N. 2 - Luglio 2005
LA TOMBA FRANÇOIS. UNA GUIDA, II
Protagonisti dello scavo e personaggi
nel sepolcro
di
Antonio Montesanti
Ogni sepolcro, tomba, ipogeo o tempietto venne
eclissato dal rinvenimento della Tomba dei Saties:
l’istante è l’esemplificazione della passione per
l’antico in cui questa si materializza in un’emozione
fibrillante di straordinario entusiasmo.
In
pieno Ottocento, A. François era tra i più temerari
esploratori di necropoli etrusche. A Vulci, con
l’archeologo francese Adolphe Noél des Vergers,
conobbe la Principessa Alexandrine vedova di Lucien
Bonaparte (1775-1840), principe di Canino e fratello
di Napoleone. Spinto dalla passione per la ricerca di
antichità etrusche, l’archeologo fiorentino, proseguì
l’opera del fratello di Napoleone interrotta nel 1841.
Nel 1857, due anni dopo la morte di Alexandrine,
otteneva l’autorizzazione di scavare nei possedimenti
Torlonia, Principi di Canino.
A.
François osservando la conformazione geo-morfologica
calcarea di una collina nei pressi del Ponte Rotto,
sul fiume Fiora, trasse da un inusuale ed isolato
allineamento di floride querce fasciate per circa 2 m
da una rigogliosa vegetazione, la deduzione che queste
affondassero le proprie radici non su un banco litico
ma in una parte terrosa particolarmente ricca.
L’allineamento delle stesse si estendeva in linea
retta verso la sommità della collina e riportava alla
possibilità che si fosse in presenza di un lungo
dromos (corridoio d’ingresso alla tomba) che
conducesse ad una camera ipogea. Abbattuti gli alberi,
dopo un paio di giorni di scavo veniva individuata
l’embrionale intuizione. Guidato dal rinvenimento di
un cippo inscritto con il nome di Ravnthu Seitithi,
personaggio femminile della gens Saties,
spinto dall’entusiasmo, non si fermò di fronte alle
cataste di nenfro fino all’individuazione
dell’architrave d’accesso. Percorse
i 30 metri del dromos, incuneandosi
immediatamente all’interno del vano ancora inviolato.
Dopo diverse fatiche per lo svuotamento delle aree
interessate, giunse all’accesso vero e proprio della
tomba. Il dromos terminava con tre gradini che
portavano all’atrio che aveva delle celle laterali
nelle quali si trovavano i corpi di giovani,
identificabili dai corredi come guerrieri. Individuò
dapprima tre, poi cinque ambienti e dopo
l’abbattimento del muro di separazione, ancora altre
tre camere, di cui l’ultima conteneva il ciclo
pittorico di cui lo scavatore ne da solo un accenno. “Questo
monumento sepolcrale è superbo di somma importanza
scientifica, non tanto per la primitiva costruzione
quanto per l’architettura, ma più di tutto per la
bellona delle pitture delle quali vanno adorne le
pareti...essendo ciascuna figura munita di una
iscrizione etrusco... senza della quale circostanza si
sarebbe creduto che questo sepolcro avesse appartenuto
ad altra epoca… tanto belle da far rammentare i bei
tempi del Botticelli e del Perugino” (Bullettino
dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica). Solo
le leggende dei nomi in etrusco apposti presso le
figure svegliarono lo scopritore dall’eventualità che
ci si trovasse di fronte ad un’opera rinascimentale.
Due
lastre di nenfro separavano la camera sepolcrale
principale anch’essa affrescata. Il tiepido risalto
dato all’opera scoperta è giustificato dall’accordo
tra il François e il Des Verges a cui andava la
pubblicazione e lo studio dell’intero ipogeo. Siamo
quindi di fronte alla nota contrapposizione tra
l’archeologo da campo, cui spetta la fortuna della
scoperta, e quello da tavolo, a cui è riservato
l’onore de la pubblicazione.
La
più antica tomba dei Saties, era costituita da
un unico grande ambiente quadrangolare, (m 7,90 x m 6,
h. 2,40). Durante l’ampliamento di epoca ellenistica
la particolare conformazione del travertino
superficiale friabile, inadatto alla realizzazione di
molteplici e grandi vani, spinse gli scalpellatori a
scendere alla profondità di m 15,50, tramite alti
gradoni. Venne scavato un ambiente a T a pianta
rettangolare con due banchine sulle pareti che faceva
da atrio alla pianta sepolcrale complessa di tipo
isometrico.
Questo conteneva 8 deposizioni, due per ogni banchina
di deposizione e 4 urne, due di nenfro e due di
travertino, oltre al ricchissimo corredo composto da
almeno 250 oggetti in terracotta, oro e bronzo.
