N. 18 - Novembre 2006
STATI
UNITI E CINA
Dal
silenzio diplomatico al viaggio di Nixon
a Pechino
di
Francesca Panasiti
Il 21 febbraio 1972 il Presidente americano Richard
Nixon arrivava a Pechino per porre fine ad oltre vent’anni
di silenzio diplomatico tra gli Stati Uniti e la Cina
continentale: i rapporti tra i due paesi infatti
avevano attraversato un periodo di deterioramento a
partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Gli Stati Uniti, dopo aver cercato di prevenire la
guerra civile in Cina affidando al generale George
Marshall il compito di mediare tra le due parti,
avevano assistito impotenti alla vittoria delle forze
comuniste di Mao Zedong sulle armate nazionaliste
guidate da Chiang Kai-shek che, nell’aprile 1949, si
ritirava sull’isola di Taiwan. Nell’agosto 1949 il
Dipartimento di Stato americano pubblicava un Libro
Bianco[1]
intitolato “I rapporti degli Stati Uniti con la
Cina con particolare riferimento al periodo 1944-1949”[2],
nel quale Washington declinava ogni responsabilità
relativa all’esito del conflitto interno e attribuiva
invece le cause della disfatta nazionalista alle
negligenze del leader del Partito Nazionalista.
Il 1° ottobre 1949 veniva proclamata a Pechino la
nascita della Repubblica Popolare cinese (RPC); pochi
mesi più tardi, nel dicembre 1949, Taiwan diventava
sede della Repubblica Nazionalista cinese, la cui
presidenza veniva assunta da Chiang Kai-shek il 1°
marzo 1950.
La successiva decisione americana di non riconoscere
il nuovo governo di Pechino[3],
contravvenendo alla tendenza stessa della politica
estera statunitense che era solita legittimare i
governi de facto[4],
fu determinata tanto da considerazioni di politica
internazionale, quanto dalla situazione politica
interna. Fin dal 1949 infatti una campagna
anti-comunista, nota come maccartismo, dal nome del
suo principale ispiratore, il senatore Joseph McCarthy,
si era diffusa all’interno degli organi istituzionali
americani, determinando l’estromissione dagli ambienti
diplomatici e accademici di quegli specialisti della
politica cinese tacciati di simpatizzare con i
comunisti e di aver causato la perdita della Cina
continentale. Sulla campagna maccartista inoltre
esercitò una notevole influenza[5]
la cosiddetta China Lobby, un complesso di
associazioni di individui e di gruppi, il cui comune
proposito era garantire il sostegno degli Stati Uniti
al governo nazionalista di Chiang Kai-shek:
l’organizzazione radunava tanto coloro che avevano
interessi personali nell’elargizione di aiuti
americani a Taiwan, quanto coloro che semplicemente si
dichiaravano anti-comunisti o sfruttavano la questione
cinese per opporsi all’amministrazione Truman.
Alle pressioni interne però si accompagnarono ben
presto nuove tensioni dall’esterno: nel febbraio 1950
infatti Pechino firmava un Trattato di alleanza e
reciproca assistenza con Mosca, diretto contro il
Giappone e implicitamente contro gli Stati Uniti,
entrando così a pieno titolo nel blocco sovietico;
nel giugno 1950, lo scoppio della guerra in Corea,
seguita dalla decisione americana di dislocare la
settima flotta nello stretto di Taiwan, complicava
ulteriormente i rapporti tra la RPC e gli USA che
nell’ottobre dello stesso anno, dopo l’inviò di
volontari cinesi nel conflitto coreano, si trovavano
coinvolti in un confronto militare diretto; nel
dicembre 1950 gli Stati Uniti disponevano un embargo
totale sulle esportazioni verso la RPC, ottenendo poi,
nel maggio 1951, che una risoluzione delle Nazioni
Unite raccomandasse a tutti gli stati membri di
rispettare il divieto di vendere armi e materiali
strategici sia alla Repubblica Popolare cinese che
alla Corea del Nord.
La guerra lasciò in retaggio reciproci sospetti e
contrasti alimentati, negli anni dell’amministrazione
Eisenhower, dal Trattato di Mutua Difesa firmato nel
1954 tra Washington e Taipei, cui seguì un’ampia
assistenza militare statunitense a Formosa. La difesa
di Taiwan, in effetti, assunse per Washington
un’importanza estremamente rilevante con un duplice
significato: da un lato le implicazioni di tipo
ideologico mettevano la Casa Bianca di fronte alla
responsabilità morale di difendere un sistema sociale
libero dalle mire del totalitarismo comunista;
dall’altro, le considerazioni di tipo strategico
rendevano la sicurezza dell’isola necessaria sia per
assicurarsi un avamposto militare in eventuali
conflitti in quell’area geografica, sia per garantire
le rotte navali tra il Giappone e il Sud-est asiatico.
