N. 23 - Aprile 2007
I MARTIRI D’ISTIA
Storia
della
strage
di
Maiano
Lavacchio
(22/3/1944)
di Marco
Grilli
“Undici agnelli”;
così furono definiti da uno dei loro carnefici i
giovani di Monte Bottigli, ragazzi semplici d’origini
umili e sentimenti antifascisti che, all’indomani
dell’armistizio dell’otto settembre 1943, rifiutarono
l’arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana e si
dettero alla macchia.
Una scelta forte,
coraggiosa e rischiosa, pagata con la vita in quei
tristi anni in cui al fascismo repubblicano asservito
al regime nazista, si contrapponeva l’avanzata Alleata
appoggiata dalle bande partigiane, portatrici dei
valori di libertà, giustizia e democrazia.
Un fermo rifiuto della
guerra e delle armi, la volontà di non macchiarsi del
sangue dei propri fratelli mettendosi al servizio di
un regime privo di legittimità, il desiderio di
continuare a godere i frutti della propria giovinezza
nell’attesa dell’agognata Liberazione; questi sono gli
ideali incarnati dai “Martiri d’Istia”, non partigiani
combattenti ma esempio di una Resistenza civile e
passiva degna di esser ricordata in quest’epoca di
facili revisionismi.
“Essi partirono in
guerra contro il regno della morte, Essi contribuirono
ad uccidere il regno della morte, illuminati da un
purissimo pensiero di giustizia, di libertà e di
democrazia”; con queste parole li
ricordò Emilio Zannerini nel 1945.
Disertori, clandestini e
renitenti; in una parola “pacifisti” consci dei rischi
che correvano per il loro secco no al ritorno del
fascismo e all’occupazione tedesca.
Già nel bando
d’arruolamento del novembre 1943 erano previste misure
di rappresaglia per evitare le evasioni al
reclutamento, che andavano dall’arresto dei familiari
del renitente al rastrellamento: in campo nazionale su
180.000 precettati se ne presentarono c.a. 87.000. Al
successivo bando (8/2/1944; classi 1922-’23 e 1°
quadrimestre del 1924) seguì un decreto di Mussolini
(18/2/1944) che comminava la pena di morte mediante
fucilazione ai renitenti e disertori. Una vasta
campagna di propaganda fu attuata per dare la massima
diffusione al decreto; la Resistenza serrava le file
ma le misure del Ministro della Difesa RSI Graziani,
per soddisfare le richieste tedesche e reclutare la
Guardia Nazionale Repubblicana, non rimasero
infruttuose.
La paura per la pena di
morte, un movimento partigiano ancora in fase
organizzativa e le difficoltà dell’avanzata alleata,
contribuirono all’arruolamento nella RSI; anche per
questo oggi è lecito ricordare chi ebbe la forza di
schierarsi dalla parte della libertà. E’ il debito di
riconoscenza verso chi, in diversi modi, ha
contribuito alla liberazione dal nazi-fascismo e alla
nascita dell’Italia repubblicana e democratica.
I fatti
Questa triste vicenda
ebbe luogo a Maiano Lavacchio, frazione collinare del
comune di Magliano (Gr) contraddistinta dalla folta
macchia di Monte Bottigli e da numerosi poderi (fra
questi gli “Ariosti” dove vivevano i fratelli Biagi;
il “Lavacchio” tenuto dai Corsetti; la “Sdriscia”
della famiglia Matteini e l’ “Appalto” gestito da
Settimo Andrei e Teresa Biagi, principale luogo di
ritrovo della comunità poichè scuola, bottega e sala
da ballo).
Si trattava di una zona
piuttosto isolata e difficile da raggiungere, che
divenne presto meta di ex-soldati del Regio Esercito,
renitenti e clandestini che si unirono agli sfollati
giunti da Grosseto e Roma per timore dei
bombardamenti.
Questi “refrattari”, la
cui permanenza in zona fu favorita da alcuni elementi
quali Agenore Matteini e il poeta Mario Cipriani,
svolgevano lavori agricoli presso i contadini che li
ospitavano, ricevendo in cambio un piatto caldo ed un
modesto alloggio.
La situazione fu
piuttosto tranquilla fino al febbraio 1944, quando i
bandi fascisti divennero sempre più minacciosi e il
decreto del prefetto Ercolani, diffuso ovunque,
minacciò di passare per le armi i partigiani catturati
unitamente alle famiglie ospitanti.
