N. 21 - Febbraio 2007
SULLA
MAFIA
Le
origini del fenomeno mafioso
di
Matteo Liberti
“Mafia è parola che dalla metà dell’ottocento a oggi
ritorna di continuo […]. Si tratta però di un termine
polisemico […].
E’ difficile individuare un argomento, una tipologia o
successione di fenomeni tra loro omogenei da
raccogliere sotto la voce mafia; ed è altrettanto
difficile sfuggire all’impressione che sia proprio
questa latitudine e indeterminatezza dei campi di
applicazione a farne la fortuna”. (Salvatore Lupo,
Storia della mafia: dalle origini ai giorni nostri).
Cominciamo dalla parola.
Cosa significa e quando nasce il termine Mafia?
Secondo alcuni, la parola Mafia può derivare
dal grido di battaglia adottato da alcuni gruppi di
ribelli durante i vespri siciliani del 1282 a Palermo,
col significato esteso di
Morte alla Francia Italia
Anela... Altri
definiscono invece il termine con etimologiche
diverse, più o meno verificabili e realistiche. C’è
chi lo fa derivare dalla parola araba Ma-Hias
(traducibile con spacconeria), o da Mu’afak
(protezione dei deboli).
Secondo altri il termine deriva invece da una parola
di origine toscana, Mafia, miseria.
L'espressione diventa comunque di uso corrente col il
dramma di Giuseppe Rizzotto e Getano Mosca I
mafiusi de la Vicaria, scritto nel 1863. In questa
opera il mafioso è il camorrista, l’uomo
d’onore che, insieme ad altri, si contrappone alle
istituzione osteggiando coraggio e superiorità.
Nell’aprile del 1865 della mafia, o
associazione malandrinesca, fa menzione un
documento riservato, firmato dal prefetto di Palermo
Filippo Gualterio, e già nel 1871 la legge di pubblica
sicurezza si riferisce a... “oziosi, vagabondi,
mafiosi e sospetti in genere”.
La
fortuna del termine era nata.
Il
fenomeno mafioso, è bene dirlo, si è caratterizzato
nel tempo come un fenomeno non esclusivamente italico,
sebbene ciò è quel che la maggior parte delle persone
si figura, se non altro ad un livello simbolico, ben
esistendo anche una mafia giapponese, colombiana,
russa, turca o americana...
“Passa solo un ventennio e la parola mafia compare
anche sulla sponda statunitense, a definire una
misteriosa organizzazione, fatta risalire a periodi
antichissimi […]”.
La
storia della mafia è tortuosa, ma in molti vi vedono
l’origine prima in una sorta di associazioni o
comunità (spesso di sangue) volte all’aiuto e alla
solidarietà verso i deboli ed i meno fortunati e
strutturalmente legate ai latifondi.
I
metodi usati per questa protezione privata
erano spesso, come del resto oggi, illegali.
La
differenza tra la mafia dei primi giorni e quella
attuale si riscontra nel fatto che, tra la fine del
diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, i
mafiosi usavano questi metodi illeciti per
aiutare le proprie famiglie e gli sventurati, mentre
negli anni a venire, l’abuso si è esteso attraverso
attività certamente non domestiche, arrivando a
coinvolgere, in un duello a volte assai ambiguo, lo
stesso elemento statale.
Anche gli atteggiamenti esteriori, le tradizioni di
rispetto, cultura, famiglia, onore, segreto, tipiche
di qualche decennio fa (e per le quali si doveva
combattere in privato, fuori dalla gestione dello
Stato e dalle sue leggi), hanno lasciato il passo ad
una nuova generazione (se il termine può essere
appropriato) di mafiosi come semplici criminali
organizzati, dove omicidio, furto e slealtà non sono
più regolati da antiche regole d’onore, ma si
presentano in maniera più anarchica e spietata.
Fine ultimo: denaro e potere.
Secondo altri, invece, questa differenza con il
passato è si esistente, ma non così netta.
