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N. 18 - Novembre 2006

STATI UNITI E CINA

Dal silenzio diplomatico al viaggio di Nixon a Pechino

di Francesca Panasiti

 

Il 21 febbraio 1972 il Presidente americano Richard Nixon arrivava a Pechino per porre fine ad oltre vent’anni di silenzio diplomatico tra gli Stati Uniti e la Cina continentale: i rapporti tra i due paesi infatti avevano attraversato un periodo di deterioramento a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.

 

Gli Stati Uniti, dopo aver cercato di prevenire la guerra civile in Cina affidando al generale George Marshall il compito di mediare tra le due parti, avevano assistito impotenti alla vittoria delle forze comuniste di Mao Zedong sulle armate nazionaliste guidate da Chiang Kai-shek che, nell’aprile 1949, si ritirava sull’isola di Taiwan. Nell’agosto 1949 il Dipartimento di Stato americano pubblicava un Libro Bianco[1] intitolato “I rapporti degli Stati Uniti con la Cina con particolare riferimento al periodo 1944-1949”[2], nel quale Washington declinava ogni responsabilità relativa all’esito del conflitto interno e attribuiva invece le cause della disfatta nazionalista alle negligenze del leader del Partito Nazionalista.

 

Il 1° ottobre 1949 veniva proclamata a Pechino la nascita della Repubblica Popolare cinese (RPC); pochi mesi più tardi, nel dicembre 1949, Taiwan diventava sede della Repubblica Nazionalista cinese, la cui presidenza veniva assunta da Chiang Kai-shek il 1° marzo 1950.

La successiva decisione americana di non riconoscere il nuovo governo di Pechino[3], contravvenendo alla tendenza stessa della politica estera statunitense che era solita legittimare i governi de facto[4], fu determinata tanto da considerazioni di politica internazionale, quanto dalla situazione politica interna. Fin dal 1949 infatti una campagna anti-comunista, nota come maccartismo, dal nome del suo principale ispiratore, il senatore Joseph McCarthy, si era diffusa all’interno degli organi istituzionali americani, determinando l’estromissione dagli ambienti diplomatici e accademici di quegli specialisti della politica cinese tacciati di simpatizzare con i comunisti e di aver causato la perdita della Cina continentale. Sulla campagna maccartista inoltre esercitò una notevole influenza[5] la cosiddetta China Lobby, un complesso di associazioni di individui e di gruppi, il cui comune proposito era garantire il sostegno degli Stati Uniti al governo nazionalista di Chiang Kai-shek: l’organizzazione radunava tanto coloro che avevano interessi personali nell’elargizione di aiuti americani a Taiwan, quanto coloro che semplicemente si dichiaravano anti-comunisti o sfruttavano la questione cinese per opporsi all’amministrazione Truman.

 

Alle pressioni interne però si accompagnarono ben presto nuove tensioni dall’esterno: nel febbraio 1950 infatti Pechino firmava un Trattato di alleanza e reciproca assistenza con Mosca,  diretto contro il Giappone e implicitamente contro gli Stati Uniti, entrando così a pieno titolo nel blocco sovietico;  nel giugno 1950, lo scoppio della guerra in Corea, seguita dalla decisione americana di dislocare la settima flotta nello stretto di Taiwan, complicava ulteriormente i rapporti tra la RPC e gli USA che nell’ottobre dello stesso anno, dopo l’inviò di volontari cinesi nel conflitto coreano, si trovavano coinvolti in un confronto militare diretto; nel dicembre 1950 gli Stati Uniti disponevano un embargo totale sulle esportazioni verso la RPC, ottenendo poi, nel maggio 1951, che una risoluzione delle Nazioni Unite raccomandasse a tutti gli stati membri di rispettare il divieto di vendere armi e materiali strategici sia alla Repubblica Popolare cinese che alla Corea del Nord.

 

La guerra lasciò in retaggio reciproci sospetti e contrasti alimentati, negli anni dell’amministrazione Eisenhower, dal Trattato di Mutua Difesa firmato nel 1954 tra Washington e Taipei, cui seguì un’ampia assistenza militare statunitense a Formosa. La difesa di Taiwan, in effetti, assunse per Washington un’importanza estremamente rilevante con un duplice significato: da un lato le implicazioni di tipo ideologico mettevano la Casa Bianca di fronte alla responsabilità morale di difendere un sistema sociale libero dalle mire del totalitarismo comunista; dall’altro, le considerazioni di tipo strategico rendevano la sicurezza dell’isola necessaria sia per assicurarsi un avamposto militare in eventuali conflitti in quell’area geografica, sia per garantire le rotte navali tra il Giappone e il Sud-est asiatico. L’abbandono di Formosa, inoltre, avrebbe potuto incrinare la fiducia riposta dagli alleati degli americani nel sistema di sicurezza predisposto dagli Stati Uniti che, per scongiurare tale pericolo, continuarono ad opporsi ad una rappresentanza di Pechino alle Nazioni Unite, costruirono un sistema di relazioni bilaterali con Giappone, Corea del Sud e Taiwan e fondarono nel settembre 1954 la SEATO (Southeast Asia Treaty Organization), che comprendeva, oltre a USA, Francia e Gran Bretagna, anche Nuova Zelanda, Australia, Pakistan, Filippine e Tailandia.