L’abbandono di Formosa, inoltre, avrebbe potuto
incrinare la fiducia riposta dagli alleati degli
americani nel sistema di sicurezza predisposto dagli
Stati Uniti che, per scongiurare tale pericolo,
continuarono ad opporsi ad una rappresentanza di
Pechino alle Nazioni Unite, costruirono un sistema di
relazioni bilaterali con Giappone, Corea del Sud e
Taiwan e fondarono nel settembre 1954 la SEATO (Southeast
Asia Treaty Organization), che comprendeva, oltre
a USA, Francia e Gran Bretagna, anche Nuova Zelanda,
Australia, Pakistan, Filippine e Tailandia.
Pechino, dal canto suo, reagì cercando di sostenere
gli stati comunisti lungo i propri confini, come Corea
del Nord e Vietnam del Nord, mobilitando le forze
socialiste dei vari paesi nella lotta contro
l’imperialismo americano e incrementando la tensione
lungo lo stretto di Taiwan, attraverso ripetuti
cannoneggiamenti delle isole costiere di Quemoy e
Matzu tra il 1954 e il 1958.
Dalla fine degli anni ’50 però, diverse voci, più o
meno significative, si levarono negli Stati Uniti a
favore di un cambiamento della politica americana
verso la Repubblica Popolare cinese: nel maggio 1959
il senatore Clair Engle dello stato della California
chiese un atteggiamento nuovo e più conciliante verso
Pechino e nello stesso anno la Commissione del Senato
per le Relazioni Estere[6]
incaricò un gruppo di studiosi dell’Università della
California di cercare un approccio alternativo alla
questione cinese.
L’11 dicembre 1965 la prima vera apertura nei
confronti della RPC consistette nella modifica del
divieto di effettuare viaggi nella Cina Continentale
dal quale vennero esonerate tre categorie: studiosi,
medici e giornalisti. Questi gesti di distensione
furono favoriti anche dal mutare dei tempi e dal
cambiamento verificatosi nella composizione del
Congresso, dovuto alla morte o al ritiro dei membri
legati alla China Lobby e al senatore McCarthy.
Nel 1966 venne istituita la Commissione Nazionale per
le Relazioni Usa – Cina[7],
con il compito di radunare un numero considerevole di
gruppi rappresentativi dei tre mondi degli affari,
dell’economia e della religione per discutere la
questione cinese e venne creata una Commissione sulle
Comunicazioni Accademiche con la Repubblica Popolare
cinese[8],
per promuovere gli scambi tra gli studiosi dei due
paesi.
Le iniziative americane degli anni ’60 furono
completamente offuscate però dalla contrapposizione
sino – americana nello stesso periodo in Vietnam:
mentre gli Stati Uniti infatti sostenevano il governo
sud – vietnamita contro il movimento di guerriglia dei
Vietcong, ovvero i comunisti vietnamiti, questi
ultimi venivano supportati dall’Unione Sovietica e
dalla Repubblica Popolare cinese che, ciascuno per
proprio conto, fornivano appoggio politico e materiale
al governo della Repubblica nord – vietnamita, pur
astenendosi da un intervento militare diretto. Negli
anni 1967-68, che coincisero con l’escalation
dell’impegno militare statunitense in Vietnam, al tema
della ricomposizione dei rapporti non venne prestata
la dovuta attenzione: infatti mentre il Presidente
americano Lyndon B. Johnson era occupato a districare
la complicata matassa del conflitto indocinese, la
Cina continentale affrontava il periodo della
Rivoluzione culturale, le cui evoluzioni impedivano a
Pechino un coinvolgimento attivo negli affari
internazionali.
Richard Nixon assunse la presidenza degli Stati Uniti
all’inizio del 1969 e si trovò subito ad affrontare
una difficile situazione strategica. I servizi segreti
avevano rivelato che la corsa sovietica agli armamenti
stava riducendo sempre di più il vantaggio americano
fino ad allora rimasto incontestato[9]
e allo stesso tempo gli Stati Uniti non solo non erano
più in grado di mantenere invariata l’entità dei loro
stanziamenti per la produzione di armi[10]
ma erano anche costretti a ridurre i finanziamenti
destinati ai vari interventi bellici nel mondo.
La guerra in Vietnam, che aggravava una crisi
economica già caratterizzata da un deficit crescente
della bilancia americana, da una pesante inflazione, e
dall’aumento della disoccupazione[11],
rischiava di mettere seriamente in difficoltà il
governo, pressato dalle continue manifestazioni
popolari di malcontento. Era necessario pertanto da un
lato trovare un accordo con Mosca sulla limitazione
degli armamenti, al fine di evitare un eventuale
pareggiamento del potenziale bellico, dall’altro
ridurre l’impegno americano in Asia.
La prima esigenza venne soddisfatta, almeno in parte,
con la firma nel 1972 del SALT I (Strategic Arms
Limitation Talks) per la limitazione degli armamenti
strategici e con l’apertura dei negoziati per un
ulteriore accordo maggiormente restrittivo, il SALT
II, che però venne firmato solamente nel 1979.
