N. 29 - Ottobre 2007
Teorie sui movimenti sociali
Resource
mobilization approach, political process
model e nuovi movimenti sociali
di
Stefano De Luca
Nella grande mobilitazione di massa che dalla metà
degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta ha
attraversato l’Italia e altre democrazie
occidentali, sono emersi dei nuovi movimenti
sociali, caratterizzati sia dalla novità dei temi
affrontati che dagli attori impegnati in questi
‘conflitti’ (giovani, donne, nuovi gruppi
professionali, ecc.). Proprio lo sviluppo di questi
movimenti ha reso evidente, come i due principali
modelli teorici di interpretazione del conflitto
sociale, quello struttural-funzionalista e quello
marxista, non erano più in grado di interpretare i
nuovi conflitti.
Sia negli Stati Uniti sia in Europa, c’è stata una
critica delle rispettive tradizioni di studio sui
movimenti sociali, con un conseguente aumento di
attenzione da parte di studiosi di scienza politica
e di sociologia a questo tema sino a quel momento
considerato marginale.
La tradizione marxista, anche se non si è mai
occupata esplicitamente dei movimenti sociali,
sostiene che le azioni di protesta presenti nelle
società sono azioni razionali motivate da interessi
di classe, e dirette a provocare mutamenti radicali.
Secondo Karl Marx la classe esprime una comunanza di
posizione nel rapporto di produzione, o meglio una
comune condizione di esistenza, presupposto del
sorgere di quella coscienza di classe che permette
agli individui di mobilitarsi. Le azioni di protesta
scaturiscono dalle contraddizioni del sistema
capitalistico, il quale contiene già i germi della
propria dissoluzione, il proletariato. Questo, nella
dialettica marxista, avrebbe soppiantato
‘sicuramente’ la classe borghese, rea delle
ingiustizie presenti.
Si può intuire facilmente come questo tipo di
approccio non risultasse più idoneo a dare una
spiegazione dei nuovi fenomeni dove, come già
accennato, a mobilitarsi sono stati soprattutto
nuovi attori come studenti e donne. Anche le
tematiche su cui s’incentrava il conflitto non erano
più inquadrabili nelle principali divisioni intorno
alle quali si erano composti i sistemi politici
delle società industriali: soprattutto, non erano
più conflitti di classe (anche se non bisogna
sottovalutare le lotte operaie in Italia di quegli
anni).
Il modello marxista non era più in grado di spiegare
le dinamiche di quest’azione collettiva, che si
svolgeva al di fuori di strutture rigidamente
organizzate quali i partiti.
Per quanto riguarda la sociologia americana, la
scuola che si occupava dello studio dei movimenti
sociali era il collective behaviour approach.
I movimenti sociali erano descritti come fenomeni
prevalentemente irrazionali che si sviluppano quando
si diffonde un sentimento d’insoddisfazione verso il
sistema, e a cui le istituzioni non riescono a dare
risposta. I limiti a questo tipo di approccio sono
due: si usa un unico concetto per designare fenomeni
diversi quali le folle, i moti, il panico, le mode e
i movimenti sociali, facendo più attenzione alle
dinamiche impreviste come ad esempio le reazioni che
si scatenano all’interno di una folla, che alle
strategie consapevoli che gli attori sociali mettono
in pratica per raggiungere l’obiettivo; in secondo
luogo viene data una descrizione, sia pure
dettagliata, della realtà, senza dedicare attenzione
alle fonti strutturali del conflitto che provocano
la mobilitazione.
La reazione a queste carenze assunse però forme
diverse sulle due sponde dell’Atlantico.
Comunemente, infatti, si usa fare riferimento ad un
approccio ‘americano’ e uno ‘europeo’ nello studio
dei movimenti sociali. Questo fatto è dovuto
principalmente a due motivi: il primo è
rintracciabile nelle differenze esistenti tra le
tradizioni culturali nelle scienze sociali nei due
continenti; il secondo, nell’aver utilizzato dei
diversi oggetti di studio per l’analisi delle
proteste.
