N. 27 - Agosto 2007
Cosa è cambiato dal 1799: Il resto di
niente
Nota a margine del romanzo di Enzo Striano a
venti anni dalla scomparsa
di
Antonio Pisanti
Ad oltre duecento
anni di distanza, rimane la separazione tra cultura
e potere, anche se la relazione di conflittualità è
mimetizzata dall’acquiescenza e dalla partecipazione
passiva dell’intellettualità alle scelte della
politica dominante. Scarsamente utilizzate le
possibilità di promozione civile attraverso i nuovi
strumenti di comunicazione di massa.
Il
26 giugno scorso ricorreva il ventesimo anniversario
della morte di Enzo Striano, autore, tra l’altro, di
uno dei migliori romanzi storici del ‘900, “Il
resto di niente”. Lo scrittore stava appena
iniziando a raccogliere i primi frutti del suo
eccellente lavoro e di un successo che sarebbe
tardato a venire, ma che avrebbe fatto del libro un
classico della nostra letteratura e un motivo di
contesa tra vari editori.
Più recentemente Antonietta De Lillo ne ha tratto
liberamente un film che avrebbe meritato ben altro
sostegno e che ha avuto persino problemi di
distribuzione che ne hanno limitato la diffusione
nelle sale, sebbene sia stato notevole il consenso
del pubblico e della critica che ha destinato al
film numerosi e qualificati riconoscimenti.
Riflettendo sugli avvenimenti narrati da Enzo
Striano, particolarmente in questa fase di grave
crisi nella quale sono precipitati Napoli e il
Mezzogiorno, non si può fare a meno di chiedersi
cosa sia cambiato nella società meridionale con la
Rivoluzione napoletana e quali insegnamenti si
possano trarre dalla storia di quelle vicende.
Più di due secoli sono trascorsi dagli anni che
segnarono la drammatica separazione
dell'intellettualità meridionale da quelle forze di
governo che pure ne avevano interpretato le
aspettative, identificando talvolta nelle stesse
persone uomini di cultura e di potere, chiamati da
sovrani illuminati a reggere le sorti dello stato e
di istituzioni rinomate a livello europeo.
Ma, oltre a segnare tale separazione, determinata
dalla svolta involutiva della monarchia borbonica,
che da riformista quale aveva ampiamente dimostrato
di saper essere tendeva a farsi sempre più
illiberale nell'atmosfera di restaurazione che
iniziava a percorrere l'Europa, la Rivoluzione
napoletana del ‘99 mise impietosamente in luce la
separatezza tra cultura e società, dimostrando
l'incapacità degli intellettuali e dell'aristocrazia
colta del tempo di evitare quella svolta e di
incidere nel tentativo di emancipazione dei ceti
meno evoluti.
La
“Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino”, approvata dall'Assemblea nazionale
francese nel 1789, era diventata il manifesto dei
rivoluzionari europei e di quanti nel mondo, pur
occupando magari posizioni di privilegio, come molti
nobili ed intellettuali, tendevano, ancor prima
della rivoluzione francese, ad abbracciare la causa
del riformismo e della democrazia.
Tra questi l'elìte dell'intellettualità napoletana
che il 21 gennaio 1799, qualche mese dopo la fuga di
Re Ferdinando IV e della Regina Maria Carolina a
Palermo, proclamò la Repubblica Napoletana,
repubblica che fu, tra quelle nate in Italia sul
modello francese, la più avanzata e la meno
fortunata.
L'esperienza della repubblica partenopea, nata tra
l'indifferenza del popolo e l'ostilità dei suoi
strati meno acculturati e meno abbienti, i quali
ricavavano motivi di sussistenza dal paternalismo
tardoborbonico, durò appena cinque mesi e comportò
il tragico sacrificio di centinaia di "cittadini"
mandati al patibolo, esiliati o imprigionati nelle
varie galere del regno.
Nel rievocarne i nomi, da Mario Pagano a Gennaro
Serra, da Eleonora Pimentel Fonseca a Domenico
Cirillo, da Vincenzo Russo a Pasquale Baffi, non si
può fare a meno di considerare come la loro
sconfitta sia stata anche la sconfitta di una
cultura che non riuscì a penetrare nel sociale e a
condizionarlo.
