N. 18 - Novembre 2006
IL DIALOGO IMPOSSIBILE
Silone,
Anissimov e il '56 ungherese
di
Stefano De Luca
Nel settembre del 1956 si svolse a
Zurigo un incontro tra i redattori di alcune riviste
dell’Europa occidentale e dell’Europa orientale, per
iniziativa dello scrittore francese Maurice Nadeau
(direttore della rivista
Lettres nouvelles) e dell’italiano Ignazio
Silone (direttore della rivista Tempo presente). I russi, rappresentati da Aleksandr Ciakovskij, Vadim
Kojevnikov ed Ivan Anissimov, non si
presentarono, nonostante il XXº Congresso del PCUS,
come dei liberi intellettuali, bensì come dei delegati
che dovevano seguire delle direttive, ben precise.
“Silone”, diceva Nadeau, “mirava […] a
far parlare i sovietici come individui liberati da un
recente terrore, quello di farli scoprire come
intellettuali e come uomini”. Per agevolare le
possibilità di dialogo, Silone lasciò agli scrittori
russi cinque domande scritte, alle quali i suoi
interlocutori avrebbero potuto rispondere con calma e
senza compromettersi. Silone chiedeva: se le direttive
che giungevano dal Partito agli scrittori fossero
cambiate, a seguito del XXº Congresso del PCUS, e in
che misura; quali espressioni, nelle pubblicazioni
sovietiche, avessero riscontrato a riguardo del culto
della personalità e della violazione della legalità
socialista; se, nel clima del disgelo, fosse giusto
far conoscere in Unione Sovietica le opere della
sinistra indipendente europea; se fosse giusto far
conoscere opere come ‘Undici anni in Siberia’ di
Elinor Lipper o ‘La terre inhumaine’ di Czapski; se in
Russia la gente fosse a conoscenza delle importanti
novità introdotte in Ungheria, Polonia e Jugoslavia, a
seguito dei cambiamenti prodotti dal XXº Congresso.
La risposta fu firmata da Anissimov, a
nome anche dei colleghi a cui erano state rivolte le
domande, solo nel gennaio del 1957. In quella data
però, attendersi da lui delle risposte significative
era pressoché impossibile in quanto la crisi
ungherese, esplosa con veemenza nell’ottobre del 1956
e repressa per decisione del PCUS, aveva rivelato
emblematicamente tutti i limiti del disgelo. Gli
intellettuali erano un esercito al servizio del
Partito che doveva agire sullo spirito, sulla
coscienza del popolo sovietico, erano gli “ingegneri
delle anime”.
Già dal luglio dello stesso anno c’era,
in Ungheria, un fermento culturale molto intenso,
orientato verso lo studio dei cambiamenti che avrebbe
dovuto subire il regime del Paese a seguito del
rapporto segreto di Chruščëv. Il circolo intellettuale
Petöfi spinse le sue critiche molto in avanti, specie
se messe in relazione con i metodi staliniani del
segretario del PC ungherese Rákosi, che ormai
inadeguato ai tempi venne sostituito da Gerö,
paradossalmente un altro stalinista. Le notizie
provenienti dalla Polonia, dove si era imposto il
riformista Gomulka, indussero gli ambienti
studenteschi ed i circoli culturali ungheresi a
richiedere il ritorno al potere di Nagy, riformista
cacciato dalla direzione del PC ungherese nel 1955. Il
23 ottobre, a seguito di una rivolta estesasi dagli
studenti sino ad alcuni reparti militari magiari, a
Mosca si decise di intervenire militarmente. Così
facendo, però, si esasperarono le tensioni esistenti,
tanto che il PCUS dovette prudentemente cedere ed
accettare i riformisti Kádár come segretario del PC
ungherese, e Nagy come primo ministro. Sembrava la
vittoria dei riformisti, ma non lo era affatto.