Infatti pur essendosi sviluppati contemporaneamente,
e pur essendo in contatto l’uno con l’altro, i
movimenti collettivi della fine degli anni Sessanta
e quelli che li seguirono, ebbero caratteristiche
parzialmente diverse nei due continenti.
Negli Stati Uniti i movimenti protagonisti
dell’ondata di protesta si trasformarono il più
delle volte in gruppi di pressione oppure, quando
avevano un forte sentimento antisistema, vennero
assumendo un carattere contro-culturale. In Europa i
movimenti sociali sono stati influenzati dai forti
movimenti operai nazionali, e da questi hanno
ereditato la forte ‘ideologizzazione’ e i tratti
marcatamente antisistema.
Le scuole di pensiero che si sono formate negli
Stati Uniti in concomitanza dei movimenti degli anni
’60, e che contestano l’approccio
struttural-funzionalista, dove questi vengono
considerati come un sintomo di malessere a livello
sociale, sono il resource mobilization approach
e il political process model.
Entrambi sottolineano la razionalità dei
comportamenti collettivi, e il fatto che i
movimenti, come del resto gli altri attori politici,
sono consapevoli del proprio ruolo nel mutamento
sociale.
In Europa invece l’insoddisfazione nei confronti del
marxismo sviluppò la prospettiva di analisi dei
‘nuovi movimenti sociali’, che intendeva
sottolineare la novità di questi movimenti rispetto
a quello operaio, sia per quanto riguardo i temi su
cui si svolgeva la mobilitazione, che per la novità
degli attori impegnati nei conflitti.
Fatte queste premesse possiamo evidenziare tre
prospettive dominanti nell’analisi dei movimenti
sociali: resource mobilization approach,
political process model, ‘nuovi movimenti
sociali’.
L’analisi dei processi di mobilitazione delle
risorse necessarie all’azione collettiva,
sviluppatasi negli Stati Uniti nel corso degli anni
Settanta, considera i movimenti sociali
un’estensione delle forme tradizionali di azione
politica, che agiscono in modo razionale per il
perseguimento dei propri interessi. Sono soggetti
coscienti che applicano delle scelte razionali e
sono anche, come già negli anni Venti li aveva
considerati la ‘scuola di Chicago’,
attori del mutamento del sistema: non un fenomeno
patologico, una devianza o una disfunzione del
sistema stesso, come erano stati descritti dalla
sociologia americana del collective behaviour.
Secondo il resource model approach, l’azione
collettiva nasce dal calcolo razionale degli
interessi da perseguire in una società, che è
composta da gruppi sociali in conflitto tra loro;
quindi per poter dare una spiegazione esaustiva ai
movimenti sociali non basta scoprire l’esistenza di
tensioni e conflitti strutturali, occorre anche
studiare le condizioni che permettono di trasformare
lo scontento in mobilitazione.
Questi studiosi (come Zald, Oberschall, Tilly)
sostengono che la capacità di mobilitazione dipende
dalle risorse materiali (lavoro, denaro, beni
concreti e servizi) e non (autorità, impegno morale,
fede, relazioni d’amicizia) a disposizione di un
gruppo. Tali risorse vengono distribuite dal gruppo
a seconda degli obiettivi che si sono prefissati,
facendo un calcolo razionale dei costi e dei
benefici. Di conseguenza tipo ed entità delle
risorse disponibili spiegherebbero le scelte
tattiche dei movimenti, e le conseguenze sul sistema
sociale e politico.
La mobilitazione deriva dal modo in cui i movimenti
sociali sono in grado di organizzare lo scontento,
ridurre i costi dell’azione, utilizzare e creare
reti di solidarietà, distribuire incentivi ai
membri, acquisire consenso all’esterno e non solo
quando si diffonde un sentimento d'insoddisfazione,
come avevano affermato i sociologi del collective
behaviour.
Le tensioni, i possibili conflitti all’interno di
una società sono tanti, e per capire però quando
esplodono e come si formano i movimenti sociali
bisogna guardare alle risorse che hanno a
disposizione in un particolare periodo questi
attori; altrimenti si potrebbe pensare che ogni
volta che compare una ragione di protesta, o che si
costituiscono dei gruppi con interessi particolari,
ogni volta che emergono delle rivendicazioni,
automaticamente il sistema fornisce a questi gruppi
delle risorse che gli permettono di trasformare la
contraddizione in conflitto.
