N. 20 - Gennaio 2007
LA
RUSSIFICAZIONE FORZATA
Nazionalismo
russo in Unione Sovietica
di Stefano De Luca
L’Unione Sovietica era secondo la Costituzione uno
Stato federale comprensivo di 15 repubbliche
nazionali pariordinate. Nella realtà,
l’elemento unificante, il perno attorno al
quale ruotava l’intero sistema, era la
nazionalità russa. Sostenere che la
politica sovietica fosse dominata da
sentimenti grande-russi mi sembra eccessivo:
piuttosto si può affermare che le minoranze
abbiano spesso giudicato la replica del PCUS
alle loro rivendicazioni nazionali figlia di
interessi grande-russi. Solženicyn, Šafarevič
ed altri esponenti del dissenso di tendenze
slavofile-nazionaliste, per il fatto stesso
che venissero contrastati dal governo,
dimostravano come la politica grande-russa che
in molti imputavano all’Unione Sovietica di
perseguire, fosse in realtà meno concreta di
quanto pensassero.
Questo nulla toglie al fatto che la nazionalità
russa fosse quella più delle altre
identificabile con l’intero sistema sovietico,
che si muoveva intorno ad essa.
L’assimilazione o russificazione, come rileva
Zaslavskij, fu in parte forzata ed in
parte volontaria.
Il Partito, nell’intento di creare l’uomo
‘nuovo’ sovietico, fece leva sulla nazionalità
e la lingua russa: l’effetto sperato era
quello di uniformare tutti i cittadini
sovietici, eliminando le diversità culturali
tra gli stessi. La russificazione quindi, più
che finalità grandi-russe, celava, in termini
di controllo e livellamento, propositi
essenzialmente socialisti.
Il primo strumento della russificazione era
costituito dalla lingua russa, la cui
conoscenza risultava essenziale per una larga
parte di attività. Il primato della lingua
russa all’interno dell’URSS rispondeva
certamente alle esigenze di uno Stato
multinazionale, avente organi direttivi
fortemente centralizzati.
Un altro elemento da analizzare, per comprendere la
politica delle nazionalità sovietica, è il
sistema dei passaporti. Le disposizioni
prevedevano che tutti i cittadini di età
superiore a sedici anni ricevessero un
passaporto (propiska) che avrebbe
costituito il loro personale documento di
identità.
Se inizialmente il cittadino poteva scegliere
liberamente la nazionalità da indicare sul
passaporto, a metà degli anni Trenta questa
situazione mutò radicalmente: la nazionalità
dei figli da quel momento in poi sarebbe stata
determinata in base a quella dei genitori.
Così, “l’autoidentificazione etnica compiuta
dai cittadini negli anni Trenta, continua a
determinare l’appartenenza nazionale legale
dei loro nipoti e pronipoti negli anni
Ottanta”. Il suolo, non costituiva più un
elemento distintivo: “una famiglia armena che
abiti da sempre a Mosca […] rimane armena”.
Si trattava di una prassi dal
valore molto più che formale. Tutti i
cittadini dell’URSS avevano l’obbligo della
registrazione sul passaporto del luogo di
residenza dalle autorità locali. Ogni
cambiamento di domicilio andava registrato.
L’obbligo della registrazione, se violato per
due volte, poteva comportare l’arresto in base
all’art. 198 del CP (intenzionale violazione
del regolamento sui passaporti), e costituì lo
strumento del quale si servì il PCUS per
tenere sotto controllo la mobilità sia
interna, che rivolta verso l’estero.
Ogni nazionalità, determinata in base alla
registrazione sui passaporti, aveva delle
‘quote’ stabilite che regolavano l’accesso
alle posizioni professionali e direttive. Il
sistema delle ‘quote’ costituiva secondo
Zaslavskij una difesa efficace degli
“interessi della classe media” di ogni
singola nazionalità, in quanto la aiutava a
“difendersi dalla concorrenza”.
Al processo di russificazione, faceva da contrappeso
il nazionalismo delle minoranze. Quest'ultimo,
in base alle finalità, era di due tipi:
ortodosso e non ortodosso. Il nazionalismo
ortodosso, che non minacciava il socialismo ma
che costituiva una reazione all’egemonia del
gruppo etnico russo, veniva tollerato dagli
organi partitici. Quello non ortodosso, che
combinava “l’autoaffermazione nazionale con il
rifiuto dell’attuale sistema politico, e in
genere faceva blocco col movimento per i
diritti umani”, veniva invece severamente
represso.
Il movimento nazionale di più forte opposizione ai
tentativi di russificazione, fu quello
ucraino. Già nel 1959, a L’vov, l’avvocato
Levko Luk’janenko diede vita ad una
organizzazione, l’Unione ucraina degli operai
e dei contadini, che mirava ad ottenere per
vie pacifiche l’indipendenza nazionale.