 

Pechino, dal canto suo, reagì cercando di sostenere gli stati comunisti lungo i propri confini, come Corea del Nord e Vietnam del Nord, mobilitando le forze socialiste dei vari paesi nella lotta contro l’imperialismo americano e incrementando la tensione lungo lo stretto di Taiwan, attraverso ripetuti cannoneggiamenti delle isole costiere di Quemoy e Matzu tra il 1954 e il 1958.

 

Dalla fine degli anni ’50 però, diverse voci, più o meno significative, si levarono negli Stati Uniti a favore di un cambiamento della politica americana verso la Repubblica Popolare cinese: nel maggio 1959 il senatore Clair Engle dello stato della California chiese un atteggiamento nuovo e più conciliante verso Pechino e nello stesso anno la Commissione del Senato per le Relazioni Estere[6] incaricò un gruppo di studiosi dell’Università della California di cercare un approccio alternativo alla questione cinese.

 

L’11 dicembre 1965 la prima vera apertura nei confronti della RPC consistette nella modifica del divieto di effettuare viaggi nella Cina Continentale dal quale vennero esonerate tre categorie: studiosi, medici e giornalisti. Questi gesti di distensione furono favoriti anche dal mutare dei tempi e dal cambiamento verificatosi nella composizione del Congresso, dovuto alla morte o al ritiro dei membri legati alla China Lobby e al senatore McCarthy.

 

Nel 1966 venne istituita la Commissione Nazionale per le Relazioni Usa – Cina[7], con il compito di radunare un numero considerevole di gruppi rappresentativi dei tre mondi degli affari, dell’economia e della religione per discutere la questione cinese e venne creata una Commissione sulle Comunicazioni Accademiche con la Repubblica Popolare cinese[8], per promuovere gli scambi tra gli studiosi dei due paesi.

 

Le iniziative americane degli anni ’60 furono completamente offuscate però dalla contrapposizione sino – americana nello stesso periodo in Vietnam: mentre gli Stati Uniti infatti sostenevano il governo sud – vietnamita contro il movimento di guerriglia dei Vietcong, ovvero i comunisti vietnamiti, questi ultimi venivano supportati dall’Unione Sovietica e dalla Repubblica Popolare cinese che, ciascuno per proprio conto, fornivano appoggio politico e materiale al governo della Repubblica nord – vietnamita, pur astenendosi da un intervento militare diretto. Negli anni 1967-68, che coincisero con l’escalation dell’impegno militare statunitense in Vietnam, al tema della ricomposizione dei rapporti non venne prestata la dovuta attenzione: infatti mentre il Presidente americano Lyndon B. Johnson era occupato a districare la complicata matassa del conflitto indocinese, la Cina continentale affrontava il periodo della Rivoluzione culturale, le cui evoluzioni impedivano a Pechino un coinvolgimento attivo negli affari internazionali.

 

Richard Nixon assunse la presidenza degli Stati Uniti all’inizio del 1969 e si trovò subito ad affrontare una difficile situazione strategica. I servizi segreti avevano rivelato che la corsa sovietica agli armamenti stava riducendo sempre di più il vantaggio americano fino ad allora rimasto incontestato[9] e allo stesso tempo gli Stati Uniti non solo non erano più in grado di mantenere invariata l’entità dei loro stanziamenti per la produzione di armi[10] ma erano anche costretti a ridurre i finanziamenti destinati ai vari interventi bellici nel mondo.

 

La guerra in Vietnam, che aggravava una crisi economica già caratterizzata da un deficit crescente della bilancia americana, da una pesante inflazione, e dall’aumento della disoccupazione[11], rischiava di mettere seriamente in difficoltà il governo, pressato dalle continue manifestazioni popolari di malcontento. Era necessario pertanto da un lato trovare un accordo con Mosca sulla limitazione degli armamenti, al fine di evitare un eventuale pareggiamento del potenziale bellico, dall’altro ridurre l’impegno americano in Asia.

 

La prima esigenza venne soddisfatta, almeno in parte, con la firma nel 1972 del SALT I (Strategic Arms Limitation Talks) per la limitazione degli armamenti strategici e con l’apertura dei negoziati per un ulteriore accordo maggiormente restrittivo,  il SALT II, che però venne firmato solamente nel 1979.