Per questi motivi alla
fine di febbraio gli 11 giovani decisero di
nascondersi fra gli “scopi” di Monte Bottigli,
dove costruirono due capanne tra gli inviti alla
prudenza degli adulti.
Si trattava di
antifascisti di umili origini, legati tra loro da
vincoli di parentela o amicizia, renitenti alla leva o
fuggiti dall’esercito dopo l’armistizio dell’ 8
settembre 1943.
Essi erano privi di armi
e collegamenti con le bande partigiane della Provincia
(vi sono solo testimonianze di incontri con alcuni
membri del CLN provinciale quali Angiolo Rossi e
Pietro Verdi, infruttuosi per il passaggio alla lotta
armata), non avevano quindi una gerarchia militare e
non compirono mai atti di sabotaggio e agguati. La
decisione di darsi pacificamente alla macchia comportò
però dure privazioni e molti rischi, in quanto i
fascisti repubblicani assimilavano tutti gli imboscati
a partigiani combattenti. Nonostante tali pericoli, i
“ragazzi” (così furono sempre ricordati nelle
testimonianze orali della gente che li conobbe) si
mossero spesso dal loro rifugio verso Istia e i
poderi, sia per le provviste sia per vivere gli anni
più belli della loro giovinezza.
Iniziarono così a
diffondersi voci menzognere sulla costituzione del
gruppo di ribelli arnati; la Prefettura di Grosseto,
per volere del capo della provincia Alceo Ercolani,
del federale Silio Monti e del vice questore Liberale
Scotti, incaricò la spia catanese Lucio Raciti
d’investigare sui renitenti di Maiano Lavacchio.
Quest’ultimo, la mattina
del 19 marzo, si presentò al podere degli “Ariosti” ed
incontrò Angiolo Biagi, da poco reduce dalla campagna
di Russia, facendosi credere un ex-combattente del
fronte russo in fuga dai fascisti ed in cerca
d’ospitalità. Biagi cadde nella trappola e nel
pomeriggio ricevette la visita inaspettata di Mario
Becucci, un decoratore 38enne d’origini spezzine e
idee repubblicane, sfollato a Istia e in cerca di una
guida per Monte Bottigli, in quanto colpito da mandato
di cattura.
All’imbrunire giunsero
all’ “Ariosti” anche alcuni ragazzi delle capanne, i
quali incontrarono il Raciti fornendogli importanti
informazioni.
Quella notte il
siciliano dormì nella stessa stanza col Becucci,
mentre i “ragazzi” si diressero ad una festa all’
“Appalto”, per poi far ritorno nel bosco.
La mattina seguente la
spia inventò una scusa per non dirigersi alle capanne,
e s’affrettò a comunicare le informazioni ricevute ai
suoi “committenti”, non presentandosi nemmeno in
serata come promesso.
I “ragazzi” iniziarono a
insospettirsi e montarono una tenda militare in luogo
più sicuro, senza predisporvi però un’adeguata
vigilanza.
La notte del 21 marzo i
fascisti giunsero all’ “Ariosti” per la resa dei conti
e, dopo aver saccheggiato il podere e picchiato
selvaggiamente alcuni membri della famiglia Biagi,
costrinsero due ex-marinai cagliaritani che lì
dimoravano la notte (Piria e Careddu) e Adelmo Biagi,
a condurli alle capanne per arrestare i “ragazzi”.
Vano fu il tentativo di
Palmira Biagi Guidoni, madre di uno dei renitenti, di
scappare attraverso la copertura del tetto per
avvisare del pericolo il figlio e gli altri; un
fascista la vide e la fermò.
La spedizione (c.a. 140
uomini) composta da una colonna di guardie nazionali
repubblicane, un plotone di polizia, un nucleo di
carabinieri e alcuni soldati tedeschi, era capeggiata
dal cap. De Anna, il commissario di PS Scalone e il
sottotenente Muller. Nel frattempo gli altri poderi
della zona (l’ “Appalto”, il “Lavacchio” e la “Sdriscia”)
furono accerchiati e perquisiti da altri fascisti,
allo scopo di evitare che qualcuno facesse fallire la
sorpresa avvisando i renitenti.