La necessità di diminuire gli interventi militari ed
economici in Asia si trasformò invece nel 1969 in una
vera e propria teoria, nota come “dottrina Nixon” o
“dottrina di Guam”[12],
la quale mirava a raggiungere il suddetto obiettivo
lasciando che i paesi asiatici alleati con gli Stati
Uniti, fino ad allora sostenuti dagli sforzi
americani, iniziassero a provvedere in maniera più
autonoma alla propria difesa.
Sebbene questo non significasse assolutamente il
ritiro degli Stati Uniti dalla politica asiatica,
esisteva comunque il rischio che il vuoto
inevitabilmente lasciato dagli americani venisse
colmato dall’Unione Sovietica, pronta ad estendere la
propria influenza sui paesi asiatici non comunisti.
Questo era un motivo sufficiente per cercare la
collaborazione cinese in Asia Orientale e sfruttare i
dissapori esistenti tra la Repubblica Popolare cinese
e l’ex-alleato sovietico a tutto vantaggio degli Stati
Uniti. Da un’eventuale alleanza sino-americana i
sovietici avrebbero potuto sentirsi minacciati, la
bilancia del potere avrebbe iniziato a pendere dalla
parte americana obbligando forse l’Unione Sovietica a
nuovi passi di distensione nei confronti degli Stati
Uniti, riducendo dunque i rischi di una guerra
nucleare[13].
Gli americani inoltre avrebbero potuto ricavare dal
miglioramento delle relazioni con la Cina un vantaggio
ancora più importante, ovvero la risoluzione del
conflitto vietnamita che stava impegnando le forze
statunitensi in Indocina a costi altissimi e con un
elevato numero di perdite umane e che continuava ad
alimentare la disapprovazione di una parte sempre più
cospicua della popolazione in tutti gli Stati Uniti,
dove sempre più frequentemente venivano inscenate
manifestazioni contro la guerra. Con l’aiuto di
Pechino Washington avrebbe potuto convincere i
comunisti vietnamiti a raggiungere un accordo che
avrebbe permesso agli Stati Uniti di ritirarsi senza
dover fare concessioni giudicate inaccettabili in
patria.
Bisogna anche considerare che la ricomposizione dei
rapporti con la Cina presentava all’amministrazione
Nixon l’opportunità di aprire un nuovo mercato, tra i
più promettenti in campo internazionale, e quindi la
possibilità di arginare, almeno in parte, la crisi
economica.
.
Il 5 febbraio 1969 Henry Kissinger[14],
Consigliere per la Sicurezza nazionale, richiese uno
studio sulla politica cinese, che analizzasse le
seguenti problematiche: lo stato dei rapporti tra gli
Stati Uniti e la Cina comunista, la natura della
minaccia cinese e le sue intenzioni in Asia,
l’interazione tra la politica americana e quella delle
altre maggiori potenze verso Pechino e infine la
possibilità di trovare approcci alternativi alla
questione, valutando i relativi costi e rischi.
Il documento derivante dall’analisi, noto come
National Security Memorandum – 14[15],
fu il primo lavoro governativo concertato riguardante
la RPC e, in sintesi, raccomandava al Presidente di
procedere con la “politica delle due Cine”, cercando
gradualmente un’intesa con Pechino pur preservando i
rapporti con Taipei. Kissinger comunque non fu
soddisfatto dalla relazione, perché prestava
un’attenzione eccessiva ai tradizionali problemi tra i
due paesi senza alcun riferimento alle implicazioni
delle tensioni sino – sovietiche, maturate negli anni
’60, e all’opportunità americana di servirsene ai
propri fini[16].
Il 28 marzo dello stesso anno il Consigliere per la
Sicurezza Nazionale chiese un secondo studio, noto
come National Security Study Memorandum – 35,
che spostò la riflessione sul versante economico e
suggerì infine di smantellare in maniera graduale il
meccanismo delle restrizioni commerciali, reso
effettivo durante la guerra in Corea.
Nello stesso periodo Nixon incontrò a Parigi Charles
de Gaulle, il quale si dichiarò d’accordo sulla
necessità di migliorare le comunicazioni con Pechino,
che stava diventando una potenza nucleare[17],
e diede ordine al suo Ambasciatore nella Cina
Comunista, Etienne M. Manac’h, di riferire ai
dirigenti cinesi l’interesse americano per una rapida
normalizzazione dei rapporti: in questo modo venne
aperto il primo canale diplomatico per la
comunicazione indiretta tra Washington e Pechino, al
quale ben presto si aggiunsero il canale pakistano e
quello rumeno.
Il 24 maggio 1969, in occasione del suo viaggio in
Pakistan, il Segretario di Stato William Rogers
discusse con il Presidente Agha Mohammmad Yahya Khan
il problema della Cina Continentale, chiedendogli di
trasmettere i propositi americani a Pechino e di
cercare di ottenere un contatto segreto con la
leadership cinese.