Molti mafiosi siciliani e italo-americani continuano a
dichiarare, ad esempio, la loro ostilità alla droga
(distruttrice dei legami socio-culturali della
comunità) anche quando sono presi con le mani nel
sacco del narcotraffico… “E’ evidente che nel
fenomeno esiste una continuità molto più forte”.
Una tra le maggiori differenze tra questo tipo di
società mafiosa ed una società normale, si può
sicuramente rilevare nel sistema della giustizia.
Nella nostra società, noi siamo in grado (forse non
sempre) di citare in giudizio chiunque, pur per una
ragionevole causa. Non è così all’interno delle
società mafiose. Come potrebbe un mafioso portare
qualcuno in giudizio per non aver pagato il pizzo, un
debito di gioco o una partita di eroina? E’ qui che
interviene, giustificando la sua funzione, quella
punizione di cui si parlava in precedenza… Il
fatto che la mafia voglia essere un sistema giuridico
non significa però che essa riesca a regolamentare
veramente le relazioni al suo interno e quelle
all’esterno di se.
Il
bellum omnium contra omnem che si cerca di
evitare incombe sempre, in maniera tragica e violenta…
Si
cerca di evitare o di vendicare la violenza attraverso
la violenza; si costruisce una società ed un sistema
giuridico alternativo pur rimanendo al di fuori di
qualsiasi etica (se non presunta) di giustizia. In
questa contraddizione si può certamente inquadrare la
discontinuità maggiore nella storia secolare della
mafia, particolarmente la siciliana, la quale a
partire dal 1979 si è resa protagonista di una feroce
escalation terroristica a danno di magistrati,
poliziotti, politici onesti e politici collusi,
rompendo con il proprio passato di “prudente
mimetismo all’ombra di poteri sociali e istituzionali
verso i quali era opportuno e usuale un atteggiamento
di collaborazione e che venivano sentiti come
indissolubilmente superiori rispetto a sé”. Questa
linea aggressiva ed eccezionalmente violenta ha
distinto negli ultimi anni la mafia da ogni altro tipo
di criminalità, almeno in Italia.
La
società che noi chiamiamo Mafia si è sviluppata in
maniera drastica, evolvendosi ed adattandosi
elasticamente ai nuovi contesti della storia,
promuovendo se stessa, violentemente, come una
società dentro la società.
Per quanto riguarda il nostro paese, la mafia
siciliana è stata distinta nel tempo dalla criminalità
locale campana, detta Camorra e da quella della
vicina Calabria, detta, con terminologia recente,
‘ndrangheta. Elemento fondamentale nella
storia della mafia, volendosela figurare come un
organo malato, è quello della sua interazione con l’organismo
che la ospita: questa società sotterranea, nella sua
dialettica con lo Stato, si ritrova spesso nel ruolo
di interlocutrice, piuttosto che di avversaria.
Scriveva nei primi del novecento il questore di
Palermo Ermanno Sangiorgi: “i caporioni della mafia
stanno sotto la tutela di Senatori, Deputati ed altri
influenti personaggi che li proteggono e li difendono
per essere poi, alla lor volta, da essi protetti e
difesi”.
Ma dove e quando nasce
esattamente il fenomeno mafioso?
Il contesto
utile da
richiamare alla mente è quello dell’ottocento
pre-unitario, nel quale nasce anche il concetto di
camorra. L’abolizione del sistema feudale,
decretata nell’isola nel 1812 con modalità differenti
dalla legge per il Mezzogiorno continentale del 1906
(poi completata negli anni trenta), demolisce alcuni
dei quadri fondamentali dell’ancien régime...
E’
questo il momento in cui si avvia quel processo di
democratizzazione della violenza con cui il
diritto all’uso della forza, prima nelle mani
dell’aristocrazia, si trasferisce legalmente
allo Stato, rimanendo però materialmente nelle
mani dei privati, coinvolgendo sempre nuovi gruppi
sociali al di là di ogni rigida gerarchia di ordini o
di classi.