Il
rinvenimento della Tomba dei Saties da parte di
Alessandro François ebbe un’eco enorme in tutta
Europa, e la sua morte improvvisa portò, visto l’alto
interesse, allo smembramento del corredo in diversi
musei europei. Le tre camere sepolcrali sulla destra,
sul finire del IV secolo, erano accessibili soltanto
attraverso rispettive porte, poi tamponate e dipinte.
Nel II secolo le porte delle camere sul lato lungo,
compresa quella dipinta con un antenato di Vel
Saties, vennero sfondate per poter accedere
alle camere tanto da poterle usare per ulteriori
deposizioni. Per comodità le tre porte non vennero
murate di nuovo singolarmente, piuttosto venne eretto
un muro interno sulla destra dell’ingresso, il c.d.
“muro rozzo che formava un singolare contrasto col
rimanente del vestibulo ricoperto di esimie pitture”,
con lo scopo di impedire ai profanatori di penetrare
nelle camere sepolcrali, e che venne abbattuto nel
1860 da Heinrich Brunn.
La
pianta a forma di T della camera principale trova
interessanti analogie con le tombe più tarde della
necropoli di Ponte Rotto ma soprattutto con l’area
macedone ed ellenico settentrionale, ed in particolare
con la pianta di una poco più antica di Lefkadia,
accostamento confermato dalle pitture parietali che si
ritrovano in alcune tombe imperiali macedoni di Aege (Vergina).
Le analogie non si fermano ai settori artistico ed
architettonico: le tre dimensioni si basano sul piede
attico (cm 29,6), utilizzato come unità di misura,
piuttosto comune in Macedonia. Le differenze sono
minimali: la tomba di Lefkadia presenta un’unica
apertura, mentre le aperture nella tomba François sono
sette come le camere sepolcrali disposte a raggera.
Superato l’ingresso, ci si trova in una stanza che si
sviluppa in senso trasversale e che, per comodità,
chiameremo orizzontale. Essa misura 6,83 m di
lunghezza e tre metri di larghezza, il punto più alto
si trova a 3,20 m, dove è impostato un columen
a cui si appoggiano undici saettoni o travetti obliqui
scolpiti nel travertino, riproducendo un tetto a
doppio spiovente.
La
camera verticale, quella in cui si accede e con la
quale forma una T con la prima, presenta una
decorazione superiore scolpita composta da un soffitto
a finti cassettoni dove nel centrale si trovava la
testa barbata in calcare di Charun.
Al
di sotto dell’imposta del tetto per l’intero perimetro
della camera sepolcrale corre una mensola a sezione
stondata o toro, dipinta con vivaci policromie a serie
di foglie orizzontali sovrapposte, convergenti verso
il centro, con doppio listello rilevato piano con
ovuli e serie di archetti penduli.
Nella camera verticale, grande metà della
perpendicolare, la decorazione è 35 cm più bassa che
nella stanza orizzontale. Lo sfasamento decorativo è
giustificato dall’assenza del fregio animalistico,
nell’ambiente orizzontale, alto proprio 35 cm e
presente solo nella porzione orizzontale e compensato
dalla decorazione a meandri e svastiche
tridimensionali.
Il
fregio animalistico rappresenta belve reali e
fantastiche e mitologiche, nella sua settorialità
sottolinea la distinzione dell’ambiente orizzontale da
quello verticale, già evidente nella scultura di
copertura. Il fregio corre lungo tutta la camera se si
esclude l’interruzione dovuta alla presenza del demone
femminile alato Vanth sopra il masso portato da Sisifo.
Sulle pareti dell’atrio e del tablino venne disposto
il fregio pittorico.
I
pannelli o le scene eroico -mitologiche figurate, si
trovano a 91 cm dal suolo e sono alti mediamente 1,30
m rivestono le pareti comprese tra le sette porte
dell’intero ambiente principale a T che funziona da
camera di distribuzione per le camere funerarie. Prive
di decorazione ad eccezione di quella di fondo sono
così distribuite: tre ai margini della sezione
orizzontale ed una in fondo a quella verticale,
fungendo da corona all’ambiente a T. Le sette porte,
inquadrate da cornici, conducono alle camere adibite
alla sepoltura dei membri della grande famiglia, hanno
un duplice significato. Oltre a fungere da immissione
nelle camere hanno la funzione di separatori dei
registri pittorici. Non si tratta di finte porte, come
la Tomba degli Auguri o del Citaredo di Tarquinia che
si aprono nell’Erebo ma di accessi alle camere, anche
se, se ne scorge il voluto effetto di una falsa porta,
come nella rappresentazione degli antenati della
famiglia Saties.