Il 4 novembre truppe russe intervennero
una seconda volta contro gli ungheresi, in quanto ora
il PCUS si sentiva sicuro che le potenze occidentali
non si sarebbero opposte al colpo di mano in Ungheria
a causa della contemporanea ed altrettanto
imbarazzante crisi di Suez. In pochi giorni la
resistenza magiara venne sconfitta e Nagy, secondo le
antiche tradizioni staliniane, venne in seguito
condannato a morte (era riuscito a rifugiarsi
nell’ambasciata jugoslava, Paese che a quei tempi
condivideva le sue stesse aspirazioni ma, uscitone, fu
arrestato). La repressione militare in Ungheria
dimostrò inequivocabilmente tutte le ambiguità del
processo di ‘destalinizzazione’ in atto, e fece meglio
comprendere ai contemporanei la reale portata dei
cambiamenti che il ‘nuovo corso’ era disposto ad
accettare. Morirono 25 mila ungheresi e circa 7 mila
militari russi.
Nel gennaio del 1957 Silone lesse le
risposte di Anissimov, e capì che la sua mano era
stata accompagnata nella scrittura dal ruvido stivale
del regime sovietico. Per prima cosa Anissimov
affrontava gli avvenimenti ungheresi, affermando che
questi avessero “dimostrato con spaventosa chiarezza
che allora (settembre 1956) a Zurigo noi ci trovavamo
a due passi dall’orrore fascista. […] Fortunatamente
per il mondo questa posa è andata perduta. […] Lei,
signor Silone, che ha partecipato alla lotta contro il
fascismo in Italia, capisce che cosa significhi
opporre il proprio petto all’avanzata del fascismo: i
difensori ungheresi della democrazia popolare e i
soldati sovietici si sono trovati nella necessità di
farlo e non hanno esitato”. Poi passa alla risposta
delle domande a lui rivolte, non aggiungendo nulla di
nuovo a quanto già espresso dai burocrati della
letteratura ufficiale negli anni precedenti. Prese di
posizione come quella sul ‘realismo socialista’, che
era secondo lui caratterizzato imprescrittibilmente
dalla “fiducia e dal più profondo rispetto per le
aspirazioni e le esigenze delle masse”, dimostravano
senza ombra di dubbio quanto ancora sarebbe stata
lunga la strada che l’Unione Sovietica avrebbe dovuto
percorrere lungo la via della liberalizzazione nella
creazione letteraria.
Ben più significative le parole spese
sul ‘disgelo’: “Il concetto di ‘disgelo’ di cui Lei si
serve, e che è molto diffuso nella stampa dell’Europa
occidentale, non ha fatto presa né mai farà presa
nella nostra stampa. Non c’è ragione di prendere il
titolo di un racconto (che è stato secondo me un
insuccesso artistico di un ottimo scrittore) come
simbolo di grandi e profonde trasformazioni avvenute
in Unione Sovietica dopo l’eliminazione del culto di
Stalin, e non è nei bollettini metereologici che
bisogna cercare le parole adatte ad esprimere tali
trasformazioni”. Anissimov si limitava solamente a
constatare che Stalin aveva creato alcune difficoltà
nel campo della letteratura, ma chiariva che “come lo
sviluppo socialistico non si è arrestato nel periodo
del culto di Stalin, così anche la letteratura
sovietica non poteva venir fermata nel suo sviluppo
socialistico”.
Ciò che emerge dalle parole di
Anissimov, è una continuità di fondo tra la
letteratura sovietica dell’epoca di Stalin con quella
di Chruščëv. La letteratura sovietica successiva al
1953 era si un’evoluzione rispetto a quella
staliniana, ma un’evoluzione che condivideva i
caratteri essenziali della precedente, per primo il
valore indiscusso del ‘realismo socialista’. La
polemica tra Silone e Anissimov sarebbe proseguita con
un nuovo scambio epistolare, per giungere pochi mesi
dopo alla rottura definitiva tra i due scrittori,
causata dall’impossibilità di trovare una pur minima
convergenza su qualche tematica di rilievo.
Era il segno di una nuova chiusura del
regime sovietico, conseguenza diretta dell’intervento
in Ungheria, e sintomo di un atteggiamento di difesa
dei valori sovietici tradizionali dalle ‘pericolose’
richieste di riforma. Basti pensare che nell’ottobre
del 1956, pochi giorni prima dell’inizio dei fatti
d’Ungheria, l’Unione degli Scrittori sovietici mise
sotto processo Dudincev per il suo romanzo di ‘Non di
solo pane’. Il primo di una lunga serie.
Riferimenti
bibliografici:
Ivan
Anissimov – Ignazio Silone, Un dialogo difficile.
Sono liberi gli scrittori russi?, Roma, Opere
Nuove, 1958
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