N. 17 - Ottobre 2006
IL RITROVAMENTO DELLE TESTE DI MODIGLIANI
La beffa di tre ragazzi muniti di Black & Decker
di
Andrea Laruffa
Durante l’estate del 1984, in occasione del centenario
della nascita dell’artista Amedeo Modigliani (12
luglio 1884), il Museo Progressivo di Arte Moderna di
Livorno decide di allestire una mostra in omaggio al
suo cittadino più illustre. L’esposizione ha
l’obiettivo di evidenziare la breve e poco documentata
carriera di scultore di Modigliani.
La cura della progetto viene affidata alla
conservatrice del museo, Vera Durbè, con la
collaborazione del fratello Dario, sovrintendente alla
Galleria d’Arte Moderna di Roma. Per arricchire la
mostra, inizialmente un po’ scarna e snobbata dalla
critica (delle 26 sculture modiglianesche, ne erano
arrivate a Livorno solo quattro), i due decidono di
utilizzare delle scavatrici per perlustrare il Fosso
Mediceo, dove nel 1909, si dice, Modigliani aveva
gettato, sconfortato dal giudizio dei suoi
concittadini e in procinto di partire definitivamente
per Parigi, alcune delle sue sculture.
Il comune di Livorno (giunta Pci) non esita a
finanziare le ricerche, sperando in questo modo di
alimentare il gracile turismo della bella città
toscana. E così, davanti ad una sparuta folla di
curiosi, la benna della scavatrice inizia la
perlustrazione del Fosso. Passano alcuni giorni, ma
delle sculture di Modigliani non vi è traccia.
Quando tutta l’operazione sembra aver assunto la forma
di un enorme spreco di denaro pubblico, ecco che
l’ottavo giorno qualcosa di sorprendente e di
miracoloso cala sulla città di Livorno: la benna ha
trovato un oggetto. Si tratta di una testa di granito
scolpita con tratti duri e allungati. Passano poche
ore e la ruspa tira fuori dal Fosso altri due blocchi
di pietra serena, che si rivelano essere altrettante
sculture, anch’esse raffiguranti delle teste.
Per Vera Durbè e suo fratello non ci sono dubbi: le
opere appartengono ad Amedeo Modigliani. Da quel
momento in poi, la città di Livorno viene
letteralmente invasa da turisti e dai media di tutto
il mondo, con grande felicità da parte
dell’amministrazione comunale che in quell’ impresa si
giocava la faccia. Dall’America al Giappone, curiosi,
giornalisti e critici d’arte si affollano davanti al
Museo di Villa Maria, impazienti di ammirare gli
straordinari ritrovamenti. I grandi maestri della
critica italiana, da Argan a Ragghianti passando per
Carli e Brandi, applaudono l’impresa.
Il fratello di Vera Durbè, Dario, pubblica a tempo di
record un libro dal titolo “Due Pietre Ritrovate di
Amedeo Modigliani”, con tanto di foto e commenti
di eminenti esperti. Dalle parole dello stesso Durbè
si può ben capire l’entusiasmo contagioso che si
respira in quel periodo: “Poche parole per
descrivere un episodio e delle emozioni che avrebbero
richiesto lo spazio di un intero libro. Mi sono
sentito vicino a Modigliani, come se quella pietra
avesse il potere di metterci in un contatto fisico e
annullare i settantacinque anni che separavano il
gesto amaro di lui dalla gloria del nostro
ritrovamento”.
La giornata trionfale è prevista per domenica 2
settembre, nella sede della mostra, per la
presentazione del libro che deve consacrare
definitivamente il valore mondiale della scoperta. Ma,
come recita un antico detto, “non tutto ciò che
luccica è necessariamente oro”. Infatti, mentre presso
il Museo Progressivo di Arte Moderna di Livorno si
preparano i festeggiamenti e gli ultimi dettagli prima
dell’inaugurazione, una notizia Ansa piomba su quella
impresa come un fulmine a ciel sereno: tre studenti di
Livorno,
Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele
Guarducci, in un’intervista rilasciata al settimanale
Panorama, dichiarano di essere gli autori della
seconda Testa pescata del Fosso. Si tratta di un
gioco, dicono i tre giovani, di uno scherzo ben
riuscito ottenuto non con un poetico e filologicamente
corretto scalpello, bensì con un semplice e prosaico
trapano elettrico Black & Decker.
A conferma di quanto appena detto, alla sua uscita il
settimanale pubblica alcune foto scattate dei tre
studenti in un giardino nel momento stesso in cui
compiono l’opera. Per fugare i residui dubbi, i
falsari vengono inoltre invitati in televisione,
durante la prima serata, per ripetere dal vivo il loro
esperimento davanti ad oltre dieci milioni di
telespettatori sintonizzati.
Tutto ciò non scalfisce tuttavia la resistenza di
coloro (i fratelli Durbè oltre che gran parte della
critica) che ancora credono che le opere siano il
frutto dello scalpello dello scomparso artista e che
la trovata dei tre studenti sia solo un modo per farsi
pubblicità. A suffragare la loro tesi ci sono ancora
le altre due Teste ritrovate, che in nessun modo e per
loro stessa ammissione i tre ragazzi avevano potuto
scolpire. La trincea dietro la quale si proteggevano
ad oltranza i sostenitori dell’autenticità delle
opere, crolla dopo una decina di giorni, quando si
viene a sapere che l’idea di farsi beffa
dell’altezzoso mondo dell’arte non era balzata in
testa solo a Luridiana, Ferrucci e Guarducci.
Si scopre, infatti, che le altre due sculture sono
opera di un tale Angelo Froglia, ventinovenne,
lavoratore portuale, discreto artista ed ex
appartenente all’organizzazione terroristica di
estrema sinistra Azione Rivoluzionaria. A differenza
dei tre studenti, che avevano compiuto l’impresa per
scherzo, quasi con innocenza, Froglia ha motivazioni
più profonde e complesse. “Non mi interessava fare
una burla, – dichiara ai giornalisti l’abile
falsario – lo scherzo dei tre studenti è stata una
variabile impazzita che mi ha intralciato non poco. Il
mio intento era quello di evidenziare come attraverso
un processo di persuasione collettiva, attraverso la
Rai, i giornali, le chiacchiere tra persone, si
potevano condizionare le convinzioni della gente.
Inoltre io sono un artista, mi muovo nei canali
dell’arte, volevo suscitare un dibattito sui modi
dell’arte e questo mi è riuscito in pieno. La mia è
stata un’operazione concettuale, se volete in un certo
senso è stata anche un’opera d’arte, come quella di
Christo che impacchetta i monumenti, ma non avevo
alcun intento polemico contro l’amministrazione, né
contro la città, né contro i critici d’arte come
singoli.. Volevo semplicemente
far sapere come nel mondo dell'arte l'effetto dei mass
media e dei cosiddetti esperti possa portare a
prendere grossissimi granchi”.
In effetti i cosiddetti esperti erano ridotti
al silenzio, incapaci di reagire e coperti di
ridicolo.
Tutto il mondo, dopo aver puntato gli occhi delle
telecamere e l’interesse sulla cittadina toscana in
cui era avvenuto il miracolo di un ritrovamento tanto
atteso e desiderato, seppe dunque della beffa di
Livorno. Tutta la vicenda giovò, e non poco, alla
celebre marca di trapani elettrici Black & Decker, che
impostò la sua campagna pubblicitaria sulle
straordinarie potenzialità del proprio prodotto. Per
quanto riguarda il resto, la vicenda si concluse con
le lacrime di Vera Durbè e il sorriso divertito
dell’opinione pubblica italiana. |