Alle cinque e mezzo del
mattino i fascisti raggiunsero l’obiettivo e
intimarono la resa ai “ragazzi” colti nel sonno; le
capanne furono subito devastate e i prigionieri, che
non opposero alcuna resistenza in quanto disarmati,
dopo esser stati spogliati di ogni bene furono
allineati in fila indiana e caricati dei materassi,
le coperte e altri indumenti.
Durante il tragitto
verso il “Lavacchio” uno di loro, il disertore
austriaco “Gino”, si dette alla fuga imitato da altri
tre suoi compagni. I fascisti aprirono il fuoco; solo
il primo riuscì a fuggire, mentre gli altri si
riconsegnarono in seguito alla minaccia dell’immediata
fucilazione dei prigionieri.
Irritati dalla scomparsa
dell’austriaco, i rastrellatori si macchiarono di
altri tristi imprese prima al “Lavacchio”, dove fu
pestato un innocuo garzone, e poi al “Bonzalone”, dove
i militi s’accanirono sul Becucci. Divisisi poi in due
gruppi (uno comandato da Monti e De Anna, l’altro dal
podestà Pucini), i fascisti coi prigionieri giunsero
all’ “Appalto” e, dopo aver fatto sgombrare la scuola,
si servirono dell’aula per inscenare il processo farsa
dove furono imputati gli undici giovani insieme a
Piria, Careddu, Francesco Biagi e Ermenegildo
Corsetti, gli ultimi due accusati per detenzione di
due fucili. All’invito a parlare rivolto dal Monti, il
più anziano del gruppo, l’idealista Becucci, si alzò
in piedi, subito zittito dallo stesso Monti con la
sprezzante frase: “Tu hai parlato anche troppo,
vigliacco. Taci”.
Dopo soli venti minuti
fu decisa la fucilazione degli 11 giovani, mentre
Biagi, Corsetti e i due sardi furono assolti. Seppur
tenuti all’oscuro del verdetto, i “ragazzi” si
abbracciarono in preghiera, mentre Lele Matteini
scrisse sulla lavagna l’ultimo saluto alla madre:
“Mamma: Corrado e Lele, l’ultimo bacio”.
Una scena straziante
precedette il momento funesto; Dora Sandri, la madre
dei due Matteini giunta affannata dalla “Sdriscia”, si
gettò ai piedi dei carnefici implorando di esser
uccisa al posto dei figli, respinta dai fascisti:
“Se eri un uomo invece che una donna…”.
Il plotone d’esecuzione,
comandato da Inigo Pucini, era sicuramente composto da
De Anna, Del Canto, Raciti, Gori, La Monica, Giannini,
Guidoni e il carabiniere Pasqualetti di Pisa; i
“ragazzi” furono condotti fuori dell’aula alle 9,10 e
barbaramente trucidati tra le urla e i pianti di
familiari e amici, tenuti forzatamente lontani dalla
scena.
Compiuto il misfatto, i
fascisti si abbandonarono a una macabra danza e urla
di gioia. Poco dopo, l’infida colonna ripartì
abbandonandosi alle solite intemperanze e trasportando
sui carri i beni razziati dai poderi.
Il triste evento fece
piombare la cittadinanza nel dolore e nel cordoglio,
il giorno seguente si svolsero i funerali nel cimitero
d’Istia d’Ombrone, celebrati dall’energico Don
Mugnaini nonostante i tentativi d’impedimento dei
fascisti. La sera del 23, l’unico superstite “Gino”
uscì dalla macchia e fu aiutato a vivere in
clandestinità per alcune settimane dalle famiglie
della zona. In seguito fu “adottato” dai Grazi di
Cinigiano, che lo considerarono come un figlio.
“Gino”, pittore, affrescò la cappella dove riposa
Alfiero Grazi; circa cinque anni dopo tornò in Austria
e di lui non si ebbero più notizie. Una splendida
storia contrapposta agli orrori della guerra.
Il 26 marzo il
capo della Provincia Alceo Ercolani scrisse
un’orribile lettera per il Comando della GNR, il cap.
De Anna, il sottotenente Muller, il questore e i
carabinieri, ben lontana dalla verità dei fatti e
retorica nell’esaltare: “…la
tempra d’acciaio dei Comandanti e dei gregari.
Penetrando in fitto bosco il Cap. De Anna e il
Sottotenente Muller unitamente ai loro uomini, dopo
aver superato molte difficoltà, riuscivano a
sorprendere nel sonno un gruppo di bande armate.
