N. 19 - Dicembre 2006
REPRESSIONE PSICHIATRICA DEL DISSENSO
Il caso
sovietico
di
Stefano De Luca
L’aspetto forse più infelice della realtà sovietica è
la prassi dell’uso della psichiatria per fini
politici. Se il sistema dei Gulag aveva
coinvolto milioni di cittadini, la repressione
psichiatrica fu di proporzioni molto minori, ma ancor
più inumana. E’ necessario per prima cosa analizzare
tre articoli del CP della RSFSR, inseriti nel
Paragrafo VI, Misure coercitive di carattere
sanitario ed educativo:
Art. 58.
‘Adozione di misure coercitive di carattere sanitario
nei confronti degli infermi di mente’: «Nei
confronti di chi ha commesso un fatto socialmente
pericoloso in stato di non imputabilità, o chi abbia
subito squilibri psichici per cui non sia in grado di
rendersi conto delle proprie azioni, o di
controllarle, il tribunale può adottare le seguenti
misure coercitive di carattere sanitario: 1) ricovero
in un ospedale psichiatrico di tipo comune; 2)
ricovero in un ospedale psichiatrico di tipo speciale».
Art. 59.
‘Ricovero in un ospedale psichiatrico’: « […] Il
ricovero in un ospedale psichiatrico di tipo speciale
può essere disposto dal tribunale nei confronti
dell’infermo di mante che, che per il suo stato
psichico e per il carattere del fatto socialmente
pericoloso commesso, costituisca uno specifico
pericolo per la società. Le persone ricoverate in
ospedale psichiatrico di tipo speciale sono tenute
sotto stretta sorveglianza, tale da escludere la
possibilità che esse commettano nuovi fatti
socialmente pericolosi».
Art. 60.
‘Applicazione, cambiamento e cessazione delle misure
coercitive di carattere sanitario nei confronti degli
infermi di mente’: « […] La cessazione delle misure
coercitive di carattere sanitario viene disposta dal
Tribunale, su referto dell’istituto di cura, nei casi
in cui il ricoverato sia guarito oppure sia cambiato
il carattere della sua malattia, e pertanto sia venuta
meno la necessità di applicare ulteriormente le misure
sanitarie già stabilite».
Numerosi furono i dissidenti sovietici dichiarati
malati di mente, e questi articoli del CP davano
‘legittimazione’ giuridica a tale prassi. L’art. 58
dice che nei confronti di “chi ha commesso un fatto
socialmente pericoloso in stato di non imputabilità”
possono essere adottate delle misure coercitive di
carattere sanitario. I dissidenti venivano il più
delle volte accusati per aver commesso ‘atti
socialmente pericolosi’: ma a chi spettava stabilire
se fossero soggetti a cui non si potessero imputare i
fatti commessi in quanto ‘malati di mente’?
Formalmente era compito delle commissioni
psichiatriche di turno, anche se in realtà l’influenza
del KGB e dell’MVD, vale a dire del ‘personale’ non
medico, risultò determinante ai fini dell’accertamento
della non imputabilità penale dei dissidenti.
Esistevano due procedure per l’internamento coatto,
una penale ed una civile. Nel primo caso, qualora
fosse in corso un processo ai danni di un individuo
‘socialmente pericoloso’, gli organi d’istruzione
giudiziaria o la procura potevano richiedere per
l’accusato un esame psichiatrico che ne accertasse il
livello di imputabilità. L’imputato veniva allora
esaminato da una commissione psichiatrica e, se il
verdetto della diagnosi lo dichiarava mentalmente
incapace, la diagnosi stessa tornava al tribunale, che
doveva decidere in ultima istanza se sollevare o meno
l’imputato da responsabilità penali.
Dato
che il tribunale altro non faceva che sanzionare
quanto diagnosticato, si comprende l’importanza
‘politica’ delle commissioni psichiatriche
esaminatrici.
