N. 24 - Maggio 2007
IL SESSANTOTTO
Una mobilitazione planetaria
di
Stefano De Luca
Il Sessantotto fu un
fenomeno prima di tutto giovanile, ed in modo
particolare studentesco. Caratteristica peculiare che
fa delle rivolte di quegli anni una rarità storica, fu
la simultaneità e la vastità geografica delle rivolte:
in situazioni socio-economiche e geografiche molto
diverse (dai Paesi europei al Giappone, dal Messico
agli Stati Uniti) si assistette a forme di ribellione
simili e contemporanee, senza che vi fosse stata
alcuna forma di preparazione o di coordinamento. Tra
la metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta,
le giovani generazioni dei paesi più diversi si sono
ribellate ai rispettivi sistemi politici, culturali e
sociali.
E’ sufficiente ricordare
alcuni eventi di quegli anni per rendersi conto delle
dimensioni del fenomeno: il ‘maggio francese’
(divenuto quasi il ’68 per antonomasia); la primavera
di Praga; l’esplodere dei movimenti studenteschi in
Italia e Germania; l’opposizione negli Stati Uniti
alla guerra in Vietnam; l’assassinio a Menphis del
leader nero della non-violenza Martin Luther King, e
le sanguinose rivolte dei ghetti neri; la terribile
strage di Piazza delle Tre culture a Città del
Messico, in prossimità delle olimpiadi (con un numero
di vittime che non fu mai accertato, ma sicuramente
superiore alle duecento persone); il famoso gesto di
protesta degli atleti afro-americani alla premiazione
olimpica dei 200 metri piani, con Tommy Smith e John
Carlos sul podio a pugno chiuso, a segnare l’adesione
al movimento del Black Power.
Alcuni studiosi come
Marco Revelli hanno proposto addirittura un parallelo
storico tra questi movimenti e quelli del 1848: “Ci
sono state due rivoluzioni mondiali, una nel 1848 e
una nel 1968. Entrambe hanno fallito, entrambe hanno
trasformato il mondo”. Ma il fenomeno del Sessantotto
si differenzia dalla rivoluzione del 1848, in quanto è
un fenomeno che non si limita al Vecchio Continente.
La guerra nel Vietnam,
evento chiave della politica internazionale degli anni
Sessanta, fu uno dei motivi più forti di aggregazione
dei movimenti di protesta in tutto il mondo. I giovani
e gli studenti che scendevano in piazza per il Vietnam
non intendevano certo schierarsi in favore dell’Unione
Sovietica, ma vedevano nella crisi dell’egemonia
militare americana l’elemento decisivo per una
ridefinizione complessiva degli equilibri
internazionali.
Un filo conduttore nei
movimenti sociali del ’68, un loro carattere storico
comune, può essere individuato nell’essere stati i
primi movimenti di contestazione radicale del modello
sociale ‘neocapitalistico’ e dell’equilibrio mondiale
fondato sull’egemonia statunitense, condotta in forme
di massa, ma culturalmente non ascrivibile alla
tradizione comunista.
Una critica ‘da
sinistra’ che ricorreva sovente a immagini, slogan,
linguaggi tratti dalla tradizione del movimento
operaio (riferimento molto forte in Europa, ma assente
nei movimenti americani), ma che al tempo stesso
esprimeva una cultura e un sistema di valori
profondamente diversi da quelli delle sinistre
politiche del dopoguerra.
Sotto questo aspetto i
movimenti di contestazione, definiti come movimenti
della ‘nuova sinistra’,
contenevano forti elementi di innovazione nei
confronti della tradizione politica e culturale delle
sinistre, verso la quale erano fortemente critici. In
primo luogo era ritenuto estremamente importante il
riferimento alle lotte dei popoli del terzo mondo,
alle rivoluzioni del mondo arabo, dell’Asia e di Cuba.
L’Unione Sovietica non veniva più assunta come
Stato-guida, ma anzi come uno dei garanti, insieme
agli Stati Uniti, dell’ordine da abbattere.