Il 21 luglio 1969, tre giorni prima che Nixon partisse
per il lungo viaggio intorno al mondo, in occasione
del ritorno degli astronauti dell’Apollo 11 dalla
luna, il Dipartimento di stato annunciò la modifica di
alcune restrizioni sul commercio e sui viaggi verso la
Cina comunista: il nuovo regolamento permetteva ai
turisti americani e ai residenti all’estero di
acquistare una limitata quantità di beni prodotti
nella Repubblica Popolare e autorizzava la convalida
immediata dei passaporti per i membri del Congresso, i
giornalisti, gli insegnanti, i professori
universitari, gli studenti, gli scienziati, i medici e
i rappresentanti della Croce Rossa americana.
Durante il viaggio del 1969, il Presidente Nixon
incontrò prima il Presidente pakistano Yahya Khan, poi
il Presidente rumeno Nicolae Ceausescu, chiedendo ad
entrambi di attivare un canale di comunicazione con la
Cina, per favorire la riapertura del dialogo tra
Washington e Pechino. Più tardi lo stesso Kissinger,
in risposta alla richiesta pakistana di provare con i
fatti ai dirigenti cinesi la serietà delle intenzioni
americane, dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero
ritirato le due cacciatorpediniere che pattugliavano
lo stretto di Taiwan e autorizzò i funzionari
statunitensi ad Hong Kong a comunicare la decisione
alle autorità cinesi[18].
Nel luglio 1969 Kissinger chiese un’altra relazione
relativa questa volta al conflitto sino – sovietico:
il documento conclusivo, il National Security Study
Memorandum – 63, faceva presente che una
guerra tra RPC e URSS avrebbe ridotto le capacità dei
due paesi di opporsi politicamente agli Stati Uniti ma
difettava nella ricerca delle conseguenze logiche che
sarebbero originate da un simile scontro. Kissinger
pertanto rimase ancora una volta insoddisfatto del
lavoro svolto e ordinò la preparazione di una nuova
analisi di più ampio respiro che considerasse anche
quale tipo di reazione avrebbe dovuto avere Washington
nei confronti rispettivamente di Mosca e di Pechino,
quale atteggiamento gli Stati Uniti avrebbero dovuto
assumere alle Nazioni Unite e quanto il conflitto sino
– sovietico avrebbe inciso sulla guerra in Vietnam[19].
Le riflessioni sulla rivalità sino – sovietica furono
determinanti nella scelta di Nixon e Kissinger di
accelerare il percorso di riavvicinamento a Pechino,
che proseguì nel 1970 con la riapertura dei colloqui
di Varsavia.
Pechino e la minaccia sovietica
Il deterioramento dei rapporti tra Pechino e Mosca,
iniziato alla fine degli anni ’50, si era manifestato
concretamente dapprima nel 1959 con la denuncia da
parte dell’Unione Sovietica del Trattato di
Cooperazione Atomica in Materia di Difesa Nazionale,
poi nel 1960 con la rottura degli accordi economici e
il richiamo in patria dei tecnici sovietici. Dalla
fine degli anni ’50 i disaccordi e le polemiche erano
cresciuti di numero e d’intensità e avevano riguardato
vari aspetti della politica interna ed estera dei due
paesi: la critica sovietica contro il culto della
personalità, letta a Pechino come un’accusa diretta al
Presidente Mao; la disapprovazione di Mosca per il
Grande Balzo in avanti, lanciato da Pechino nel 1958;
il mancato appoggio dei russi ai cinesi, nella guerra
condotta da questi ultimi contro l’India; il confronto
ideologico tra il revisionismo del Cremlino e il
radicalismo della leadership cinese; il tentativo
cinese di contestare a Mosca il ruolo privilegiato di
centro dell’ortodossia ideologica comunista.
Durante la Rivoluzione Culturale, negli anni 1966-67,
erano cresciute le manifestazioni xenofobe dirette non
solo contro l’imperialismo americano ma anche contro
l’espansionismo dell’Unione Sovietica, annoverata in
quel momento tra i paesi sfruttatori attraverso
l’introduzione del concetto di “social –
imperialismo”. L’invasione sovietica della
Cecoslovacchia nell’agosto del 1968, esempio tangibile
dell’applicazione pratica della cosiddetta “dottrina
Breznev”[20],
e soprattutto gli scontri lungo il confine sino –
sovietico nel 1969, a partire dall’incidente del 2
marzo sull’isola di Zhen Bao, forse convinsero i
cinesi che l’ipotesi di un eventuale attacco sovietico
era del tutto plausibile. In realtà nei due anni
successivi la situazione rimase piuttosto confusa e se
da un lato Pechino cercò un avvicinamento con
Washington, dall’altro non rinunciò neppure ad un
tentativo di ricomposizione dei rapporti con Mosca.
L’analisi delle relazioni sino – sovietiche su un
lungo periodo giustifica il timore cinese per la
minaccia sovietica e permette di annoverarlo tra le
motivazioni principali dell’apertura verso Washington
ma uno studio circostanziato degli avvenimenti
verificatisi negli anni 1970-71 mostra un
riavvicinamento tra RPC e URSS dopo il culmine del
deterioramento raggiunto nel 1969. Nel 1970 infatti
iniziarono i negoziati per risolvere la questione dei
confini e, nonostante il rapido fallimento delle
trattative, è riscontrabile una certa distensione nei
rapporti[21].