Ancor
prima che il tribunale fosse entrato in possesso del
verdetto della commissione psichiatrica, l’accusato
perdeva formalmente tutta una serie di diritti, come
quello di entrare in possesso di qualsiasi tipo di
documentazione sul proprio caso, o persino di
comparire all’udienza che avrebbe determinato le
proprie sorti. L’individuo veniva ridotto pressoché
all’impotenza, poiché da quel momento a prendersi cura
della sua persona sarebbero intervenuti gli organi
‘sanitari’ preposti. Una delle pochissime garanzie
procedurali previste dalla legge, era l’obbligatorietà
della partecipazione di un avvocato della difesa alle
udienze in tribunale. Nella prassi, tale diritto
veniva di buon grado violato.
La
procedura civile d’internamento veniva applicata
qualora, per circostanze obiettive, non fosse sembrato
opportuno dare inizio ad una azione penale. In tal
caso, l’individuo ‘socialmente pericoloso’ era
segnalato ad un centro psichiatrico come probabile
malato di mente. La commissione, composta da tre
psichiatri, poteva decidere autonomamente se internare
o meno il soggetto. I regolamenti “non accennano ad
alcun diritto dell’internato di conferire con un
legale”.
In virtù di questa procedura, i dissidenti sono stati
internati coattivamente nelle più varie circostanze,
prelevati direttamente dal luogo di lavoro, da casa,
da scuola, dalla strada.
Esistevano anche altre modalità di internamento, come
ad esempio nel caso in cui un testimone di una
qualsiasi causa penale facesse sorgere il dubbio, in
chi conduceva l’inchiesta, sulle sue capacità di
valutare correttamente le circostanze rilevanti per la
causa.
A
questo punto, è necessario analizzare attentamente le
diagnosi degli elementi ‘socialmente pericolosi’, e
più in generale l’etica degli psichiatri sovietici. Va
intanto detto che il fine politico “dell’organizzare e
sponsorizzare” un utilizzo “perverso” della
psichiatria, “consisteva nello screditare il legittimo
dissenso facendolo passare per patologia”.
Nel
1959 Nikita Chruščëv, per giustificare l’uso sovietico
della psichiatria, dichiarò che “un crimine è una
deviazione dagli standard di comportamento
generalmente riconosciuti, spesso causato da disturbi
mentali. E’ possibile che si manifestino patologie
nervose all’interno di una società comunista?
Ovviamente si”. Quindi era possibile che persone
affette di da disturbi mentali potessero compiere dei
crimini: in tal caso, “a coloro che intendono fondare
l’opposizione al comunismo su queste basi, possiamo
rispondere che le condizioni di tali persone deviano
in maniera evidente dalla normalità”.
Ancor
più significativo quanto dichiarato da Jurij Andropov
nel 1977, per il quale “le cause del dissenso, come è
noto, possono essere diverse: errori politici e
ideologici, fanatismo religioso, deviazioni
nazionalistiche, offese e insuccessi personali
recepiti come inadeguato apprezzamento dei propri
meriti da parte della società e infine, in molti casi,
l’instabilità psichica”.
Sidney Bloch e Paul Chodoff parlano di
«indottrinamento» degli psichiatri sovietici, ai quali
veniva inculcato il “credo marxista-leninista” per il
quale “gli obblighi nei confronti dello Stato hanno la
prevalenza sui diritti individuali”. Dal momento che
tutti i medici sovietici, al momento della laurea,
“non recitavano il Giuramento di Ippocrate, bensì il
giuramento del medico dell’Unione Sovietica”, ed erano
tenuti a rispondere della loro condotta medica
direttamente allo Stato sovietico e non ai propri
pazienti, si può capire come fu possibile imporre loro
la “convinzione che il dissenso fosse distruttivo e
che potesse manifestarsi solo all’interno di una mente
malata”.
Cardine ideologico di questa logica, le teorie dello
psichiatra Andrejj Snežnevskij, che ‘creò’ per i
dissidenti la fattispecie patologica della
“schizofrenia latente”.