 

La necessità di diminuire gli interventi militari ed economici in Asia si trasformò invece nel 1969 in una vera e propria teoria, nota come “dottrina Nixon” o “dottrina di Guam”[12], la quale mirava a raggiungere il suddetto obiettivo lasciando che i paesi asiatici alleati con gli Stati Uniti, fino ad allora sostenuti dagli sforzi americani, iniziassero a provvedere in maniera più autonoma alla propria difesa.

 

Sebbene questo non significasse assolutamente il ritiro degli Stati Uniti dalla politica asiatica, esisteva comunque il rischio che il vuoto inevitabilmente lasciato dagli americani venisse colmato dall’Unione Sovietica, pronta ad estendere la propria influenza sui paesi asiatici non comunisti. Questo era un motivo sufficiente per cercare la collaborazione cinese in Asia Orientale e sfruttare i dissapori esistenti tra la Repubblica Popolare cinese e l’ex-alleato sovietico a tutto vantaggio degli Stati Uniti. Da un’eventuale alleanza sino-americana i sovietici avrebbero potuto sentirsi minacciati, la bilancia del potere avrebbe iniziato a pendere dalla parte americana obbligando forse l’Unione Sovietica a nuovi passi di distensione nei confronti degli Stati Uniti, riducendo dunque i rischi di una guerra nucleare[13].

 

Gli americani inoltre avrebbero potuto ricavare dal miglioramento delle relazioni con la Cina un vantaggio ancora più importante, ovvero la risoluzione del conflitto vietnamita che stava impegnando le forze statunitensi in Indocina a costi altissimi e con un elevato numero di perdite umane e che continuava ad alimentare la disapprovazione di una parte sempre più cospicua della popolazione in tutti gli Stati Uniti, dove sempre più frequentemente venivano inscenate manifestazioni contro la guerra. Con l’aiuto di Pechino Washington avrebbe potuto convincere i comunisti vietnamiti a raggiungere un accordo che avrebbe permesso agli Stati Uniti di ritirarsi senza dover fare concessioni giudicate inaccettabili in patria.

 

Bisogna anche considerare che la ricomposizione dei rapporti con la Cina presentava all’amministrazione Nixon l’opportunità di aprire un nuovo mercato, tra i più promettenti in campo internazionale, e quindi la possibilità di arginare, almeno in parte, la crisi economica.

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Il 5 febbraio 1969 Henry Kissinger[14], Consigliere per la Sicurezza nazionale, richiese uno studio sulla politica cinese, che analizzasse le seguenti problematiche: lo stato dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina comunista, la natura della minaccia cinese e le sue intenzioni in Asia, l’interazione tra la politica americana e quella delle altre maggiori potenze verso Pechino e infine la possibilità di trovare approcci alternativi alla questione, valutando i relativi costi e rischi.

 

Il documento derivante dall’analisi, noto come National Security Memorandum – 14[15],  fu il primo lavoro governativo concertato riguardante la RPC e, in sintesi, raccomandava al Presidente di procedere con la “politica delle due Cine”, cercando gradualmente un’intesa con Pechino pur preservando i rapporti con Taipei. Kissinger comunque non fu soddisfatto dalla relazione, perché prestava un’attenzione eccessiva ai tradizionali problemi tra i due paesi senza alcun riferimento alle implicazioni delle tensioni sino – sovietiche, maturate negli anni ’60, e all’opportunità americana di servirsene ai propri fini[16].

 

Il 28 marzo dello stesso anno il Consigliere per la Sicurezza Nazionale chiese un secondo studio, noto come National Security Study Memorandum – 35, che spostò la riflessione sul versante economico e suggerì infine di smantellare in maniera graduale il meccanismo delle restrizioni commerciali, reso effettivo durante la guerra in Corea.

     

Nello stesso periodo Nixon incontrò a Parigi Charles de Gaulle, il quale si dichiarò d’accordo sulla necessità di migliorare le comunicazioni con Pechino, che stava diventando una potenza nucleare[17], e diede ordine al suo Ambasciatore nella Cina Comunista, Etienne M. Manac’h, di riferire ai dirigenti cinesi l’interesse americano per una rapida normalizzazione dei rapporti: in questo modo venne aperto il primo canale diplomatico per la comunicazione indiretta tra Washington e Pechino, al quale ben presto si aggiunsero il canale pakistano e quello rumeno.

 

Il 24 maggio 1969, in occasione del suo viaggio in Pakistan, il Segretario di Stato William Rogers discusse con il Presidente Agha Mohammmad Yahya Khan il problema della Cina Continentale, chiedendogli di trasmettere i propositi americani a Pechino e di cercare di ottenere un contatto segreto con la leadership cinese.