Per spiegare l’ambiguo atteggiamento cinese è comunque
possibile formulare alcune ipotesi: forse Pechino
cercava di evitare un confronto diretto con Mosca
prima di aver concluso un accordo con Washington;
forse il governo cinese temporeggiava mantenendo una
strategia su due fronti per cogliere al momento
opportuno l’offerta più vantaggiosa, magari ottenere
un proprio seggio nel Consiglio delle Nazioni Unite al
posto della Cina Nazionalista; oppure la
contemporaneità con cui la RPC portò avanti i contatti
con entrambe le superpotenze potrebbe essere dovuta
alla lotta tra fazioni che si consumava all’interno
del gruppo dirigente cinese tra militari, radicali e
moderati e derivare dall’altalenante prevalenza degli
uni sugli altri.
La riapertura del dialogo con i sovietici in relazione
al problema dei confini, dopo la stasi durata dal 1964
al 1969, indica sicuramente un miglioramento dei
rapporti tra Mosca e Pechino, ma rimane innegabile che
la riapertura dei colloqui con Washington dopo vent’anni
di silenzio diplomatico dovrebbe assumere una
rilevanza ancor più straordinaria. In questo senso è
opportuno attribuire un adeguato valore al
significato strategico delle scelte del governo cinese
e pertanto annoverare sia la degenerazione del legame
sino – sovietico sia la preoccupazione cinese per un
eventuale attacco dal nord tra le motivazioni
principali che spinsero la Cina Comunista a cercare un
risanamento dei rapporti con gli Stati Uniti.
A queste si aggiunse inoltre la prospettiva dei
vantaggi economici: la Cina, grazie al recupero dei
rapporti con gli Stati Uniti, avrebbe potuto importare
le tecnologie necessarie per la propria
modernizzazione e probabilmente sarebbe riuscita anche
ad ottenere ulteriori scambi commerciali con l’Europa
occidentale e il Giappone.
In sintesi, la ricerca di un nuovo sistema di alleanze
da parte della Cina continentale conteneva
un’implicita ammissione della propria incapacità a
sostenere un eventuale conflitto su due fronti, sia
contro gli americani che contro i sovietici, e
rappresentava un modo nuovo per reagire all’isolamento
politico ed economico derivato dalla rottura con
l’Unione Sovietica.
I primi passi per la ricomposizione dei rapporti
Alla fine degli anni ’60 Washington e Pechino, pur
condividendo l’interesse per una rapida
normalizzazione dei rapporti, incontravano ancora
tutta una serie difficoltà a ricomporre vent’anni di
silenzio diplomatico e di ostilità intermittenti.
A molti americani il nuovo governo cinese appariva
pericolosamente radicale ed irresponsabile,
esattamente quel tipo di regime contro cui la nuova
politica postbellica di “contenimento” era diretta,
mentre per la maggior parte dei comunisti cinesi, che
avevano raggiunto il potere sulla base di un programma
anti – imperialista e nazionalista, gli Stati Uniti
rappresentavano non solo il paese che aveva dato la
maggiore assistenza economica e militare ai
nazionalisti di Chiang Kai-shek ma anche la più grande
minaccia al compimento della rivoluzione in Cina,
poiché proprio gli americani, dopo la fine della
seconda guerra mondiale, avevano assunto il ruolo di
potenza leader del capitalismo. Le relazioni tra i due
paesi erano duramente minate dal confronto ideologico
e la scelta americana di mantenere relazioni
diplomatiche con Taipei e di stipulare un trattato di
sicurezza con il governo nazionalista era solo uno dei
grandi nodi da sciogliere per un’eventuale
normalizzazione dei rapporti, ma non certo l’unico
problema da affrontare.
Nel settembre 1969 una nuova iniziativa americana,
nata per volontà di Kissinger, ripristinò i cosiddetti
“colloqui di Varsavia”, ovvero le conversazioni tra
l’Ambasciatore statunitense e quello cinese in
Polonia. I primi incontri dello stesso genere si erano
tenuti per la prima volta a Ginevra nel 1955 ed erano
stati trasferiti dal 1957 a Varsavia dove, prima di
ridursi a mere esercitazioni diplomatiche[22],
si erano dimostrati un utile strumento di scambio
diplomatico soprattutto durante le crisi di Quemoy e
Matzu nel 1958 e in occasione dell’escalation
dell’intervento americano in Vietnam nel 1965.
Il 20 gennaio e il 20 febbraio 1970 l’Ambasciatore
americano Walter Stoessel e l’Ambasciatore cinese Lei
Yang s’incontrarono dunque a Varsavia per discutere le
posizioni dei rispettivi paesi su alcune tematiche:
per la prima volta gli Stati Uniti riconobbero
tacitamente[23]
che Taiwan era una questione che doveva essere risolta
dai cinesi tra loro, mentre Pechino acconsentì a
migliorare i propri rapporti con il governo americano
rinunciando a porre come condizione sine qua non
la preventiva risoluzione del problema di Formosa.