Il fatto che
soltanto uno della banda è riuscito a fuggire
dall’annientamento, dimostra che la sorpresa è
riuscita in pieno. La fucilazione degli 11 elementi
trovati con le armi, ha fatto rifulgere la decisione,
il sangue freddo e la saldezza della fede fascista dei
Capi e dei gregari tutti.
Intanto
esprimo il mio vivo plauso e prego nel tempo stesso il
Comandante della G.N.R. ad inoltrarmi, per il Cap. De
Anna, per il Sottotenente Muller
e per chi ha meritato, la
proposta di ricompensa al valor militare e i nomi di
quei gregari che maggiormente si sono distinti, per un
premio in denaro. Prego inoltre volermi inviare la
relazione sul brillante fatto d’arme.
Il Capo della
Provincia, Alceo Ercolani. Paganico, 26/3/1944”.
Il 31 marzo lo
stesso Ercolani ordinò l’affissione in tutta la
Maremma di un macabro manifesto in cui si dichiarava
la fucilazione degli 11 ribelli “armati”: “…S’avverte
ancora una volta che chiunque sarà trovato armato o si
unisca alle bande, che tanti delitti d’innocenti
vittime stanno perpetrando nella nostra provincia,
avrà con certezza lo stesso destino”.
Dopo la liberazione
della Provincia si registrarono episodi di vendetta;
alcuni fascisti ritenuti responsabili della strage di
Maiano Lavacchio furono uccisi senza processo.
Il 18 dicembre 1946 la
Corte d’assise di Grosseto emanò la sentenza contro i
fascisti repubblicani della Provincia; per i fatti di
Monte Bottigli furono condannati a morte: la spia
Lucio Raciti; Michele De Anna, cap. della GNR;
Vittorio Ciabatti, ten. della GNR, Sebastiano Scalone,
commissario di PS, Inigo Pucini, podestà di Grosseto;
Alfredo Del Canto e Armando Gori, militi del plotone
d’esecuzione.
Nella sentenza i giudici
smontarono la tesi difensiva dei fascisti, che tendeva
a far ricadere le responsabilità del rastrellamento e
dell’uccisione degli 11 giovani sul comando tedesco.
Nessuno dei condannati fu giustiziato.
Le
vittime
MARIO BECUCCI:
nato a La Spezia nel 1906, si trasferì a Grosseto nel
1924. Decoratore, appassionato di caccia e opera, era
un convinto mazziniano. Alla caduta del fascismo
(25/7/1943) fu protagonista di una rissa memorabile
coi fascisti in un bar del centro. In seguito si fece
notare per aver strappato la “cimice” allo squadrista
Pucini, futuro podestà di Grosseto. Sfollato a
Cinigiano, dette ancora prova di antifascismo
contestando apertamente il convegno della
propagandista Grazia Licheni Sarda (27/2/1944).
Colpito da mandato di cattura, il 5 marzo una squadra
fascista al comando del federale Monti perquisì e mise
a soqquadro la sua casa di Cinigiano; Becucci nel
frattempo era sfollato a Istia dove conobbe i
“ragazzi” ai quali s’unì in clandestinità. Idealista e
sognatore, era considerato il ”babbo” del gruppo.
ANTONIO BRANCATI:
nato a Ispica (Ragusa) nel 1920, era iscritto alla
Facoltà di Medicina. Allievo ufficiale di fanteria,
nel 1943 faceva parte dei Gruppi di organizzazione del
Comando militare di Grosseto. Dopo la dissoluzione
dell’Esercito, rifiuto di servire il fascismo e fu
accolto al podere “Sdriscia” dai Matteini.
Salito alle
capanne di Monte Bottigli nel febbraio ’44, scrisse
una toccante lettera ai genitori prima della cattura:
“…Sono stato condannato a
morte per non essermi associato a coloro che vogliono
distruggere completamente l’Italia. Vi giuro di non
aver commesso nessuna colpa se non quella di aver
voluto più bene di costoro all’Italia, nostra amabile
e martoriata Patria. Voi potete dire questo sempre a
voce alta dinanzi a tutti. Se muoio, muoio
innocente…”.
RINO CIATTINI:
Nato a Grosseto nel 1924, operaio. Timido e gentile,
rifiutò di aderire alla Repubblica di Salò e si dette
alla macchia nel gennaio 1944, giungendo a Maiano
Lavacchio dove s’unì ai “ragazzi”.