 

Il 21 luglio 1969, tre giorni prima che Nixon partisse per il lungo viaggio intorno al mondo, in occasione del ritorno degli astronauti dell’Apollo 11 dalla luna, il Dipartimento di stato annunciò la modifica di alcune restrizioni sul commercio e sui viaggi verso la Cina comunista: il nuovo regolamento permetteva ai turisti americani e ai residenti all’estero di acquistare una limitata quantità di beni prodotti nella Repubblica Popolare e autorizzava la convalida immediata dei passaporti per i membri del Congresso, i giornalisti, gli insegnanti, i professori universitari, gli studenti, gli scienziati, i medici e i rappresentanti della Croce Rossa americana.

 

Durante il viaggio del 1969, il Presidente Nixon incontrò prima il Presidente pakistano Yahya Khan, poi il Presidente rumeno Nicolae Ceausescu,  chiedendo ad entrambi di attivare un canale di comunicazione con la Cina, per favorire la riapertura del dialogo tra Washington e Pechino. Più tardi lo stesso Kissinger, in risposta alla richiesta pakistana di provare con i fatti ai dirigenti cinesi la serietà delle intenzioni americane, dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero ritirato le due cacciatorpediniere che pattugliavano lo stretto di Taiwan e autorizzò i funzionari statunitensi ad Hong Kong a comunicare la decisione alle autorità cinesi[18].

 

Nel luglio 1969 Kissinger chiese un’altra relazione relativa questa volta al conflitto sino – sovietico: il documento conclusivo, il National Security Study Memorandum – 63, faceva presente che una guerra tra RPC e URSS avrebbe ridotto le capacità dei due paesi di opporsi politicamente agli Stati Uniti ma difettava nella ricerca delle conseguenze logiche che sarebbero originate da un simile scontro. Kissinger pertanto rimase ancora una volta insoddisfatto del lavoro svolto e ordinò la preparazione di una nuova analisi di più ampio respiro che considerasse anche quale tipo di reazione avrebbe dovuto avere Washington nei confronti rispettivamente di Mosca e di Pechino, quale atteggiamento gli Stati Uniti avrebbero dovuto assumere alle Nazioni Unite e quanto il conflitto sino – sovietico avrebbe inciso sulla guerra in Vietnam[19].

 

Le riflessioni sulla rivalità sino – sovietica furono determinanti nella scelta di Nixon e Kissinger di accelerare il percorso di riavvicinamento a Pechino, che proseguì nel 1970 con la riapertura dei colloqui di Varsavia.

 

Pechino e la minaccia sovietica

 

Il deterioramento dei rapporti tra Pechino e Mosca, iniziato alla fine degli anni ’50, si era manifestato concretamente dapprima nel 1959 con la denuncia da parte dell’Unione Sovietica del Trattato di Cooperazione Atomica in Materia di Difesa Nazionale, poi nel 1960 con la rottura degli accordi economici e il richiamo in patria dei tecnici sovietici. Dalla fine degli anni ’50 i disaccordi e le polemiche erano cresciuti di numero e d’intensità e avevano riguardato vari aspetti della politica interna ed estera dei due paesi: la critica sovietica contro il culto della personalità, letta a Pechino come un’accusa diretta al Presidente Mao; la disapprovazione di Mosca per il Grande Balzo in avanti, lanciato da Pechino nel 1958; il mancato appoggio dei russi ai cinesi, nella guerra condotta da questi ultimi contro l’India; il confronto ideologico tra il revisionismo del Cremlino e il radicalismo della leadership cinese; il tentativo cinese di contestare a Mosca il ruolo privilegiato di centro dell’ortodossia ideologica comunista.

 

Durante la Rivoluzione Culturale, negli anni 1966-67, erano cresciute le manifestazioni xenofobe dirette non solo contro l’imperialismo americano ma anche contro l’espansionismo dell’Unione Sovietica, annoverata in quel momento tra i paesi sfruttatori attraverso l’introduzione del concetto di “social – imperialismo”. L’invasione sovietica della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968, esempio tangibile dell’applicazione pratica della cosiddetta “dottrina Breznev”[20], e soprattutto gli scontri lungo il confine sino – sovietico nel 1969, a partire dall’incidente del 2 marzo sull’isola di Zhen Bao, forse convinsero i cinesi che l’ipotesi di un eventuale attacco sovietico era del tutto plausibile. In realtà nei due anni successivi la situazione rimase piuttosto confusa e se da un lato Pechino cercò un avvicinamento con Washington, dall’altro non rinunciò neppure ad un tentativo di ricomposizione dei rapporti con Mosca.

 

L’analisi delle relazioni sino – sovietiche su un lungo periodo giustifica il timore cinese per la minaccia sovietica e permette di annoverarlo tra le motivazioni principali dell’apertura verso Washington ma uno studio circostanziato degli avvenimenti verificatisi negli anni 1970-71 mostra un riavvicinamento tra RPC e URSS dopo il culmine del deterioramento raggiunto nel 1969. Nel 1970 infatti iniziarono i negoziati per risolvere la questione dei confini e, nonostante il rapido fallimento delle trattative, è riscontrabile una certa distensione nei rapporti[21].