In secondo luogo la
nuova sinistra rifiutava la convinzione, comune a
tutta la sinistra tradizionale, secondo cui
l’evoluzione storica andava necessariamente in favore
dell’emancipazione del proletariato e dei popoli
oppressi. Infine, era assai diffidente nei confronti
dell’organizzazione di tipo leninista, e proponeva
forme di aggregazione che valorizzassero la
partecipazione di massa ai processi decisionali.
Questo spiega anche la
varietà delle reazioni che essi provocarono, proprio
da parte dell’intellettualità progressista e dei
partiti democratici, socialisti e comunisti,
profondamente divisi tra l’appoggio alle istanze di
rinnovamento espresse dalle lotte studentesche e la
forte preoccupazione per l’eccessivo radicalismo di
cui davano prova i giovani attivisti del movimento.
Non si battevano più (e
qui stava la novità rispetto ad esempio alla
tradizione italiana di sinistra) per lo sviluppo e la
modernizzazione, ma contro le caratteristiche
autoritarie e di classe di quello sviluppo e di quella
modernizzazione. La loro era dunque la prima critica
della modernità, fatta non in nome delle nostalgie
passate della destra, ma in nome di una modernità più
libera e più giusta.
L’antiautoritarismo è
uno dei principali fili conduttori che attraversa
tutti i movimenti di protesta sorti nei primi anni
Sessanta. Viene contestata ogni istituzione che si
fondi sul principio di autorità, come la famiglia e la
scuola, che trasmettono modelli di disciplina e che
stigmatizzano ogni comportamento deviante, fino a
tutte quelle istituzioni per loro natura finalizzate
alla repressione o fondate su un forte principio
gerarchico: l’esercito, la magistratura, la polizia,
la chiesa, la burocrazia degli stati e dei partiti
tradizionali.
Nascono tentativi di dar
vita a luoghi dove l’autorità sia bandita: la comune
al posto della famiglia, l’assemblea e la democrazia
diretta in luogo delle deleghe e della democrazia
rappresentativa, con lo scopo di voler simboleggiare
il rovesciamento del potere costituito e quello di
creare un proprio spazio autonomo (con queste
intenzioni i movimenti studenteschi adotteranno la
tattica dell’occupazione). Tutte forme che finirono
per mettere definitivamente in crisi le figure sociali
in cui l’autorità si esprimeva: dal padre al
poliziotto, dal giudice al militare.
Oggetto della
contestazione non è solo il potere statale, ma anche e
soprattutto i singoli poteri quotidiani: dalla
famiglia autoritaria al professore in aula al
caporeparto nella fabbrica. Questi movimenti
combattono qualunque forma di burocrazia, da quella
statale a quella delle tradizionali organizzazioni dei
partiti. All’apparato organizzativo della politica
tradizionale contrappongono le reti informali dei
comitati, le assemblee, la democrazia diretta.
Importante, per capire i
motivi che hanno portato a questa simultaneità del
fenomeno Sessantotto, è analizzare il contesto in cui
si è formata la generazione protagonista delle
mobilitazioni.
La generazione nata tra
gli anni ’40 e ’50 si forma nella consapevolezza della
minaccia mondiale di una catastrofe nucleare, di un
rischio di totale distruzione tecnologica che appariva
essere del tutto indipendente dal luogo di nascita e
dalla volontà del singolo individuo.
La percezione del mondo
da parte di questa generazione è così del tutto
diversa rispetto a quella delle generazioni
precedenti: la terra risulta essere un globo dove gli
antichi riferimenti locali, le precedenti divisioni
per confini appaiono superate da una realtà
tecnologica unificante. Lo sviluppo di un nuovo
sistema di telecomunicazioni mondiali, ha permesso una
circolazione delle informazioni e delle immagini più
veloce e immediata (in quello che viene definito
‘villaggio globale’). La tecnologia ha creato gli
strumenti per ‘rimpicciolire’ il mondo, consentendo di
concepire l’uomo non più come fortemente legato alla
realtà locale, ma come membro della specie umana.