Sebbene i rivoluzionari napoletani avessero mostrato
attenzione ed impegno politico per il miglioramento
dei ceti popolari, la loro azione incontrò notevoli
ostacoli da parte del popolo che non tardò ad
ingrossare le file del Cardinale Ruffo e
partecipò con accanimento all’annientamento dei
perdenti, di quelli che pure intendevano farsi
sostenitori del suo riscatto civile e sociale.
Castel Sant'Elmo, dove nel giugno 1799 ebbe luogo
l'ultima resistenza di un manipolo di combattenti
repubblicani, diventò così il simbolo della
sconfitta di una rivoluzione importata, sconfitta
che, per quanto gloriosa possa essere definita,
sempre tale rimane, contrassegnando quel
divario tra
cultura e società, tra cultura e potere, che nel
Mezzogiorno d'Italia sembra essere immutabile
attraverso i secoli.
Molti evidenziano il peso pur rilevante che su
quella sconfitta ebbe l'atteggiamento delle potenze
straniere, per ridimensionare le possibilità di
successo che in tale contesto avrebbero potuto
avere intellettuali e politici illuminati e per
riaffermare la propria fiducia nel valore fondante
della cultura per il rinnovamento dell'assetto
politico e sociale del Mezzogiorno e per la sua
rinascita civile e sociale.
E'
infatti dallo stesso fervore culturale, ora come
allora a livello di rinomanza internazionale, e
dallo stesso impegno, tuttora testimoniato in centri
di eccellenza che portano in Europa e nel mondo i
segni di vitale combattività della cultura e della
ricerca meridionale, che molti si attendono le
spinte
decisive per un' inversione di tendenza
indispensabile per salvare Napoli e il Mezzogiorno
dalle condizioni di degrado che attualmente li
affliggono.
Ma
oggi, come ieri, non sembrano essere aumentate le
possibilità di incidenza nel sociale da parte degli
uomini di cultura, nonostante la sopraggiunta
disponibilità di numerosi e vari strumenti di
comunicazione. Oggi come ieri, restano inascoltati
appelli e proclami, mentre intellettuali ed uomini
di ingegno sembrano volersi collocare, nella
migliore delle ipotesi, su posizioni di non
intervento nelle vicende politiche e sociali.
Eleonora Pimentel Fonseca e i suoi amici
rivoluzionari avevano cercato inutilmente di
affidare ad alcuni giornali, come il "Monitore
napoletano", e persino alle parlate dialettali,
la diffusione delle loro idee, di eventi e
programmi. Ma in un contesto di diffuso
analfabetismo tali strumenti potérono servire a
poco, mentre ben diversa potrebbe essere oggi la
capacità di penetrazione della stampa e dei mezzi
audiovisivi negli strati di popolazione dove, a
fronte di un ridotto analfabetismo strumentale,
persiste però un preoccupante, crescente
analfabetismo civile.
Del resto, la pervasività dei mezzi di comunicazione
di massa sembra oggi orientata più verso logiche di
profitto e di assopimento socioculturale che verso
progetti di rinascita civile e politica. La
televisione tende ad essere più una "cattiva
maestra" che uno strumento di promozione culturale e
di educazione permanente.
Gli intellettuali, non solo quelli meridionali,
sembrano oggi, tranne che per qualche eccezione, più
disponibili ad aggirarsi nei palazzi e nei salotti
(siano questi pure televisivi) che ad affrontare le
difficoltà di una comunicazione mal sostenuta e
malvista dal potere, di scomodi di network e di
testate a livello locale, con conseguenti
immaginabili circoli viziosi nel decadimento della
qualità e dell'efficacia.
I
rivoluzionari del '99, che non potevano contare su
strumenti di comunicazione di massa, ma avevano solo
salotti di nobiltà e di regalità a loro
disposizione, vollero abbandonare quei salotti e
cercarono di scendere tra la gente per far valere
una dimensione pedagogica della cultura e della
politica.
La
loro fu più un progetto di rivoluzione che una
rivoluzione vera e propria; ebbe più le
caratteristiche di una cospirazione che quelle di
una insurrezione e, in quanto tale, rimase isolata
in un Mezzogiorno antirivoluzionario per eccellenza
e che ha continuato, come allora, a preferire
l'ossequiosa "vicinanza" al potere di turno al
coraggio del rinnovamento. |