 

Per spiegare l’ambiguo atteggiamento cinese è comunque possibile formulare alcune ipotesi: forse Pechino cercava di evitare un confronto diretto con Mosca prima di aver concluso un accordo con Washington; forse il governo cinese temporeggiava mantenendo una strategia su due fronti per cogliere al momento opportuno l’offerta più vantaggiosa, magari ottenere un proprio seggio nel Consiglio delle Nazioni Unite al posto della Cina Nazionalista; oppure la contemporaneità con cui la RPC portò avanti i contatti con entrambe le superpotenze potrebbe essere dovuta alla lotta tra fazioni che si consumava all’interno del gruppo dirigente cinese tra militari, radicali e moderati e derivare dall’altalenante prevalenza degli uni sugli altri.

 

La riapertura del dialogo con i sovietici in relazione al problema dei confini, dopo la stasi durata dal 1964 al 1969, indica sicuramente un miglioramento dei rapporti tra Mosca e Pechino, ma rimane innegabile che la riapertura dei colloqui con Washington dopo vent’anni di silenzio diplomatico dovrebbe assumere una rilevanza ancor più straordinaria. In questo senso è opportuno attribuire un adeguato  valore al significato strategico delle scelte del governo cinese e pertanto annoverare sia la degenerazione del legame sino – sovietico sia la preoccupazione cinese per un eventuale attacco dal nord tra le motivazioni principali che spinsero la Cina Comunista a cercare un risanamento dei rapporti con gli Stati Uniti.

 

A queste si aggiunse inoltre la prospettiva dei vantaggi economici: la Cina, grazie al recupero dei rapporti con gli Stati Uniti, avrebbe potuto importare le tecnologie necessarie per la propria modernizzazione e probabilmente sarebbe riuscita anche ad ottenere ulteriori scambi commerciali con l’Europa occidentale e il Giappone.

In sintesi, la ricerca di un nuovo sistema di alleanze da parte della Cina continentale conteneva un’implicita ammissione della propria incapacità a sostenere un eventuale conflitto su due fronti, sia contro gli americani che contro i sovietici, e rappresentava un modo nuovo per reagire all’isolamento politico ed economico derivato dalla rottura con l’Unione Sovietica.

 

I primi passi per la ricomposizione dei rapporti

 

Alla fine degli anni ’60 Washington e Pechino, pur condividendo l’interesse per una rapida normalizzazione dei rapporti, incontravano ancora tutta una serie difficoltà a ricomporre vent’anni di silenzio diplomatico e di ostilità intermittenti.

 

A molti americani il nuovo governo cinese appariva pericolosamente radicale ed irresponsabile, esattamente quel tipo di regime contro cui la nuova politica postbellica di “contenimento” era diretta, mentre per la maggior parte dei comunisti cinesi, che avevano raggiunto il potere sulla base di un programma anti – imperialista e nazionalista, gli Stati Uniti rappresentavano non solo il paese che aveva dato la maggiore assistenza economica e militare ai nazionalisti di Chiang Kai-shek ma anche la più grande minaccia al compimento della rivoluzione in Cina, poiché proprio gli americani, dopo la fine della seconda guerra mondiale, avevano assunto il ruolo di potenza leader del capitalismo. Le relazioni tra i due paesi erano duramente minate dal confronto ideologico e la scelta americana di mantenere relazioni diplomatiche con Taipei e di stipulare un trattato di sicurezza con il governo nazionalista era solo uno dei grandi nodi da sciogliere per un’eventuale normalizzazione dei rapporti, ma non certo l’unico problema da affrontare.

 

Nel settembre 1969 una nuova iniziativa americana, nata per volontà di Kissinger, ripristinò i cosiddetti “colloqui di Varsavia”, ovvero le conversazioni tra l’Ambasciatore statunitense e quello cinese in Polonia. I primi incontri dello stesso genere si erano tenuti per la prima volta a Ginevra nel 1955 ed erano stati trasferiti dal 1957 a Varsavia dove, prima di ridursi a mere esercitazioni diplomatiche[22], si erano dimostrati un utile strumento di scambio diplomatico soprattutto durante le crisi di Quemoy e Matzu nel 1958 e in occasione dell’escalation dell’intervento americano in Vietnam nel 1965.

 

Il 20 gennaio e il 20 febbraio 1970 l’Ambasciatore americano Walter Stoessel e l’Ambasciatore cinese Lei Yang s’incontrarono dunque a Varsavia per discutere le posizioni dei rispettivi paesi su alcune tematiche: per la prima volta gli Stati Uniti riconobbero tacitamente[23] che Taiwan era una questione che doveva essere risolta dai cinesi tra loro, mentre Pechino acconsentì a migliorare i propri rapporti con il governo americano rinunciando a porre come condizione sine qua non la preventiva risoluzione del problema di Formosa. L’invasione americana della Cambogia, nella primavera del 1970, interruppe bruscamente i colloqui di Varsavia, nonostante l’intenzione manifestata da ambo le parti di continuare il dialogo attraverso contatti tra i rispettivi funzionari di grado elevato.