La diffusione del
benessere nelle società ha spostato l’attenzione sulle
questioni connesse alla qualità della vita. Si è
passati da rivendicazioni di tipo materialistico a
quelle di tipo post-materialistico, e questo è uno dei
tratti che differenzia questi nuovi movimenti sociali
da quelli precedenti.
I movimenti del
Sessantotto si collocano in una logica di assoluta
estraneità rispetto allo Stato. A differenza dei
precedenti movimenti di rivolta che si ponevano
l’obbiettivo finale della conquista del potere, dello
Stato, i movimenti del Sessantotto negano ogni
possibile uso positivo dello stesso.
Il primo dei movimento di
contestazione giovanile, e di quelli che sono stati
definiti nuovi movimenti sociali, sorge in America sul
finire del 1964. La lotta degli studenti universitari
americani è, sin dall’inizio, collegata al movimento
pacifista ed a quello per i diritti civili.
Il 1964 è l’anno chiave
nella vicenda del movimento americano: il
coinvolgimento nel conflitto tra Vietnam del Sud e del
Nord si trasformò proprio allora in una vera e propria
guerra. Nell’estate dello stesso anno la rivolta di
Harem inaugurò il ciclo delle sanguinose rivolte nei
ghetti, e il movimento studentesco bianco condivise
gran parte delle rivendicazioni del “Black Power”,
tutti i leader del quale provenivano da
università americane.
Gli studenti occuparono
l’università di Berkley, per manifestare il loro
rifiuto nei confronti del Ministero della Difesa che
aveva commissionato alle università la ricerca per
produrre nuove armi per la guerra nel Vietnam.
Il movimento studentesco
americano, sebbene sostanzialmente apolitico nei suoi
sviluppi, fu alle sue origini profondamente
influenzato dal pensiero socialista e comunista, ma
con grandi differenze rispetto a ciò che sarebbe
accaduto successivamente in Europa.
Nel Vecchio Continente i
movimenti si rifacevano all’ortodossia comunista, al
marxismo appunto, ispirata a figure diverse, da Lenin
a Mao, da Trotskj al Che. Negli Stati Uniti, dopo il
maccartismo, un appello così aperto al marxismo non
era più possibile.
Per di più, la classe tradizionalmente vicina alle
idee comuniste, cioè gli operai, negli Stati Uniti era
non soltanto poco propensa a cambiamenti, ma
addirittura sosteneva apertamente il governo.
Il tipo di socialismo a cui
si rifaceva quella che sarebbe divenuta la ‘Nuova
Sinistra Americana’, perseguiva valori come
l’eguaglianza sociale, la giustizia e l’eliminazione
delle disparità razziali, influenzato dalla rivolta
castrista. Tra il 1958 e il 1961, anno in cui il
Dipartimento di Stato americano proibì i viaggi a Cuba
oltre che in Cina e in Albania, migliaia di studenti
si recarono nell’isola caraibica per prendere contatto
con “l’impero del male”, come Ronald Reagan avrebbe in
seguito etichettato il mondo comunista.
In quegli anni si
crearono negli Stati Uniti numerosi movimenti che si
rifacevano agli ideali della rivolta castrista, come
ad esempio la Student Peace Union (Spu), la Young
People Socialist League, gli Students for Democratic
Society (Sds) o il W.E.B. Du Bois, che prendeva il
nome da uno studioso afroamericano curiosamente
divenuto comunista all’età di novant’anni. Tutti
questi gruppi, pur essendo molto attivi, rimasero
sempre di scarso peso numerico. Le ragioni furono
essenzialmente due: lo stretto controllo del FBI a cui
erano sottoposti tutti i soggetti che si professavano
comunisti, ed il fatto mancava un vero progetto e una
dirigenza che dettasse le direttive da seguire. Per
questo motivo l’interesse per ogni nuova lotta svaniva
velocemente col passare della furia del momento.