Tra i membri delle élites paesane si reclutano gli
affittuari, i gabellotti, e gli amministratori
delle miniere, dei latifondi, degli orti, i quali, nel
corso dell’ottocento (anche dopo l’unità nazionale),
cercano di raccogliere la successione
dell’aristocrazia ex feudale che gradualmente allenta
la sua presa sulle campagne isolane, frazionando e
ridistribuendo, insieme ai propri beni, il proprio
potere sociale.
Si
formano, su questo humus, delle vere organizzazioni
locali, spesso legate a famiglie più importanti, ma
anche ben inserite nel fenomeno ottocentesco
dell’associazionismo popolare. Quel che ne emerge è
spesso qualcosa che somiglia ad una rete di sette
semi-segrete, con fini a volta cospiratoti. Più volte,
peraltro, si vedranno le varie cosche
intrecciarsi con istituzioni più o meno formalizzate,
come i fasci siciliani, le cooperative agricole o le
antiche confraternite. La zona maggiormente
contaminata da questo genere di rapporti è quella
della Sicilia occidentale, con riferimenti estremi
Palermo ed Agrigento.
I
proprietari di latifondi e miniere (particolarmente
diffuse ed importanti quelle di zolfo), o gli stessi
picconieri associati tra loro, altro non erano che
piccoli imprenditori per quali la capacità di usare la
violenza costituiva una fondamentale qualità
professionale, uno strumento del mestiere.
Estremamente utile per regolamentare la concorrenza
tra i partiti che si contendevano l’esercizio
delle vene minerarie.
Al
fondo delle sbandierate fratellanze e solidarietà nei
rapporti, secondo il giudizio di Luigi Pirandello,
non vi era alcun tipo di socialismo salvifico
destinato all’avvento della modernità, ma solo
profondi arcaismi, utili a consolidare il meccanismo
mafioso, che iniziava a funzionare secondo la semplice
logica di protezione-estorsione.
I
modelli di organizzazione mafiosa iniziano a circolare
su scala interprovinciale già sul finire degli anni
settanta dell’ottocento. I principali nuclei di
irradiazione del fenomeno sono i paesi dell’Agrigentino,
pur rimanendo il punto di riferimento Palermo. E’ da
qui che la nuova aristocrazia ottocentesca
domina la proprietà fondiaria della parte occidentale
della Sicilia e controlla il mercato degli affitti e
degli appalti delle miniere.
Sono i primi anni dell’Italia unita, la nuova classe
dirigente unitaria, quella piemontese, nel tentativo
di unificare l’economia del paese, ebbe il grave
compito di mettere assieme i tasselli di un puzzle
all’epoca in componibile. Tra i vari tasselli, quello
siciliano era il più ostico da affrontare. La
struttura sociale siciliana si modificò, ma non per
unirsi ed amalgamarsi con la nuova istituzione, bensì
per ri-organizzarsi in maniera autonoma e per questo
costantemente nel limbo dell’illegalità. La logica
della protezione ebbe la meglio su quella statale.
Oltre che sfortunato, il governo centrale fu
anche certamente colpevole, perché restio alla messa
in atto di una efficace azione repressiva; non solo,
ma i casi di accordo tra rappresentanti dello stato e
mafiosi in ambito locale, grazie al quale i primi si
assicuravano il consenso elettorale della gente,
mentre i secondi ottenevano in cambio ulteriore
protezione dallo stato e infiltrazione nello stesso
(come la possibilità di incidere sulle finanze dei
comuni o sulle forze di polizia condizionandone
l'attività investigativa) divennero sempre più
frequenti. Il ricorso che si fece poi ad alcune cosche
mafiose per combattere il fenomeno del brigantaggio,
consentì l’ulteriore penetrazione mafiosa nelle
istituzioni legali…
I
primi attacchi al potere mafioso furono probabilmente
quelli sferrati durante il periodo fascista.