L’invasione americana della Cambogia, nella primavera
del 1970, interruppe bruscamente i colloqui di
Varsavia, nonostante l’intenzione manifestata da ambo
le parti di continuare il dialogo attraverso contatti
tra i rispettivi funzionari di grado elevato.
Nell’aprile 1971 il governo di Pechino invitò in Cina
la squadra americana che aveva partecipato al 31°
Campionato mondiale di ping-pong, tenutosi a Nagoya,
in Giappone, dal 28 marzo al 7 aprile 1971. L’evento,
che ebbe una forte risonanza, inaugurò la cosiddetta
“diplomazia del ping-pong” e fu in grado di innescare
il meccanismo che permise di intensificare i contatti
sino – americani fino alla visita del Presidente Nixon
nel febbraio 1972[24].
Nello stesso mese di aprile i dirigenti cinesi fecero
sapere che avrebbero accolto volentieri la visita di
un alto funzionario americano, suggerendo loro stessi
i nomi di Henry Kissinger o del Segretario di Stato
William Rogers[25].
L’amministrazione Nixon propose allora che fosse il
Consigliere per la Sicurezza Nazionale a recarsi per
primo in Cina per concordare le modalità della visita
dello stesso Presidente americano.
Il successo di queste iniziative però non placò
l’opposizione interna: in Cina la fazione dei
militari, capeggiata da Lin Biao, era assolutamente
contraria ad un riavvicinamento con gli Stati Uniti,
temeva una ritorsione da parte dell’Unione Sovietica e
preferiva comunque conservare la politica dei “due
fronti” dei primi anni ’60; negli Stati Uniti Nixon e
Kissinger dovevano invece fare i conti con un’opinione
pubblica piuttosto scettica, con l’inerzia del
Dipartimento di Stato, che temeva i rischi di
un’affrettata conciliazione con Pechino, con
l’opposizione di quei conservatori che avevano stretti
legami con Taiwan e invitavano il governo a preservare
il seggio di Taipei alle Nazioni Unite.
Il processo di riconciliazione proseguì comunque con
le due visite di Kissinger a Pechino nel luglio e
nell’ottobre del 1971 ed infine con il viaggio di
Nixon nel febbraio 1972. Il primo incontro fu
l’occasione per entrambi i paesi di presentare il
proprio punto di vista sui maggiori problemi
internazionali e per ribadire l’interesse reciproco a
relegare in secondo piano il problema di Taiwan per
privilegiare la disamina dei comuni interessi
strategici. Il 10 luglio 1971 Zhou Enlai invitò
formalmente Nixon a Pechino e il 15 luglio arrivò la
positiva risposta americana.
Da luglio a settembre s’inasprirono in Cina le
tensioni tra moderati e radicali, il cui leader venne
accusato di intrattenere rapporti segreti con Mosca e
di organizzare un complotto contro Mao Zedong. Le
rivalità chiaramente non derivavano solo dal dibattito
sul miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti
ma riguardavano soprattutto questioni di politica
interna. In ogni caso nel settembre 1971 Lin Biao morì
vittima di un incidente aereo mentre tentava di
recarsi in Russia.
Durante il secondo soggiorno di Kissinger, la RPC
dichiarò che avrebbe gradito un eventuale disimpegno
americano in Vietnam e l’abbandono di qualunque
tentativo di stabilire un ruolo egemonico in Asia; di
nutrire serie preoccupazioni riguardo all’imperialismo
sovietico e alle ambizioni espansioniste di Giappone
ed India; di coltivare la speranza di una futura
cooperazione con gli Stati Uniti per mantenere stabili
gli equilibri di potere nella regione.
Gli Stati Uniti a loro volta chiesero a Pechino di
intercedere presso Hanoi affinché accelerasse il
processo di pace, sottolinearono che la rete di
alleanze da loro predisposta in Asia e la loro
presenza militare in quell’area erano necessarie a
raggiungere lo scopo di preservare la stabilità nella
regione e pertanto dovevano essere accolte
positivamente dal governo cinese. Kissinger suggerì
diverse modalità di cooperazione per garantire la
sicurezza e mostrò le informazioni dei servizi segreti
americani relativi agli spiegamenti sovietici in
estremo oriente, promettendo ai dirigenti cinesi di
tenerli informati su eventuali accordi con i russi che
potessero interessare anche il governo di Pechino[26].
La visita di ottobre servì poi soprattutto a discutere
i dettagli per organizzare il viaggio del Presidente
Nixon nel febbraio successivo e a negoziare la stesura
di un comunicato congiunto da diffondersi al termine
del soggiorno.
Mentre procedevano i preparativi per la visita
presidenziale, Washington si trovò ad affrontare il
problema della rappresentanza cinese alle Nazioni
Unite. Per ventidue anni gli Stati Uniti erano
riusciti ad evitare una soluzione effettiva attraverso
vari stratagemmi procedurali: in un primo momento
avevano adottato una mozione per procrastinare la
questione, poi avevano presentato una risoluzione che
la equiparava alle problematiche più importati,
cosicché per approvare un deliberazione finale fosse
necessaria la maggioranza dei due terzi dell’Assemblea
Generale.