Con l’escalation del
conflitto nel Vietnam, col crescente invio di truppe
regolari a partire dal 1965, ci fu anche un mutamento
nelle finalità, sempre molto confuse, dei movimenti
studenteschi. Dalla lotta sociale si passò a una
contestazione politica. I movimenti attaccavano il
governo per il presunto imperialismo dimostrato nell’intervanire
in una guerra così distante che non era sentita come
‘giusta’ (l’opinione pubblica era influenzata dalle
immagini che la rete televisiva nazionale americana
trasmetteva sui comportamenti dei soldati
americani). Vennero organizzati sit-in, marce
simboliche della pace che mobiliterano le città di S.
Francisco, New York e Washington. Molti giovani si
rifiutarono di rispondere alla leva militare per
protestare contro il sistema politico .
Il movimento degli
studenti rivendicava un mondo libero e pacifico e
rifiutava i modelli tradizionali di vita imposti da
politica, religione e scuola. Perseguiva valori
egalitari, anti-borghesi, anti-autoritari e
anti-militaristi, sotto l’influenza degli ideali
espressi dal filosofo americano di origine tedesca
Herbert Marcuse.
Altro movimento che si è
sviluppato in contemporanea a quello degli studenti è
il movimento hippy. Nel 1965 a New York
e S. Francisco furono fondate le prime vere comunità,
che crebbero a ritmo vertiginoso fino alla metà degli
anni Settanta. L’uso che facevano gli aderenti al
movimento di sostanze stupefacenti non rispondeva solo
a una necessità di rottura con la cultura dominante,
ma arrivò a diventare una vera e propria religione.
Ad esempio la Lega per la
Ricerca Spirituale, fondata da un professore da
Harvard espulso dall’università perché sospettato di
distribuire agli studenti durante le lezioni pasticche
di LSD, attraverso l’uso di droghe voleva raggiungere
un nuovo stadio dello sviluppo umano. Molti furono i
personaggi di fama internazionale che si avvicinarono
al movimento come Bob Dylan, i Beatles e i Rolling
Stones, e scrittori famosi come Ginsburg.
Elemento caratteristico
delle “comuni” hippy era il concetto di amore
libero in tutte le sue forme, ed una maggiore libertà
sessuale. Il radicale cambiamento delle abitudini
sessuali portò a conseguenze importanti nei rapporti
interpersonali. L’amore omosessuale non fu più
considerato un tabù assoluto e le prime organizzazioni
gay fecero la loro comparsa.
Negli stessi anni si
sviluppò anche il movimento femminista, come
conseguenza dell’insoddisfazione che le donne avevano
nei confronti della società americana (ad esempio, a
parità di mansioni e di orario di lavoro svolto le
donne erano retribuite meno degli uomini).
L’insoddisfazione femminile inizialmente si concentrò
negli stessi gruppi studenteschi e sugli stessi ideali
condivisi da questi ultimi: libertà di pensiero e
diritti civili. Ben presto le leaders del
movimento femminista si resero conto che la componente
maschile dei movimenti studenteschi tendeva a mettere
in minoranza l’altro sesso. Nel 1966 con la nascita di
movimenti come la Women’s Intenational League for
Peace, il Women Strike for Peace e la National
Organization for Woman, le rivendicazioni femminili
assunsero una portata autonoma e indirizzata
all’ottenimento della piena uguaglianza tra i sessi.
Ogni aspetto personale dell’universo femminista
costituiva argomento di lotta, non solo il mondo del
lavoro, ma anche quello della famiglia e soprattutto
della salute. Le donne pretesero la legalizzazione
dell’aborto, lotta che si concluse solo nel 1973 con
una sentenza che lo avrebbe permesso almeno nei primi
mesi della gravidanza.
Le donne di colore
ebbero un ruolo di grande importanza nel movimento per
i diritti civili, nel Black Power e persino nelle
Pantere Nere. Ciò dovuto al fatto che negli anni
Quaranta e Cinquanta, esse erano le uniche in famiglia
ad avere un lavoro ben retribuito, spesso come
cameriere o governanti presso famiglie bianche. Con il
progressivo inasprimento della rivolta razziale e la
conseguente detenzione di uomini di colore, le donne
raggiunsero più facilmente posizioni di potere.