La campagna repressiva contro la mafia iniziò intorno
al 1925, dopo un viaggio del Duce in Sicilia. Lì fu
inviato il prefetto Cesare Mori, che si stabilì a
Palermo il 22 di ottobre. Il suo soprannome divenne
presto quello di prefetto di ferro. Il piano di
intervento doveva essere sia repressivo che di
ricostruzione sociale. L’azione del Mori fu a suo modo
brutale: vi fu un massiccio ricorso a misure
poliziesche che andarono dal confino alla confisca del
patrimonio, volendo sradicare i mafiosi dai territori
da loro controllati, screditandone allo stesso tempo
il prestigio acquisito presso le varie comunità.
Dal punto di vista sociale si cercò di limare il peso
acquisito dal ceto intermedio dei gabellotti e
dei campirei, iniziando con l’affidamento dei
compiti di mediazione e rappresentanza a specifici
organi burocratici. Senza alcun riguardo per il
fenomeno mafioso nella sua interezza, l'azione di Mori
mirò fondamentalmente ad ottenere una cifra cospicua
di condanne da poter riportare al Duce quale prova del
successo ottenuto con l’operazione. Furono decine e
decine gli uomini arrestati e spesso condannati a
seguito di processi sommari, come accadde al boss Don
Vito Cascio Ferro, incarcerato pur in totale assenza
di prove. Lo Stato cercava di riservarsi finalmente le
funzioni di protezione e di regolamentazione
economica, prima perseguitando l’elemento mafioso, poi
tentando di renderlo superfluo.
Dopo il verificarsi di alcuni arresti eclatanti
di noti capimafia, a molti mafiosi non restarono che
due alternative: l’emigrazione verso gli Stati Uniti
d’America (in seguito verrà approfondito questo
aspetto) o l’ingresso ufficiale nel partito fascista.
Il prefetto di ferro riconobbe però i veri limiti
della sua azione qualche tempo più tardi, quando,
nominato senatore del regno per la sua
iniziativa contro la mafia, riconobbe che spesso
l’accusa di mafioso veniva avanzata per compiere
vendette e colpire individui totalmente innocenti o
comunque che nulla avevano a che vedere con la stessa
mafia.
Da sottolineare anche che i mezzi brutali utilizzati
dalle forze di polizia nelle tante azioni condotte per
combattere il fenomeno mafioso, portarono spesso ad un
progressivo aumento della sfiducia da parte della
popolazione, della gente, nei confronti dello
Stato, gettando così nuove basi per una rinascita
della mafia stessa, che dello scontento popolare
sapeva ben fare un suo punto di forza.
Durante il secondo conflitto mondiale, una buona mano
al ritorno al potere della mafia in Sicilia fu dato
dagli americani. Numerosi boss di origine italiana,
incarcerati negli Stati Uniti, vennero contattati
dalla CIA e, con la promessa della libertà, impiegati
per favorire gli Alleati nel controllo dell’isola. Con
loro vennero contattati pure boss locali. Ed il
fenomeno mafioso iniziò a riprendersi dalle bastonate
inflitte dal Mori.
Con la caduta di Mussolini e la fine del conflitto, la
mafia, come per magia, iniziò a riapparire, anche se
qualche segno di vita lo aveva già dato prima dello
sbarco alleato del luglio 1943. Fu però dopo la fine
dei combattimenti nell’isola che il perduto credito fu
ritrovato. In molti tornarono dall’america, dove nel
frattempo era sorta l’Unione Siciliana, ed in
molti contribuirono alla riemersione del potere
mafioso negli anni del secondo dopoguerra.
Cosa nostra, nata dall’unione siciliana, si confermò
multifunzionale ed interclassista, pronta ad inserirsi
abilmente nelle prospettive offerte dal cambio al
potere creatosi con la caduta del regime fascista e
l’avvento della prima Repubblica italiana.
Arricchita, inoltre, da una preziosa rete di
collegamenti internazionali.
Tra le pieghe di questo fenomeno ve ne è poi un altro
opposto, quello della lotta dello stato contro la
mafia…
Riferimenti
bibliografici:
Lupo,
Salvatore - Storia della mafia: dalle origini ai
giorni nostri - Roma - 2000 - Donzelli
Aroma,
Domenico, La mafia, in
http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/m_mafia.htm
http://it.wikipedia.org/wiki/Mafia
|