Tuttavia nell’autunno del 1970, per la prima volta, la
risoluzione albanese per assegnare il seggio alla
Repubblica Popolare cinese ottenne la maggioranza dei
voti[27]
cosicché gli Stati Uniti furono costretti a mutare
strategia, optando per una formula di rappresentanza
dualistica, che contemplasse l’ammissione di Pechino
senza l’espulsione di Taipei. Nell’ottobre 1971 però
la linea americana venne definitivamente sconfitta e
la vittoria della risoluzione albanese sancì l’entrata
della Cina comunista all’ONU.
La visita di Nixon a Pechino e il Comunicato di
Shanghai
Il 15 febbraio 1972 moriva Edgar Snow, il giornalista
americano che grazie ad una lunga permanenza in Cina
era riuscito ad incontrare e ad intervistare i capi
rivoluzionari cinesi quando ancora le sorti della
guerra civile erano incerte. Proprio durante
un’intervista con Edgar Snow, Mao Zedong si era
congratulato per l’elezione di Nixon alla presidenza e
si era dichiarato disponibile ad ospitare in Cina il
nuovo inquilino della Casa Bianca[28].
In occasione della morte del giornalista americano sia
Mao che Zhou Enlai inviarono alla signora Snow
messaggi di condoglianze che assunsero i toni di veri
e propri attestati di stima e d’amicizia. Sebbene la
figura di Edgar Snow fosse unica nel panorama dei
rapporti tra americani e cinesi, è possibile ravvisare
negli onori riservati al giornalista dai dirigenti
cinesi, il segno tangibile del cambiamento nelle
relazioni sino – americane, tanto più che per una
strana e del tutto casuale coincidenza il Presidente
americano giunse a Pechino pochi giorni dopo la morte
del suo connazionale[29].
Nella settimana in cui Nixon soggiornò in Cina si
svolsero simultaneamente una serie di trattative a
vari livelli che videro protagonisti da un lato il
Presidente americano ed Henry Kissinger, dall’altro
Mao Zedong, Zhou Enlai e il Ministro degli Esteri
cinese, Qiao Guanhua.
Il 28 febbraio 1972 venne firmato infine il Comunicato
di Shanghai: questo documento identificava i comuni
interessi dei due paesi nell’opposizione
all’espansionismo sovietico in Asia, nella riduzione
delle prospettive di un confronto militare,
nell’espansione delle relazioni economiche e
culturali; obbligava i due paesi a guidare i propri
rapporti sulla base dei cinque principi cinesi della
coesistenza pacifica, incluso il rispetto per la
sovranità e l’integrità territoriale, senza alcuna
interferenza reciproca negli affari interni.
La questione di Taiwan venne di fatto lasciata in
sospeso attraverso una formula che permetteva agli
Stati Uniti di riconoscere l’esistenza di una sola
Cina e l’appartenenza di Taiwan ad essa, senza
legittimare alla guida del paese né il governo
comunista di Pechino né quello nazionalista di Taipei.
Il Comunicato di Shanghai fu il segno tangibile del
cambiamento nelle relazioni tra RPC e Stati Uniti, che
per la prima volta accettarono di subordinare i motivi
di contrasto agli imperativi della cooperazione
strategica.
Note:
[1]
Il
Libro Bianco è una raccolta di documenti
diplomatici relativi a una determinata questione
politica o a un particolare evento.
[2]
United States Relations with
China with Special Reference to the Period
1944-1949, (Libro
Bianco sulla Cina), Washington DC, agosto 1949.
[3]
Sul mancato riconoscimento del governo della RPC
da parte degli Stati Uniti cfr. Andrea Campana,
Il dilemma coreano. Gran Bretagna fra Stati Uniti
e Cina 1945-1953, Franco Angeli, Milano, 1995,
p. 46. L’autore sostiene che Truman si trovò
impossibilitato ad agire diversamente a causa
delle pressioni della China Lobby, degli
ambienti militaristi e anticomunisti maccartisti e
soprattutto dell’opposizione repubblicana, che lo
criticava duramente per la “perdita” della Cina
continentale, passata nelle mani di un governo
comunista.
[4]
Cfr. Giancarlo Giordano, La politica estera
degli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano,
1999, p. 52.
[5]
Sono ampiamente documentati gli stretti contatti,
compresi i finanziamenti e gli scambi di
informazioni, tra Joseph McCarthy e Alfred
Kohlberg, primo attivista della China Lobby
nonché leader dell’associazione American China
Policy Association che era solita inviare
alcune delle sue pubblicazioni ai membri del
Congresso.
Cfr. Koen Y. Ross, The China
Lobby in American Politics, Harper and Row,
New York, 1974.
[6]
The Senate Foreign Relations
Committee.
[7]
National Committee on U.S. – China Relations.
[8]
Committee on Scholarly Communication with People’s
Republic of China.
[9]
Cfr. Lawrence Freedman, U.S. Intelligence and
the Soviet Strategic Threat, Princeton
University Press, Princeton, N.J., 1986, pp.