ALFIERO GRAZI:
Nato a Cinigiano (Gr) nel 1925, studente. Renitente
alla chiamata alle armi della RSI, fu arrestato nel
dicembre 1943 e tradotto nelle prigioni di Siena e
Firenze, da dove riuscì a fuggire. Tornato a Cinigiano,
riparò a Istia nel podere di Palmira Guidoni per poi
nascondersi a Monte Bottigli.
SILVANO GUIDONI: Nato a
Istia (Gr) nel 1924, ragioniere e amico del Grazi.Contrario
alla RSI, non rispose alla chiamata alle armi e riparò
a Maiano Lavacchio. Dopo la cattura da parte dei
fascisti, riuscì a scappare nella macchia ma si
riconsegnò in seguito alla minaccia di fucilazione
degli altri prigionieri.
CORRADO MATTEINI:
Nato a Istia (Gr) nel 1920, commerciante di carni.
Militare per quattro anni in Sardegna, dopo
l’armistizio tornò a casa nel podere dei genitori (la
“Sdriscia") fino al febbraio ’44, quando raggiunse
Monte Bottigli.
EMANUELE MATTEINI:
Nato a Istia (Gr) nel 1923, maestro dall’ A. S.
1942-’43. Esonerato dal servizio militare, condivise
l’esperienza del fratello Corrado nella macchia di
Monte Bottigli. Nell’ aula dell’”Appalto” scrisse alla
lavagna l’ultimo toccante messaggio alla madre.
ALCIDE MIGNARRI:
Nato a Istia (Gr) nel 1924, operaio alla fornace di S.
Martino. Convinto antifascista, fu brutalmente
percosso da un certo Bonaccorsi durante le “istruzioni
premilitari”.Alla fine del 1942 fu incorporato nel 7°
battaglione d’artiglieria di stanza a Pisa. Dopo lo
sfascio dell’esercito tornò a casa e trascorse alcuni
mesi fra i poderi di Maiano Lavacchio, fino al
febbraio 1944 quando raggiunse le capanne di Monte
Bottigli.
ALVARO MINUCCI:
Nato a Istia (Gr) nel 1924, rifiuto d’arruolarsi
nell’esercito di Salò. Visse in clandestinità prima a
Poggio Cavallo e poi alla “Sdriscia” dei Matteini,
dove scavava le fosse per le vigne, dormendo sopra il
forno di pane. Nel febbraio ’44 passò alla capanne di
Monte Bottigli.
ALFONSO
PASSANNANTI: Nato a Battipaglia (Sa) nel 1922, maestro
e studente universitario, fu allievo ufficiale
nell’esercito italiano. Dopo l’armistizio rifiutò la
Repubblica di Salò e raggiunse Istia col Brancati,
dove fu ospitato dai Matteini fino al febbraio ’44.
ATTILIO SFORZI:
Nato a Grosseto nel 1925, studente di ragioneria.
Antifascista, non rispose alla chiamata alle armi
della RSI e il 27 dicembre 1943 riparò dagli Andrei,
amici di famiglia, a Maiano Lavacchio. A fine febbraio
si trasferì coi “ragazzi” nelle capanne di Monte
Bottigli. Per rendere omaggio alla sua memoria il suo
nome fu preso da un distaccamento della formazione
patriottica “Alta Maremma”.
“Umile era stata la
nascita di quei coraggiosi e modesta la loro
esistenza, ma sublime, grandiosa e fulgida la loro
fine”. Manfredo Magnani
Riferimenti
bibliografici:
M.
Magnani: “La strage di Istia d’Ombrone”,
Grosseto, Il Grifone, 1945
C.
Barontini, F. Bucci: “A Monte Bottigli contro la
guerra: dieci ragazzi, un decoratore mazziniano, un
disertore viennese. Fra oralità e storia”,
Follonica, La ginestra, 2003
“In ricordo degli 11 martiri fucilati il 22 marzo 1944
a Maiano-Lavacchio”,
Grosseto, ANPI, 1981
N.
Capitini Maccabruni: “La Maremma contro il
nazi-fascismo”, Grosseto, La commerciale, 1985
Sentenza emessa il 18 dicembre 1946 dalla Corte
d’assise di Grosseto contro i fascisti repubblichini
della provincia, Grosseto, ANPI |