Si può dunque affermare che le basi strutturali del
conflitto non solo non costituiscono una spiegazione
sufficiente, ma che se ci si ferma ad esse si
rischia di non capire come, ad esempio, da una
stessa contraddizione possa ‘emergere’ un movimento
pragmatico o uno violento, un movimento, come lo
sono molti in Europa, che riprenda la frattura tra
destra e sinistra presente appunto all’interno delle
società europee.
L’analisi dei movimenti effettuata con questi
criteri ha messo in evidenza anche come a
mobilitarsi non sono gli individui più isolati e
sradicati della società che cercherebbero
nell’immersione nella massa un surrogato per la loro
emarginazione sociale, come fino allora si era
portati a credere,
ma coloro che sono o erano attivi e ben integrati
nella collettività. Infatti chi si mobilita lo fa
sia per una gratificazione morale, intrinseca nel
perseguimento di un bene collettivo, ma anche per
l’esistenza di legami di solidarietà sia
orizzontali, cioè interni alla collettività, che
verticali, tra collettività differenti. Varie
ricerche hanno dimostrato come i partecipanti alle
sommosse popolari, e gli attivisti nelle
organizzazioni d’opposizione, vengono reclutati in
primo luogo tra gli individui precedentemente attivi
e ben integrati nella collettività, mettendo in
evidenza come gli individui socialmente più isolati
e sradicati sarebbero meno rappresentati.
Varie critiche sono state mosse a questo tipo di
approccio, come la scarsa attenzione alle origini
strutturali del conflitto e l’aver trascurato la
capacità di organizzarsi dei gruppi sociali meno
dotati di risorse.
In questo approccio di studio si è prestata
attenzione soprattutto alle risorse organizzative e
ideologiche di un movimento, cioè quelle che
possiamo definire come risorse interne, considerate
come il fattore più influente per la loro
mobilitazione, ma, come affermano i teorici del
political process model, per capire come i
movimenti collettivi si sviluppano in maniera
differente nei diversi contesti nazionali, bisogna
guardare anche alle risorse esterne che questi
trovano nel loro ambiente. La mobilitazione dipende
in grande misura dalla struttura delle opportunità
politiche, che in un dato contesto sono offerte ai
movimenti sociali.
I movimenti sociali nascono e si sviluppano non in
risposta a delle condizioni di disagio psicologico
dovute al ritmo rapido del cambiamento sociale, ma a
delle ‘opportunità politiche’ che si aprono a
seguito di tale cambiamento strutturale.
Gli studiosi che si rifanno a questo tipo di
approccio analizzano le relazioni tra attori
politici istituzionali e protesta, rifiutando di
considerare i movimenti esclusivamente come
anti-istituzionali, e mettono in risalto il ruolo
dei movimenti nella rappresentanza degli interessi
degli individui. Con questo tipo di approccio, lo
studio sui movimenti sociali viene effettuato
prestando attenzione all’ambiente politico e
istituzionale in cui questi operano.
Con il concetto di ‘struttura delle opportunità
politiche’ si
intendono tutti quegli elementi caratteristici di un
sistema politico che influenzano l’azione dei
movimenti sociali come: il grado di apertura o
chiusura dei sistemi politici, il decentramento
territoriale, il grado di tolleranza dimostrato
dalle èlite nei confronti della protesta e il
rapporto che si instaura con gli alleati o gli
oppositori.
Sidney Tarrow ad esempio, nella sua analisi dei
cicli di protesta in Italia dal 1965 al 1975, ha
messo in evidenza come lo sviluppo dei movimenti
sociali sia influenzato dal grado di apertura del
sistema politico.
La partecipazione ad un movimento sociale si
intensifica quando si aprono canali di accesso nel
sistema politico, portando gli attivisti a credere
nella possibilità di successo della protesta.