129-44, 151-59, 164-68.
[10]
Cfr. Henry Kissinger, Gli anni della Casa
Bianca, SugarCo, Milano, 1980, pp. 170-172,
176, 183-187, 431-433.
[11]
Nixon cercò di risolvere i problemi economici
degli Stati Uniti attraverso alcuni provvedimenti:
nell’agosto 1971 sospese la convertibilità del
dollaro in oro, che era stato uno dei pilastri
degli accordi Bretton – Woods del 1944, ordinò il
congelamento di salari, prezzi e profitti per 90
giorni e chiese la riduzione delle tasse per
rilanciare lo sviluppo del paese. Queste misure
però furono vanificate dall’aumento delle spese
per la difesa, per il programma spaziale e per la
guerra in Vietnam, che allontanarono ulteriormente
la possibilità di pareggiare il bilancio.
[12]
L’espressione “dottrina di Guam” deriva dal nome
dell’isola, appunto l’isola di Guam, sulla quale
Nixon nel 1969 tenne la conferenza stampa in cui
enunciò per la prima volta i principi della nuova
politica asiatica degli Stati Uniti.
[13]
Un accordo per scongiurare il pericolo di una
guerra nucleare venne firmato da Breznev e Nixon
il 22 giugno 1973 a Washington.
[14]
Henry Kissinger ricoprì la carica di Consigliere
per la Sicurezza Nazionale dal 1969 al 1975 e
quella di Segretario di Stato dal 1973 al 1977.
[15]
Kissinger, appena assunta la sua carica
nell’amministrazione Nixon, cercò di rivitalizzare
il Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSC:
National Security Council), rafforzando la
carica del Consigliere a cui venne assegnato il
potere di decidere l’agenda degli incontri del
Consiglio, di revisionare le varie relazioni
preparate dalla burocrazia e di ordinare
direttamente al Dipartimento di Stato e ad altri
enti governativi di redigere dei documenti
denominati National Security Study Memoranda,
relativi ad argomenti specifici. Inoltre venne
stabilito che le scelte politiche del presidente
sarebbero avvenute dopo un incontro con il
Consiglio per la Sicurezza Nazionale e avrebbero
preso la forma di documenti noti come National
Security Decision Memorandum (NSDM), scritti
dallo stesso Kissinger e dal suo staff. Questo
nuovo meccanismo eliminava l’influenza della
burocrazia sul Consiglio per la Sicurezza
Nazionale e riduceva il prestigio della carica di
Segretario di Stato, poiché veniva affidato al
Consigliere per la Sicurezza Nazionale il
controllo unico ed assoluto sulle relazioni per il
Presidente degli Stati Uniti.
[16]
Henry Kissinger, op. cit., p. 150.
[17]
Il 16 ottobre 1964 Pechino aveva annunciato la
riuscita del suo primo esperimento nucleare.
[18]
Henry Kissinger, op. cit., p. 158, 163.
[19]
Ogata Sadako, Normalization with China,
Institute of East Asian Studies, University of
California, Berkeley, 1988, p. 20.
[20]
La “dottrina Breznev” o “teoria della sovranità
limitata” dei paesi socialisti stabiliva il
diritto di intervento militare in ciascuno degli
stati soggetti alla dominazione o all’influenza
sovietica per salvaguardare i comuni interessi di
tutti i membri del campo socialista in politica
internazionale.
[21]
Cfr. John Garver, Chinese Foreign Policy in
1970: The tilt toward the Soviet Union,
“The
China Quarterly”, n. 82, June 1980.
[22]
Michel Oksenberg, A Decade of Sino-American
Relations, “Foreign Affairs”, n. 61, Fall
1982.
[24]
Cfr. Hong Zhaohui; Sun Yi, The Butterfly Effect
and the Making of “Ping-Pong Diplomacy”.
“Journal of Contemporary China”, vol. 9, n. 25,
November 2000.
[25]
Cft. Henry Kissinger, op. cit., p. 572.
[26]
Robert S. Ross, Negotiating Cooperation: The
United States and China, 1969-1989, Stanford
University Press, Stanford, 1995.
[27]
La risoluzione albanese ottenne 51 voti
favorevoli, 49 contrari e 25 astenuti. Cfr. Ogata
Sadako, op. cit., p. 29.
[28]
Edgar Snow, La lunga rivoluzione, Einaudi,
Torino, 1973, p. 186.
[29]
Nixon giunse in Cina accompagnato dalla moglie
Patricia e da un nutrito seguito di cui facevano
parte: il Segretario di Stato William Rogers; il
Consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry
Kissinger; H.R. Haldeman, consigliere del
presidente; Ronald L. Ziegler, addetto stampa; il
generale Brent Scowcroft, consigliere militare del
presidente; Marshall Green, assistente del
Segretario di Stato per gli Affari dell’Estremo
Oriente e del Pacifico; John Holdridge , membro
del Consiglio per la Sicurezza Nazionale e Winston
Lord, assistente di Kissinger.
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