L’Unione ucraina venne annientata nel 1961, e
Luk’janenko condannato a morte nel mese di
maggio dello stesso anno per “tradimento della
Patria” e “organizzazione e partecipazione ad
attività antisovietiche”: la pena fu in
seguito commutata in 15 anni di reclusione.
Nel dicembre del 1974, dopo aver rifiutato le
proposta del KGB di collaborare, Luk’janenko
fu internato per due mesi nell’ospedale
psichiatrico di Rybinsk.
Uscitone invalido, alla fine degli anni
Settanta entrò a far parte del Gruppo Helsinki
ucraino.
Dal 1965, in coincidenza col processo a Sinjavskij e
Daniel’, cominciò ad abbattersi sui
nazionalisti ucraini una nuova ondata di
arresti. Tra gli altri, ne fece le spese lo
storico Valentin Moroz, condannato il 20
gennaio del 1966 a 5 anni di reclusione per
“propaganda e agitazione antisovietica”. Moroz
sarebbe stato nuovamente arrestato nel 1970 e
processato in base alla stessa imputazione:
questa volta gli vennero inflitti 6 anni di
galera, 3 di lager e 5 di confino.
Ivan Dzjuba, giovane scrittore ucraino, nel 1966
fece circolare alcuni testi dei nazionalisti
ucraini, nei quali documentava gli arresti di
cui molti suoi connazionali furono vittima.
Dzjuba inviò questo materiale ai dirigenti del
governo e del PC ucraino, i quali non furono
però in grado di agire in difesa dei diritti
del popolo che rappresentavano. Al V Congresso
dell’Unione degli Scrittori ucraini, 20
novembre 1966, il poeta Crjzanivskij lodò
l’iniziativa di Dzjuba, dimostrando come molti
intellettuali ucraini sentissero forte il
desiderio di aiutare i dissidenti che si
battevano contro la russificazione del loro
Paese.
Nel 1971 il Presidium del Cc del PC ucraino
distribuì
ai funzionari presenti una propria circolare,
anonima poiché illegale, la quale stabiliva
che “l’impiego della lingua ucraina negli
uffici statali, nelle scuole e nelle imprese
industriali deve considerarsi come una
manifestazione di «nazionalismo borghese»
ucraino”.
Gli effetti di questa linea politica non si
fecero attendere, e la cultura nazionale
ucraina trovò un nuovo ostacolo al suo libero
sviluppo. Il poeta Taras Ševčenko venne
assunto a simbolo dalla battaglia dei
nazionalisti ucraini: il monumento di Kiev in
suo onore, divenne la loro meta di
‘pellegrinaggio’ prediletta.
Gli ucraini avevano una propria rivista del samizdat,
Vestnik Ukrainy (Il messaggero
ucraino), che si ispirava alla Cronaca
in quanto come essa non era l’organo di nessun
gruppo od organizzazione. Creata nel 1970,
Vestnik Ukrainy dava notizie degli
arresti, delle persecuzioni, dei processi e
delle condizioni di detenzione dei dissidenti
ucraini impegnati nella lotta contro la
russificazione del loro Paese, nonché appelli,
lettere e memorandum sulla condizione
della cultura ucraina.
Le repubbliche Baltiche, con le loro forti e antiche
tradizioni culturali riuscirono, fino alla
fine degli anni Cinquanta, a difendere la
propria identità nazionale da ogni tentativo
di russificazione. Tutto mutò radicalmente con
i primi anni Sessanta, quando in Lettonia,
Lituania ed Estonia, cominciarono ad affluire
migliaia di cittadini russi.
Anche nelle Repubbliche baltiche non mancarono
esempi di resistenza nazionalista.
In particolare, per i lituani, il marinaio
Simas Kudrika divenne il simbolo della
resistenza nazionale.
Il 23 novembre de 1970, mentre si trovava sulla nave
«Sovetskaja Litva» al largo dell’isola di
Martha’s Vineyard, in prossimità di New York,
saltò in acqua e raggiunse a nuoto la nave
statunitense «Vigilant», ancorata nei pressi,
chiedendo asilo politico. L’asilo non gli
venne accordato, e Kudrika venne ricondotto
sulla nave sovietica. Venne processato nel
maggio del 1970 per tradimento della Patria:
“ma di quale patria? La mia patria è la
Lituania, non certo l’Unione Sovietica”.
A Kudrika vennero inflitti 10 anni di
reclusione. Nel 1974, per intervento diretto
delle autorità statunitensi, Kudrika fu
liberato e gli fu permesso di espatriare in
America assieme alla famiglia.
L’art. 13 della Dichiarazione Universale dei
Diritti dell’Uomo dichiara che “ogni
individuo ha diritto di lasciare qualsiasi
Paese, incluso il proprio, e di farvi ritorno”.
In Unione Sovietica molto frequentemente
questo principio non venne rispettato: a farne
le spese fu la popolazione in generale, ed in
misura maggiore i popoli deportati, sprovvisti
di un proprio assetto statale all’interno
della Federazione.
Riferimenti
bibliografici
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