N. 18 - Novembre 2006
LE SETTE
VITE DEL TIMES
L’avventurosa
storia di uno dei giornali più noti e
celebri della stampa internazionale
di
Tiziana Bagnato
Sette
vite: come un gatto tanto sonnacchioso quanto vivace,
astuto e cacciatore, una delle più celebri testate
inglesi al mondo, il Times, ha attraversato due secoli
tra fallimenti, clamorose rinascite, salvataggi e
strategie di marketing.
Tutto
ebbe inizio il primo gennaio 1785, quando John Walter,
uomo d’affari londinese, dopo essersi dedicato alle
più diverse attività, dal commercio del carbone, alle
assicurazioni, alla finanza, decise di lanciarsi nel
mondo dell’editoria. Inizialmente, la testata venne
registrata con il nome di Daily Universal Register,
la tiratura era molto ridotta, 1600 copie, e il prezzo
era di tre pence.
L’evento con il quale il Times, riuscì a
guadagnarsi i favori e l’attenzione dell’opinione
pubblica fu la Rivoluzione francese. La tempestività e
la precisione con la quale il quotidiano britannico
riferiva avvenimenti così importanti e allo stesso
tempo così distanti da Londra, ne fece un organo
accreditato e, soprattutto, ricercato. In poco tempo
la diffusione arrivò a 4200 copie.
Il
pubblico di riferimento diventò l’aristocrazia
terriera, i ministri della Chiesa Anglicana, gli
ufficiali dell’esercito, i funzionari della Corona.
Qualità e autorevolezza erano le doti comunemente
riconosciute al quotidiano che si guadagnò anche gli
elogi del presidente americano Abramo Lincoln, il
quale ne sottolineò il rigore e l’oggettività degli
articoli con i quali venne descritta la guerra di
secessione americana.
Dal
punto di vista grafico il Times della prima
generazione era disegnato su quattro colonne e la
prima pagina non aveva notizie, ma era riempita con i
cosiddetti “personals”, ovvero, pubblicità e annunci
di carattere sociale. Una caratteristica, questa che è
rimasta fino al 1967. Inoltre, nessun articolo era
firmato, in base al motto formulato da John Tadeus,
direttore nel 1850,“ i giornali si comprano per le
notizie, non per i giornalisti”.
Nel
1860, il Times subì una rivoluzione tecnica che lo
consacrò ad una seconda vita.
Fu
infatti il primo quotidiano ad installare la rotativa
Walter, che gli consentì di poter stampare oltre 60
mila copie al giorno, superando di circa tre volte la
circolazione degli altri quotidiani londinesi. Eppure,
nonostante questa importante rivoluzione tecnica, la
testata incominciò a conoscere un lento declino. A
confronto con i neonati tabloid che iniziavano ad
affollare le edicole, rispetto al loro formato
ridotto, ai loro titoli cubitali e ai loro contenuti
scandalistici, il quotidiano appariva austero e grigio
perdendo lettori.
Nel
1908, la celebre testata inglese raggiunse il minimo
storico nella sua tiratura, trenta mila copie, segnale
che il fallimento era ormai dietro l’angolo. Ad
esporsi per tentare di sollevare le sorti del Times fu
Lord Nortchliffe, ossia proprio colui che con
l’invenzione della stampa popolare, aveva contribuito
in maniera determinante all’instabilità del giornale.
Ma perfino lui, non riuscì a risanare completamente
le casse del quotidiano, riuscendo solo ad aumentarne
la tiratura. I suoi eredi decisero allora di liberarsi
di quella che era diventata non più la proprietà di
una testata prestigiosa ed autorevole ma una pesante
zavorra economica.
Entrò
così in scena la dinastia americana degli Astor, che
avrebbe poi creato il Newsweek. Anche per loro non fu
facile intervenire sulle sorti ormai disastrate del
quotidiano che stentava a conquistare la fedeltà della
working class. Così nel 1967 anche gli Astor cedettero
la proprietà del Times, questa volta al magnate
dell’editoria Roy Thomson.
Inizia così la quarta vita del quotidiano britannico,
caratterizzata da una rivoluzione grafica che lo
investì in pieno. La prima pagina venne completamente
smantellata e ridisegnata. I personals vennero
spostati nelle pagine interne, lasciando spazio alla
politica interna e a quella estera e incominciarono ad
essere utilizzate più immagini e fotografie.
Insomma, il Times finalmente abbandonò gli abiti
tradizionali per adeguarsi agli altri quotidiani. Una
scelta spiegata da Piero Ottone così: “
Quel giornale fatto a quel modo aveva molti
significati. Si addiceva ad un’ Inghilterra imperiale,
la cui classe dirigente, rappresentata da ricchi
aristocratici e da signori di campagna, si interessava
alla vendita di un cavallo prima che alla crisi in
Indocina, a un Inghilterra che seguiva avvenimenti del
mondo intero con la calma olimpica della nazione
dominante, con sovrano distacco. Una posizione che
l’Inghilterra stava perdendo, anzi che aveva già
perso”.
Tra
il novembre 1978 e il novembre 1979 la testata chiuse
e nell’agosto del 1980 i suoi giornalisti scesero in
piazza per protestare contro la linea editoriale di
Thomson, che secondo loro puntava troppo sulla
tecnologia e troppo poco sui giornalisti.
Fu
così che anche Thomson fu costretto a cedere le redini
della testata. Questa volta ad entrare in scena fu il
magnate australiano Rupert Murdoch che operò
l’ennesima rivoluzione. Nel grigio ed austero
quotidiano comparirono per la prima volta il colore ed
una titolazione vivace, anche per i temi di politica
nazionale ed internazionale. Il secondo passo
dell’editore fu quello di puntare sulla distribuzione
e sul marketing mirando all’abbassamento dei prezzi
per abbattere la concorrenza.
Così
il giornale riuscì ad allargare il proprio pubblico di
riferimento e ad aumentare diffusione e gli introiti
pubblicitari ma, anche questo non bastò a far
pareggiare i conti economici delle casse disastrate
del quotidiano.
Nel
2002 l’ennesimo cambiamento al timone della testata.
Ancora una volta un australiano tentò di intervenire
strategicamente per salvare il quotidiano. Si tratta
di Robert Thomson che decise di non puntare solo su
strategie di marketing ma di accompagnare a queste una
vera e propria campagna che potesse a fare del Times
una testata di qualità chiaramente superiore alle
altre, fornendo così una doppia motivazione ai lettori
per acquistarlo.
Da
allora sembra che non vi siano altre crisi incombenti,
ma il resto della storia di una delle più celebri
testate internazionali è ancora da scrivere.
Riferimenti bibliografici:
L’Europa di Carta – Guida
alla stampa estera di Giancarlo Salemi, Franco Angeli
Editore, Milano, 2002 |