Un ultimo cenno deve essere
fatto ai movimenti per l’uguaglianza razziale che si
attivarono per tutto il 1961 per ottenere la scomparsa
della segregazione nei servizi pubblici, in una
società dove vigeva una segregazione di carattere
razziale istituzionale nella vita di tutti i giorni
(bagni pubblici, posti sull’autobus, scuole, ospedali,
istituzioni religiose e chiese erano distinti per
razza). Movimenti come lo Student Nonviolent
Coordinating Committee (SNCC) e il Congress of Radical
Equality (CORE) organizzarono Freedom Marches, azioni
di protesta non violenta che andavano dal sit-in alla
disobbedienza, sotto l’influenza di Martin Luther King,
che aveva elogiato la tattica non-violenta per il
raggiungimento dei fini di parità sociale.
Nel 1965 vi fu una
profonda revisione degli obbiettivi del movimento
degli afro-americani. L’eguaglianza formale sancita
dal Civil Right Act non era più sufficiente per uomini
come Malcom X, che predicavano con fervore l’orgoglio
nero. Egli fu il padre spirituale del Black Power,
l’ala più radicale del movimento per i diritti civili,
secondo cui se gli afro-americani volevano migliorare
le proprie condizioni non potevano ricercare
un’integrazione, ma creare una società a se stante.
Nel 1966 fu fondato il Black Panther Party (le Pantere
Nere) che si dimostrò fin dall’inizio l’ala più
radicale del movimento.
Questi movimenti si
rivelarono incapaci di trasformare le ideologie in
concrete azioni di lotta. Martin Luther King fu
l’unico in grado di rappresentare la minoranza nera a
livello nazionale. L’attentato che lo uccise il 4
aprile 1968 coincise con il definitivo declino delle
rivendicazioni del Black Power, in quanto nessuno fu
capace di raccogliere la sua eredità, né fornire alla
gente una nuova via da seguire.
Nella seconda metà degli
anni Sessanta iniziarono le lotte anche nelle
università del Giappone. Nel ’66 vi furono cinque mesi
di sciopero degli studenti dell’università di Waseda,
contro l’aumento delle tasse e contro le autorità
accademiche. Da qui partirono una serie di
mobilitazioni che avrebbero investito tutte le
università del paese: contestazioni che procedevano di
pari passo con la lotta contro l’aggressione del
Vietnam. La mobilitazione culminò nel ’68 quando venne
organizzato e preannunciato l’assalto contemporaneo
all’Ambasciata americana, alla Dieta, al Ministero
della Difesa, alla residenza del Primo Ministro e alla
stazione ferroviaria di Shinjuku. Quest’ultimo è il
vero obbiettivo, in quanto il nodo centrale di tutto
il traffico di uomini e mezzi diretti in Vietnam che
passano per il Giappone. Studenti e operai resistono
agli attacchi per ore: all’una di notte il governo è
costretto a decretare la legge marziale.
La forte frantumazione
organizzativa, ed un settarismo che non ha paragoni
con quello dei paesi europei, avrebbero portato alla
degenerazione del movimento negli anni Settanta.
Anche in Europa domina in
questi anni un clima di insofferenza e di disagio.
Tanto i giovani dei paesi occidentali, quanto quelli
dei paesi orientali, erano mossi da un istinto di
ribellione contro i rispettivi modelli di cultura e
società. Ideali anti-imperialisti, anti-militaristi,
anti-autoritaristi e anti-borghesi, recepiti
dall’esperienza americana, alimentarono ovunque la
contestazione. I giovani dei paesi occidentali
puntavano alla realizzazione di forme di democrazia
diretta in tutti i settori della vita associata e
all’annientamento di quel sistema
democratico-rappresentativo, considerato troppo legato
agli interessi economici e militari di una elite
borghese di natura autoritaria. Nei paesi del
blocco socialista (Germania Est, Polonia,
Cecoslovachia), invece si rivendicava, contro il
sistema dominante, un “socialismo dal volto umano”.
