N. 9 - Febbraio 2006
IL SALICE D’ARGENTO E IL GIUSTO SENZA
RIPOSO
Raoul Wallenberg, il salvatore perduto
degli ebrei di Budapest
di Alessia Ghisi Migliari
Aveva una vita giovane e fortuna a piene mani.
Raoul Wallenberg era uno dei rampolli della più
importante famiglia di banchieri svedesi; mentre i
suoi parenti intrecciavano affari da una parte
all’altra del globo, lui cresceva ricco, poliglotta e
colto.
Apprezzato nella buona società, laureato in
architettura e con prospettive più che brillanti, nel
1944, a soli trentadue anni, decide di dare una virata
violenta alla sua esistenza privilegiata.
I
motivi di questa sua scelta non son realmente noti, e
le speculazioni inerenti forse soffrono eccessivamente
di buonismo; senza dubbio però, accanto alla volontà
di mettersi alla prova, Raoul possedeva una
sensibilità notevole per quanto riguardava la
situazione degli ebrei d’Europa sotto Hitler.
Lo
sterminio, la cui eco giunge anche in Svezia (Paese
neutrale), spinge così Wallenberg a offrirsi per un
compito pericoloso: serve un uomo al di sopra dei
sospetti, che parli assai bene tedesco e si rechi come
legato a Budapest con lo scopo di salvare quante più
persone possibili.
Metodi da usare? Qualunque risulti fattibile.
Raoul arriva così nella capitale ungherese con il suo
complicato e vago compito.
In
quella città martoriata, il piano nazista va a gonfie
vele, grazie alla diretta supervisione del celebre
Adolf Eichmann, in seguito giustiziato in Israele e
che ispirò alla Arendt la nota espressione ‘la
banalità del male’; ufficiale apparentemente incolore
e delfino di Himmler, Eichmann mobilita tutta la sua
notevole capacità organizzativa per assicurarsi che
neanche un ebreo possa sfuggire al suo destino
disegnato dal millenario Reich.
A
questo punto, lo svedese di ottima famiglia e buona
sorte mostra una creatività e una temerarietà che non
conoscono moderazione: inizia a rilasciare
"passaporti di protezione" (Schultz-Pass) a
chiunque possa mostrare anche una minima connessione
con la Svezia. Che sia una remota parentela o anche
meno, questi legami fasulli e inventati fanno sì che
le tessere in questione, in realtà senza valore,
garantiscano l’immunità a chi le possiede. Per quanto
irritate, le SS non possono rischiare incidenti
diplomatici, anche se è chiaro a chiunque che quel
pezzo di carta è in troppe mani.
Raoul organizza "case svedesi" dove fa sì che si
raccolgano il maggior numero di ebrei possibili, si
reca nelle stazioni da dove partono i convogli senza
ritorno, e con un fucile puntato nella schiena si
adopera per far scendere dai vagoni altri essere
umani.
Perennemente osteggiato da Eichmann e colleghi, che lo
minacciano e lo controllano passo dopo passo,
Wallenberg resta a Budapest fino al gennaio del 1945.
Fino alla fine, insomma.
E
dopo?
Inizia l’enigma.
Che sorte ha il diplomatico svedese che s’è
immischiato nei precisi progetti di "pulizia" dei
nazisti?
Nessuno lo sa con certezza.
Catturato sicuramente dei russi che, nel caos del
momento, non comprendono il ruolo dell’uomo scandinavo
che parla tanto bene il tedesco, le tracce di questo
eroico personaggio svaniscono.
Si
perdono nelle prigioni staliniane, notoriamente non
particolarmente comode.
Proprio così: si smarriscono per anni, nessuno riesce
a scoprirne nulla. Il
secondo conflitto mondiale è finito, la situazione
confusa, si fatica ad avere notizie, anche se lo
scomparso è figlio e nipote di "gente importante".
Quando poi si inizia a indagare meglio, la Guerra
Fredda è in corso, e magari sarebbe pessima cosa far
sapere d’aver imprigionato per errore un delegato
svedese.
La
madre del giovane non si rassegna – non lo farà mai –
e man mano che il nome del figlio diviene noto
aumentano le pressioni per scoprire dove sia colui che
ha salvato quasi centomila ebrei.
Ciò che emerge è che effettivamente Raoul è stato
rinchiuso dietro le sbarre russe, in diversi luoghi,
ma a quanto risulta è deceduto di morte naturale nel
1947.
Fatto che si scontra con le testimonianze di chi
asserisce di averlo incontrato in prigione anni dopo e
di aver addirittura saputo del suo ricovero in un
ospedale psichiatrico ben oltre il 1960. Se
così fosse, e le prove sono molteplici,
significherebbe che – per nascondere un "errore di
valutazione" – si è lasciato languire un innocente per
decenni dietro mura invalicabili e senza dubbio
crudeli.
Nessun incontro tra la Russia e la Svezia è riuscito a
far emergere il reale e drammatico epilogo dei giorni
coraggiosi e persi di Wallenberg.
Nel suo Paese è giustamente considerato un eroe (come
finalmente accade anche da noi per Giorgio Perlasca),
a lui sono intitolati istituti e quanto altro; in
Israele ha la sua pianta nel Giardino dei Giusti, e
in un parco di Budapest a lui dedicato è stato
innalzato un salice piangente d’argento, splendido e
commovente monumento eretto per ricordare le vittime
dell’olocausto (su ogni delicata foglia vi è un nome).
La
splendida opera d’arte è stata posta al centro
dell’ampio spazio verde pensato in onore di chi ha
permesso a questo struggente albero commemorativo di
avere molte tristi fronde in meno.
Ovviamente, non sono rami che si muovono di vento o
pioggia ; ma nel loro leggero brillare rimangono
monito e celebrazione del dolore, ma anche del
prodigioso potere del singolo nelle tormente della
Storia.
E
rimane l’attesa di sapere – sempre troppo tardi – la
fine ingiusta di Wallenberg.
Non tutti i Giusti hanno il loro riposo.
Riferimenti bibliografici:
Vecchioni, D., “Raoul Wallenberg”, Euro Press ’94 ;
Bierman, J., “Righteous
gentile : the story of Raoul Wallenberg”, Reprint
Edition ’92 ;
Wallenberg, R., “Letters
and dispatches”, Arcade Publishing ’95 ;
www.raoul-wallenberg.org
www.remember.org/imagine/wallenberg.html
www.raoul-wallenberg.com |