Da questo punto di vista, l’emergere di nuovi
movimenti nel corso degli anni Sessanta in Italia è
stato favorito dall’esperienza del governo di
centro-sinistra, che aveva creato sia delle speranze
di riforma profonde nella società, che la
convinzione di trovare degli alleati all’interno
delle istituzioni. La presenza di questi alleati
all’interno del sistema politico, rende i movimenti
più moderati nelle forme di azione e nelle
ideologie. Invece la perdita di alleati
istituzionali, può scoraggiare una mobilitazione di
massa, e radicalizzare le forme di azione di coloro
che restano attivi nei movimenti.
Altra caratteristica del sistema politico che può
influenzare le forme di protesta dei movimenti è il
grado di decentramento territoriale. Gli studiosi
che si rifanno al political process model,
sostengono che tanto maggiori sono i poteri
distribuiti alla periferia (enti locali, regioni,
Stati in sistemi federali), tanto maggiori saranno
le possibilità per i singoli movimenti di trovare un
punto di accesso nel sistema decisionale. Infatti si
considera in genere più facile l’accesso al sistema,
quanto più vicina è al cittadino l’unità
amministrativa.
Ad esempio in un sistema federale i movimenti
sociali avranno una pluralità di punti di accesso al
sistema, sia a livello nazionale che a quello
regionale. Questi movimenti adotteranno di
conseguenza un tipo di organizzazione
decentralizzata, per essere rappresentati ed agire
più vicino ai centri di potere regionali. Sul piano
dell’azione, tenderanno ad agire attraverso forme di
protesta più moderate, dal momento che gli attori
sono consapevoli del fatto che il sistema offre loro
diverse vie per canalizzare la loro protesta.
Infine altro elemento del sistema politico che
influenza la formazione dei movimenti sociali è il
grado di tolleranza dimostrato dalle èlites
verso la protesta, in particolare le strategie
prevalenti utilizzate per reprimere la protesta.
Queste strategie sono state distinte in esclusive,
caratterizzate dalla repressione dei conflitti, e
inclusive, orientate alla cooperazione con le nuove
domande.
Gli studiosi del political process model
hanno messo in evidenza come in alcuni paesi
dell’Europa, Italia, Francia e Germania,
l’esperienze di regimi totalitari e anche la
ritardata introduzione del suffragio universale
avrebbero portato ad adottare strategie di tipo
esclusivo nei confronti degli ‘sfidanti’ del sistema
politico.
Questo atteggiamento nei confronti degli ‘sfidanti’,
avrebbe influenzato il movimento operaio che in
questi paesi si è contraddistinto per essere diviso
e radicalizzato. Al contrario, in paesi come Gran
Bretagna e i Paesi scandinavi, dove non vi sono
state esperienze assolutistiche e con una precoce
introduzione del suffragio universale, le strategie
sarebbero di tipo inclusive, infatti i movimenti
operai sono stati caratterizzati dall’unità interna
e dalla moderazione delle forme di protesta.
Da queste analisi è emerso come i regimi politici
qualificati da strategie inclusive sarebbero aperti
ai nuovi sfidanti, e i movimenti che emergono più
moderati; al contrario i regimi caratterizzati da
strategie esclusive sarebbero chiusi rispetto alle
domande emergenti, e qui vi sarebbe una
radicalizzazione della protesta. Come ad esempio è
accaduto in Italia per quanto riguarda il movimento
studentesco, che a causa della forte repressione
incontrata, si sarebbe radicalizzato sino a
degenerare nel terrorismo.
Di recente è stato osservato da questi studiosi che
in tutte le democrazie si sta adattando una tendenza
più inclusiva, con una prevalenza di strategie di
mediazione, nella gestione dell’ordine pubblico.
Questo elemento favorisce il proliferare di
movimenti sociali diffusi e pacifici.
Infine, altra variabili che può influenzare lo
sviluppo dei movimenti è il rapporto che si instaura
tra i movimenti sociali e i loro possibili alleati
od oppositori. I movimenti sociali trovano in genere
alleati od oppositori nell’amministrazione pubblica,
nel sistema dei partiti e nella società civile, e
quindi secondo gli studiosi del political process
model, bisogna anche prestare attenzione a che
genere di rapporti si instaurano tra questi attori,
per capire che influenze hanno sui movimenti
sociali. Il sistema di alleanze infatti fornisce
risorse e crea opportunità politiche per gli
sfidanti, che invece gli oppositori cercano di
eliminare.