Nell’ambito dei paesi
occidentali è in Francia che la contestazione assume i
toni più clamorosi, in quanto si trasformò in una
rivolta contro lo stato. Questa esplose nel marzo del
1968 all’Università di Nanterre, e nei mesi successivi
alla Sorbona. Inizialmente si era trattato di un
fenomeno minoritario, e molto frammentato fra le
piccole organizzazioni (i groupuscules maoisti,
trozkisti, anarchici), che se ne contendevano la
direzione. La repressione da parte della polizia giocò
da fattore unificante e provocò un considerevole
allargamento dell’agitazione, che si estese anche alle
scuole medie superiori ed al mondo del lavoro.
Dapprima furono occupate dagli operai alcune fabbriche
di Parigi. Poi, in tutta la Francia, gli operai ed
anche quadri tecnici, intellettuali, e gli stessi
componenti dell’apparato statale, entrarono in
agitazione. Gli studenti rivendicavano maggiore
libertà in una società rigida; anche in Francia la
contestazione per la guerra del Vietnam è uno dei temi
principali delle proteste. Il 22 marzo nasce un
movimento (che appunto verrà chiamata “22 marzo”) di
solidarietà a favore di uno studente, attivista
trotzkista, che era stato arrestato per qualche ora
per aver attentato alla sede parigina dell’American
Express, simbolo degli Stati Uniti.
Nella Germania
occidentale, la prima a raccogliere il messaggio
d’oltre Atlantico, il Sessantotto, sotto la guida di
Rudi Dutschke, assunse più che altrove connotati
fortemente libertari. Anche qui la denuncia era
rivolta contro il corpo accademico, accusato di essere
un ‘regime oligarchico’. Il nuovo ‘bisogno’ di
comunismo si caratterizza anche qui per la negazione
assoluta di qualsiasi modello di tipo sovietico o di
democrazia popolare, realtà considerate illiberali ed
anti-democratiche, e come tali, da annientare.
In Italia, dopo un anno
di incubazione (il 1966), i primi veri focolai di
rivolta si accendono nel novembre del 1967,
simultaneamente, nelle università di Trento e Napoli.
Subito la contestazione raggiunse il sistema privato,
coinvolgendo in particolare l’Università cattolica di
Milano. Si propaga quindi a Torino per irradiarsi, con
impressionante rapidità e lungo la linea
dell’occupazione a catena degli atenei, in ogni sede
universitaria del Paese.
Anche qui le originali
ragioni di lotta avrebbero tardato ad intrecciarsi con
la difesa di altri ideali: in polemica con il
capitalismo si arriverà a lottare per una
realizzazione di una democrazia radicale, non più
semplicemente rappresentativa, ma il più possibile
diretta e anti-autoritaria. Contro ogni forma di
oppressione si svilupperà la condanna anche di quel
comunismo di tipo sovietico che rende l’individuo
schiavo del potere; si prenderanno a modello le
esperienze comuniste cubana e cinese, ritenute valide
alternative a quella russa.
Tra i paesi del blocco
sovietico l’episodio più clamoroso, la ‘Primavera di
Praga’, si verifica in Cecoslovacchia. Qui la
contestazione giovanile si confonde con un movimento
intellettuale e politico di liberazione volto al
superamento del comunismo tradizionale ed al
raggiungimento dell’indipendenza dall’Unione
Sovietica.
Nell’estate del 1968 si
svilupparono agitazioni anche in Irlanda del Nord. La
minoranza cattolica di città come Belfast e Derry, da
sempre oggetto da parte della maggioranza protestante
di un predominio irrispettoso dei suoi diritti civili,
aveva dato luogo da parecchi anni a forme di lotta
clandestina e terroristica. L’influenza dei movimenti
studenteschi europei, e del marxismo, favorì lo
sviluppo di forme proteste, duramente represse dalle
truppe speciali britanniche. Questo era solo uno dei
movimenti etnico-nazionali che conobbero in quell’anno
un nuovo slancio: dal movimento basco nell’area di
confine tra Spagna e Francia a quello bretone, a
quello corso, fino ai nuovi fermenti autonomisti sardi.
Riferimenti
bibliografici
|