 

Nell’aprile 1971 il governo di Pechino invitò in Cina la squadra americana che aveva partecipato al 31° Campionato mondiale di ping-pong, tenutosi a Nagoya,  in Giappone, dal 28 marzo al 7 aprile 1971. L’evento, che ebbe una forte risonanza,  inaugurò la cosiddetta “diplomazia del ping-pong” e fu in grado di innescare il meccanismo che permise di intensificare i contatti sino – americani fino alla visita del Presidente Nixon nel febbraio 1972[24].

 

Nello stesso mese di aprile i dirigenti cinesi fecero sapere che avrebbero accolto volentieri la visita di un alto funzionario americano, suggerendo loro stessi i nomi di Henry Kissinger o del Segretario di Stato William Rogers[25].

 

L’amministrazione Nixon propose allora che fosse il Consigliere per la Sicurezza Nazionale a recarsi per primo in Cina per concordare le modalità della visita dello stesso Presidente americano.

 

Il successo di queste iniziative però non placò l’opposizione interna: in Cina la fazione dei militari, capeggiata da Lin Biao, era assolutamente contraria ad un riavvicinamento con gli Stati Uniti, temeva una ritorsione da parte dell’Unione Sovietica e preferiva comunque conservare la politica dei “due fronti” dei primi anni ’60; negli Stati Uniti Nixon e Kissinger dovevano invece fare i conti con un’opinione pubblica piuttosto scettica, con l’inerzia del Dipartimento di Stato, che temeva i rischi di un’affrettata conciliazione con Pechino, con l’opposizione di quei conservatori che avevano stretti legami con Taiwan e invitavano il governo a preservare il seggio di Taipei alle Nazioni Unite.

 

Il processo di riconciliazione proseguì comunque con le due visite di Kissinger a Pechino nel luglio e nell’ottobre del 1971 ed infine con il viaggio di Nixon nel febbraio 1972. Il primo incontro fu l’occasione per entrambi i paesi di presentare il proprio punto di vista sui maggiori problemi internazionali e per ribadire l’interesse reciproco a relegare in secondo piano il problema di Taiwan per privilegiare la disamina dei comuni interessi strategici. Il 10 luglio 1971 Zhou Enlai invitò formalmente Nixon a Pechino e il 15 luglio arrivò la positiva risposta americana.

 

Da luglio a settembre s’inasprirono in Cina le tensioni tra moderati e radicali, il cui leader venne accusato di intrattenere rapporti segreti con Mosca e di organizzare un complotto contro Mao Zedong. Le rivalità chiaramente non derivavano solo dal dibattito sul miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti  ma riguardavano soprattutto questioni di politica interna. In ogni caso nel settembre 1971 Lin Biao morì vittima di un incidente aereo mentre tentava di recarsi in Russia.

 

Durante il secondo soggiorno di Kissinger, la RPC dichiarò che avrebbe gradito un eventuale disimpegno americano in Vietnam e l’abbandono di qualunque tentativo di stabilire un ruolo egemonico in Asia; di nutrire serie preoccupazioni riguardo all’imperialismo sovietico e alle ambizioni espansioniste di Giappone ed India; di coltivare la speranza di una futura cooperazione con gli Stati Uniti per mantenere stabili gli equilibri di potere nella regione.

 

Gli Stati Uniti a loro volta chiesero a Pechino di intercedere presso Hanoi affinché accelerasse il processo di pace, sottolinearono che la rete di alleanze da loro predisposta in Asia e la loro presenza militare in quell’area erano necessarie a raggiungere lo scopo di preservare la stabilità nella regione e pertanto dovevano essere accolte positivamente dal governo cinese. Kissinger suggerì diverse modalità di cooperazione per garantire la sicurezza e mostrò le informazioni dei servizi segreti americani relativi agli spiegamenti sovietici in estremo oriente, promettendo ai dirigenti cinesi di tenerli informati su eventuali accordi con i russi che potessero interessare anche il governo di Pechino[26].

 

La visita di ottobre servì poi soprattutto a discutere i dettagli per organizzare il viaggio del Presidente Nixon nel febbraio successivo e a negoziare la stesura di un comunicato congiunto da diffondersi al termine del soggiorno.

 

Mentre procedevano i preparativi per la visita presidenziale, Washington si trovò ad affrontare il problema della rappresentanza cinese alle Nazioni Unite. Per ventidue anni gli Stati Uniti erano riusciti ad evitare una soluzione effettiva attraverso vari stratagemmi procedurali: in un primo momento avevano adottato una mozione per procrastinare la questione, poi avevano presentato una risoluzione che la equiparava alle problematiche più importati, cosicché per approvare un deliberazione finale fosse necessaria la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea Generale.

