964
F. Barra, Il brigantaggio in campania. in «Archivio
storico delle province napoletane», Società
Napoletana di Storia Patria
Teodoro Salzillo, L’assedio di Gaeta 1860-1861,
Controcorrente editore
AA.VV.La storia proibita- Quando i piemontesi
invasero il Sud- Controcorrente Editore
Ciro Pelliccio Il regno delle due Sicilie 1806-1860
– analisi della struttura economica e sociale -
Carabba Editore
Ciro Pelliccio,Teoria e prassi rivoluzionaria nel
regno di Napoli alla fine del XVIII secolo Graus
editore
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