Snežnevskij, direttore dell’Istituto di psichiatria
presso l’Accademia delle Scienze mediche dell’URSS, e
dell’Istituto di psichiatria forense di Mosca Serbskij,
diede una “definizione oltremodo estensiva di
schizofrenia”. Secondo la sua interpretazione, che
divenne l’interpretazione ‘ufficiale’, la schizofrenia
“non è necessariamente accompagnata da sintomi
esterni, anche quando è abbastanza grave da
giustificare un’ospedalizzazione coattiva”.
La schizofrenia «latente» per l’appunto, o «dal
decorso lento». Snežnevskij spiegava come “le persone
a contatto con simili casi non hanno l’impressione che
si tratti di evidente pazzia”, ed anche come
“l’apparente normalità di tali persone malate […]
viene usata dalla propaganda anti-sovietica per
affermare calunniosamente che esse non soffrono di
disordine mentale”. Bloch e Chodoff hanno elaborato
una tabella contenente una lista di “sintomi
schizofrenici” descritti dalla Scuola di Mosca
che è possibile riscontrare negli stili di vita dei
dissidenti:
·
Originalità
·
Formulazioni ideologiche
·
Paura e sospetto
·
Religiosità
·
Depressione
·
Ambivalenza, colpa, conflitti interni
·
Intensità
·
Attenzione ai dettagli
·
Scarso adattamento all’ambiente sociale
·
Mutevolezza di interessi
·
Revisionismo
Oltre
alle varie forme di «schizofrenia latente», i
dissidenti vennero frequentemente diagnosticati di
«sviluppo paranoico della personalità».
La psicosi paranoica “è caratterizzata da diffidenza,
suscettibilità, tendenza marcata alle idee deliranti,
ed un pensiero tendente a credere ogni avvenimento,
anche il più insignificante, come occasione di un atto
esemplare”.
Da questa psicosi, ne deriva col tempo uno “sviluppo
paranoico della personalità, vale a dire un sistema
strutturato di delirio: delirio di persecuzione o di
recriminazione”.
Al
pari dell’etica psichiatrica sovietica, ai fini delle
diagnosi che attestavano i disturbi psicologici dei
dissidenti, risulta determinante l’attività diretta
esercitata dagli organi di sicurezza statale. Nei casi
con risvolti politici infatti, ad assistere alla
perizia psichiatrica dei dissidenti c’erano tanto i
funzionari dell’MVD, quanto quelli del KGB. Questa
presenza ‘ingombrante’ durante i lavori delle
commissioni psichiatriche rendeva le stesse facilmente
suggestionabili dall’influenza delle autorità statali
che hanno un interesse diretto nei casi politici.
Žores Medvedev, internato nel 1970, spiega come
“l’equipe psichiatrica per i casi politici viene
scelta dalla pubblica accusa o dai responsabili
dell’Istituto Serbski”. Gli psichiatri “proposti da
avvocati o parenti, non sono mai stati inseriti in
queste equipes”.
Come se non bastasse, gli istituti psichiatrici
sovietici più importanti includevano nella loro ‘prima
sezione’ rappresentanti del KGB.
Pëtr
Grigorienko rileva, alla fine degli anni Sessanta,
come l’Istituto Serbskij, il più importante da un
punto di vista diagnostico, fosse subordinato agli
organi della sicurezza di Stato. “Ho veduto più di una
volta”, racconta Grigorienko, internato nel 1969, “il
professor Lunts, capo del reparto in cui era stata
stesa la mia diagnosi, venire a lavorare in uniforme
di colonnello del KGB […]. Quando poi entrava nel
reparto, indossava sempre il camice bianco”.
In
base all’art. 59 del CP, il malato di mente
socialmente pericoloso veniva sottoposto alle ‘cure’
degli ospedali psichiatrici speciali, dove era tenuto
sotto stretta sorveglianza, tale da escludere la
possibilità che esso commettesse nuovi gesti
socialmente pericolosi. Gli ospedali psichiatrici
speciali erano molto più simili ad una prigione che ad
un ospedale psichiatrico di tipo comune. Si può anzi
dire che fossero ancora più rigidi di una prigione,
proprio perché concepiti per ‘ospitare’ gli elementi
‘socialmenti pericolosi’, tra i quali i dissidenti.
Riferimenti bibliografici
|