 

Tuttavia nell’autunno del 1970, per la prima volta, la risoluzione albanese per assegnare il seggio alla Repubblica Popolare cinese ottenne la maggioranza dei voti[27] cosicché gli Stati Uniti furono costretti a mutare strategia, optando per una formula di rappresentanza dualistica, che contemplasse l’ammissione di Pechino senza l’espulsione di Taipei. Nell’ottobre 1971 però la linea americana venne definitivamente sconfitta e la vittoria della risoluzione albanese sancì l’entrata della Cina comunista all’ONU. 

 

La visita di Nixon a Pechino e il Comunicato di Shanghai   

 

Il 15 febbraio 1972 moriva Edgar Snow, il giornalista americano che grazie ad una lunga permanenza in Cina era riuscito ad incontrare e ad intervistare i capi rivoluzionari cinesi quando ancora le sorti della guerra civile erano incerte. Proprio durante un’intervista con Edgar Snow, Mao Zedong si era congratulato per l’elezione di Nixon alla presidenza e si era dichiarato disponibile ad ospitare in Cina il nuovo inquilino della Casa Bianca[28].

 

In occasione della morte del giornalista americano sia Mao che Zhou Enlai inviarono alla signora Snow messaggi di condoglianze che assunsero i toni di veri e propri attestati di stima e d’amicizia. Sebbene la figura di Edgar Snow fosse unica nel panorama dei rapporti tra americani e cinesi, è possibile ravvisare negli onori riservati al giornalista dai dirigenti cinesi, il segno tangibile del cambiamento nelle relazioni sino – americane, tanto più che per una strana e del tutto casuale coincidenza il Presidente americano giunse a Pechino pochi giorni dopo la morte del suo connazionale[29].

 

Nella settimana in cui Nixon soggiornò in Cina si svolsero simultaneamente una serie di trattative a vari livelli che videro protagonisti da un lato il Presidente americano ed Henry Kissinger, dall’altro Mao Zedong, Zhou Enlai e il Ministro degli Esteri cinese, Qiao Guanhua.

 

Il 28 febbraio 1972 venne firmato infine il Comunicato di Shanghai: questo documento identificava i comuni interessi dei due paesi nell’opposizione all’espansionismo sovietico in Asia, nella riduzione delle prospettive di un confronto militare, nell’espansione delle relazioni economiche e culturali; obbligava i due paesi a guidare i propri rapporti sulla base dei cinque principi cinesi della coesistenza pacifica, incluso il rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale, senza alcuna interferenza reciproca negli affari interni.

 

La questione di Taiwan venne di fatto lasciata in sospeso attraverso una formula che permetteva agli Stati Uniti di riconoscere l’esistenza di una sola Cina e l’appartenenza di Taiwan ad essa, senza legittimare alla guida del paese né il governo comunista di Pechino né quello nazionalista di Taipei.

 

Il Comunicato di Shanghai fu il segno tangibile del cambiamento nelle relazioni tra RPC e Stati Uniti, che per la prima volta accettarono di subordinare i motivi di contrasto agli imperativi della cooperazione strategica.

 

Note:
 

[1] Il Libro Bianco è una raccolta di documenti diplomatici relativi a una determinata questione politica o a un particolare evento.

[2] United States Relations with China with Special Reference to the Period 1944-1949, (Libro Bianco sulla Cina), Washington DC, agosto 1949.  

[3] Sul mancato riconoscimento del governo della RPC da parte degli Stati Uniti cfr. Andrea Campana, Il dilemma coreano. Gran Bretagna fra Stati Uniti e Cina 1945-1953, Franco Angeli, Milano, 1995, p. 46. L’autore sostiene che Truman si trovò impossibilitato ad agire diversamente a causa delle pressioni della China Lobby, degli ambienti militaristi e anticomunisti maccartisti e soprattutto dell’opposizione repubblicana, che lo criticava duramente per la “perdita” della Cina continentale, passata nelle mani di un governo comunista.

[4] Cfr. Giancarlo Giordano, La politica estera degli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano, 1999, p. 52.

[5] Sono ampiamente documentati gli stretti contatti, compresi i finanziamenti e gli scambi di informazioni, tra Joseph McCarthy e Alfred Kohlberg, primo attivista della China Lobby nonché leader dell’associazione American China Policy Association che era solita inviare alcune delle sue pubblicazioni ai membri del Congresso. Cfr. Koen Y. Ross, The China Lobby in American Politics, Harper and Row, New York, 1974.

[6] The Senate Foreign Relations Committee.

[7] National Committee on U.S. – China Relations.

[8] Committee on Scholarly Communication with People’s Republic of China.