Mentre i lavori di rifinitura di questo ipogeo si
andavano ultimando, i corpi dei più antichi membri
della famiglia già ospitati nella sovrastante tomba,
furono riesumati e traslati nella sottostante camera
V: è infatti in relazione ad un immediato utilizzo di
questo vano che possono essere spiegate le anomalie
strutturali registrate al suo interno, riconoscibili
nell’assenza del columen rilevato, nella
mancanza di cocciopesto sulle pareti, nella presenza
di due banchine invece di una e, soprattutto nella
tamponatura della porta intonacata e dipinta. Tale
ipotesi sembrerebbe confermata dalla presenza fra i
materiali del corredo di un piccolo gruppo di oggetti
manifestamente diacronici rispetto all’impianto
dell’ipogeo, costituiti da un’anfora attica a figure
rosse del Pittore di Syleus, databile al
480-470 a.C. e da una coppia di fibule in argento di
tipo sannitico risalenti alla fine del V-inizi del IV
sec. a.C.
Dalle iscrizioni presenti nella camera VII sappiamo
che questa apparteneva a Vel Saties, fondatore della
tomba, deposto nella stessa cella che, in asse con
l’ingresso è poi l’unica dipinta. Al suo interno erano
deposte due donne della gens Tarna(s),
la prima, forse moglie dello stesso Vel,
ricordata con il solo gentilizio (Tornai), la
seconda Thana Tornai figlia di una Saties. A
queste si aggiungono altri due personaggi maschili,
Larth (o Laris) Mura(s)
figlio di Arnth e un Arnth Muras,
probabilmente suo padre. Attraverso i gentilizi che
ricorrono nella cella si colgono testimonianze della
fitta rete di parentele che lega fra loro esponenti di
famiglie dell’aristocrazia locale e di altri centri.
Abbiamo ancora menzione di altri mèmbri dei Saties,
come avviene nel caso di quel Saties figlio di Aru
ripetutamente ricordato nella tomba e sepolto nel
sarcofago addossato alla parete sinistra del vano III.
Laris Saties, figlio di Larth poteva
invece occupare la cella X, come indurrebbe a ritenere
il titolo funerario dipinto sull’architrave di accesso
a tale camera. Ancora una Ramtha fu sepolta
nella cella VIII, mentre nella IV, come suggerisce il
titolo funerario dipinto sull’architrave di accesso
alla camera, dovette essere deposta la nobildonna
Thanchvil Verati.
Le
camere X, XI e XII si trovano al termine del dromos,
ricavate nel momento in cui lo spazio per le
deposizioni interne era ormai terminato.
Per entrare nella camera XIII, venne scavata una porta
al centro di una edicola funeraria inquadrata da
lesene scanalate, che è appena possibile intravedere,
che sostenevano un timpano, ora ad unico spiovente e
decorato da un serpente a spirale rivolto verso il
vertice, ornato da una palmetta a nove foglie.
La
funzione di questo tempietto era chiaramente correlata
allo spazio antistante ad esso e all’ingresso di forma
rettangolare e provvisto di banchine, in cui è
verosimile individuare questo come luogo di culto per
riti e cerimonie dedicate ai defunti.
Infine i ‘grattini’ che "contenevano cadaveri di
fanciulli” sono riconoscibili nei cinque loculi
riferibili all’ultimo periodo di utilizzazione
dell’ipogeo, che “pure...avevano il loro corredo di
utensili, e di oggetti tra i quali figuravano in
special modo un paro d’orecchini in oro, un
piccolissimo anello in oro da creatura, ed un elegante
specchio decorato con figure di forbito lavoro”.
Abbandonata e riscoperta solo nel 1924 con il nome di
"Grotta Bella", nel 1930 venne sottoposta a nuovi e
più accurati scavi da U. Ferraguti e R. Mengarelli.
Il
precario stato di conservazione dovuto alla scarsa
compattezza della roccia, consistente in continui
slittamenti e gli sfaldamenti delle lastre calcaree di
travertino nel quale è ricavato l’ipogeo, hanno
portato la SAEM ad iniziare un opera di consolidamento
dal 1983 al 1995 ha permesso una fruibilità attraverso
l’accesso delle camere sepolcrali continua oltre a
riservare nuove scoperte come documentano i resti di
stoffa intessuta d’oro aderenti alla superficie
dell’intonaco che ricopre le banchine della camera
verticale.
Le foto sono tratte dal libro "La Tomba François di
Vulci" a cura di Francesco Buranelli, Edizioni Quasar
1987 e dal sito www.canino.info e http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi
Vedi
anche:
LA TOMBA
FRANÇOIS. UNA GUIDA, I
-
La
necropoli di Ponte Rotto |