Attraverso le differenze che si riscontrano tra il
movimento studentesco italiano e quelli che si sono
sviluppati negli altri paesi negli anni Sessanta, si
può capire l’influenza ha avuto nei movimenti il
rapporto con i partiti della sinistra.
Nel nostro paese i movimenti, trovandosi in un sistema già polarizzato,
hanno avuto bisogno di alleati forti, che hanno
trovato nei partiti di sinistra. Questi gli
fornivano sia delle consistenti risorse per le
mobilitazioni, ma hanno anche la forte ostilità
degli oppositori della sinistra. Ciò ha fatto sì che
però per differenziarsi dalla sinistra tradizionale,
in Italia i movimenti hanno assunto caratteri
utopici o radicali mentre, negli altri paesi, dove
il rapporto con i partiti di sinistra era meno
forte, si sono caratterizzati per aver introdotto
dei nuovi temi.
Solo con la depolarizzazione degli anni Ottanta e
Novanta, i movimenti sociali in Italia potranno,
come quelli di altri paesi, evitare un appiattimento
troppo forte sul cleavage politico della
sinistra, creando così alleanze trasversali nel
sistema politico.
Sia il politcal process model che il
resource mobilization approach studiano le
condizioni dell’azione collettiva, la sua formazione
e il suo sviluppo, trascurando le origini
strutturali del conflitto, il perché. Allo studio di
questo aspetto si è dedicata la sociologia europea
dei ‘nuovi movimenti sociali’.
Gli studiosi che utilizzano quest’ultimo approccio
(come Alain Tourain, Claus Offe e Alberto Melucci),
definiscono i movimenti sociali che si sono
sviluppati dagli anni Sessanta in poi come il
prodotto dei nuovi conflitti presenti nelle società
moderne (definite con vari termini come
post-industriali, tecnocratiche e post-fordiste).
L’ampliamento dell’accesso all’istruzione superiore,
l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, lo
sviluppo economico, hanno fatto emergere dei nuovi
conflitti e aumentato la rilevanza dei criteri di
stratificazione sociale, come ad esempio il genere,
non più fondati sulla posizione di classe, spostando
l’attenzione ad esempio dalle condizioni dei
lavoratori nelle fabbriche, alle rivendicazioni
degli studenti per un’istruzione che non sia più d’élite,
o ancora alle lotte delle donne o degli omosessuali
per una maggiore tutela delle proprie condizioni.
E’ a queste novità presenti nelle società che
prestano attenzione i sociologi europei nello
studiare le origini strutturali dei conflitti emersi
negli anni Sessanta.
Secondo questi studiosi i movimenti nati negli anni
Sessanta sono ‘nuovi’ rispetto al movimento operaio.
Le origini del conflitto non sarebbero più
rintracciabili nella contrapposizione
capitale-lavoro, ma centrale per questi movimenti
diviene la critica verso il modernismo e il
progresso, tentano di opporsi alla penetrazione
dello Stato nella vita sociale, e difendono la sfera
dell’autonomia personale.
Questo cambiamento è dovuto, sostengono i teorici
dei nuovi movimenti sociali, alla crescita
dello Stato del benessere e alla centralizzazione
dell’economia capitalistica, che ha spostato
l’attenzione dai temi del benessere materiale a
quelli relativi allo stile di vita.
Dagli anni Ottanta in poi questi studiosi hanno
parlato della fine dei movimenti. Non esisterebbero
più movimenti collettivi, esistono partiti politici
come i Verdi, o gruppi di pressione, come il WWF e
Green Peace, o associazioni di volontariato. Ma,
come sostiene Donatella Della Porta, questo non è
vero, ed è più giusto parlare della creazione in
quegli anni di associazioni vicino ai movimenti, e
di partiti vicini ai movimenti (vedi ad esempio il
partito dei Verdi).
Riferimenti
bibliografici
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