[9] Cfr. Lawrence Freedman, U.S. Intelligence and the Soviet Strategic Threat, Princeton University Press, Princeton, N.J., 1986, pp. 129-44, 151-59, 164-68.

[10] Cfr. Henry Kissinger, Gli anni della Casa Bianca, SugarCo, Milano, 1980, pp. 170-172, 176, 183-187, 431-433.

[11] Nixon cercò di risolvere i problemi economici degli Stati Uniti attraverso alcuni provvedimenti: nell’agosto 1971 sospese la convertibilità del dollaro in oro, che era stato uno dei pilastri degli accordi Bretton – Woods del 1944, ordinò il congelamento di salari, prezzi e profitti per 90 giorni e chiese la riduzione delle tasse per rilanciare lo sviluppo del paese. Queste misure però furono vanificate dall’aumento delle spese per la difesa, per il programma spaziale e per la guerra in Vietnam, che allontanarono ulteriormente la possibilità di pareggiare il bilancio.

[12]  L’espressione “dottrina di Guam” deriva dal nome dell’isola, appunto l’isola di Guam, sulla quale Nixon nel 1969 tenne la conferenza stampa in cui enunciò per la prima volta i principi della nuova politica asiatica degli Stati Uniti.

[13] Un accordo per scongiurare il pericolo di una guerra nucleare venne firmato da Breznev e Nixon il 22 giugno 1973 a Washington.

[14] Henry Kissinger ricoprì la carica di Consigliere per la Sicurezza Nazionale dal 1969 al 1975 e quella di Segretario di Stato dal 1973 al 1977.

[15] Kissinger, appena assunta la sua carica nell’amministrazione Nixon, cercò di rivitalizzare il Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSC: National Security Council), rafforzando la carica del Consigliere a cui venne assegnato il potere di decidere l’agenda degli incontri del Consiglio, di revisionare le varie relazioni preparate dalla burocrazia e di ordinare direttamente al Dipartimento di Stato e ad altri enti governativi di redigere dei documenti denominati National Security Study Memoranda, relativi ad argomenti specifici. Inoltre venne stabilito che le scelte politiche del presidente sarebbero avvenute dopo un incontro con il Consiglio per la Sicurezza Nazionale e avrebbero preso la forma di documenti noti come National Security Decision Memorandum (NSDM), scritti dallo stesso Kissinger e dal suo staff. Questo nuovo meccanismo eliminava l’influenza della burocrazia sul Consiglio per la Sicurezza Nazionale e riduceva il prestigio della carica di Segretario di Stato, poiché veniva affidato al Consigliere per la Sicurezza Nazionale il controllo unico ed assoluto sulle relazioni per il Presidente degli Stati Uniti.

[16] Henry Kissinger, op. cit., p. 150.

[17] Il 16 ottobre 1964 Pechino aveva annunciato la riuscita del suo primo esperimento nucleare.

[18] Henry Kissinger, op. cit., p. 158, 163.

[19] Ogata Sadako, Normalization with China, Institute of East Asian Studies, University of California, Berkeley, 1988, p. 20.

[20] La “dottrina Breznev” o “teoria della sovranità limitata” dei paesi socialisti stabiliva il diritto di intervento militare in ciascuno degli stati soggetti alla dominazione o all’influenza sovietica per salvaguardare i comuni interessi di tutti i membri del campo socialista in politica internazionale.   

[21] Cfr. John Garver, Chinese Foreign Policy in 1970: The tilt toward the Soviet Union,The China Quarterly”, n. 82, June 1980.

[22] Michel Oksenberg,  A Decade of Sino-American Relations, “Foreign Affairs”, n. 61, Fall 1982.

[23] Ibidem, p. 177.

[24] Cfr. Hong Zhaohui; Sun Yi, The Butterfly Effect and the Making of “Ping-Pong Diplomacy”. “Journal of Contemporary China”, vol. 9, n. 25, November 2000.

[25] Cft. Henry Kissinger, op. cit., p. 572.

[26] Robert S. Ross, Negotiating Cooperation: The United States and China, 1969-1989, Stanford University Press, Stanford, 1995.

[27] La risoluzione albanese ottenne 51 voti favorevoli, 49 contrari e 25 astenuti. Cfr. Ogata Sadako, op. cit., p. 29.

[28] Edgar Snow, La lunga rivoluzione, Einaudi, Torino, 1973, p. 186.

[29] Nixon giunse in Cina accompagnato dalla moglie Patricia e da un nutrito seguito di cui facevano parte: il Segretario di Stato William Rogers; il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger; H.R. Haldeman, consigliere del presidente; Ronald L. Ziegler, addetto stampa; il generale Brent Scowcroft, consigliere militare del presidente; Marshall Green, assistente del Segretario di Stato per gli Affari dell’Estremo Oriente e del Pacifico; John Holdridge , membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale e Winston Lord, assistente di Kissinger.      

 



 

 

 

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