N. 29 - Ottobre 2007
Mafia
e Fascismo
L’operazione incompiuta del prefetto
Mori
di
Davide Caracciolo
Se oggi col termine
Mafia definiamo una organizzazione malavitosa,
prima della creazione della Commissione antimafia,
istituita nel dicembre del 1962, con tale nome si
definiva una predisposizione del carattere
siciliano, così da dissolvere l’aspetto criminogeno
del fenomeno mafioso in atteggiamento mentale.
Si arrivava a negare
la possibilità stessa che la mafia, come
organizzazione delinquenziale, esistesse,
sottolineando piuttosto l’uso dell’aggettivo mafioso
per indicare la disposizione del siciliano alla
fierezza di spirito, la sua particolare caratura di
orgoglio, indipendenza, insofferenza per le
ingiustizie, l’aspirazione a essere uomo d’onore,
opponendosi all’intervento dei rappresentanti della
legge statale in tutte quelle faccende nelle quali
il rispetto, il cui tratto caratterizzante era
l’omertà, venisse messo in discussione. Lo stesso
Vittorio Emanuele Orlando, in occasione delle
elezioni amministrative palermitane del 1925
affermava:
“Ora io vi dico che
se per mafia si intende il senso dell’onore portato
fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni
prepotenza e sopraffazione, portata sino al
parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma
indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più
forte di tutto, anche della morte, se per mafia si
intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti,
sia pure con i loro eccessi, allora in tal segno si
tratta di contrassegni indivisibili dell’anima
siciliana e mafioso mi dichiaro e sono lieto di
esserlo!”
E’ nella prima metà
dell’Ottocento che si sviluppano le condizioni
favorevoli alla nascita del fenomeno mafioso, e
precisamente nel 1812, anno in cui il Parlamento
straordinario siciliano, approvando la Costituzione,
aboliva il sistema feudale. La grande proprietà
feudale di origine aristocratica venne travolta
dalla crisi post-feudale, e grandi contese si
aprirono riguardo ai nuovi diritti di proprietà e di
uso delle risorse della terra.
E proprio in tale
caos, in cui i diritti di proprietà non erano ben
definiti ed era assente una forte struttura statale,
nasceva una domanda di protezione che veniva
soddisfatta dai mafiosi attraverso l’uso di una
violenza extralegale non controllata dallo Stato. Il
mafioso si inserì, con un’attività tipicamente
parassitaria, nel rapporto fra contadini e
proprietari terrieri. Si sostituiva al proprietario
lontano dalla terra fino a soppiantarlo totalmente
nell’esercizio dei suoi diritti e lo ricattava,
imponendogli come prezzo dei suoi servizi e della
sua stessa presenza, un’assoluta libertà d’azione
nei confronti dei contadini.
In compenso il
mafioso, attraverso un’articolata rete gerarchica di
personaggi che andavano dall’amministratore al
gabellotto e al campiere, difendeva il proprietario
dalle rivendicazioni contadine e gli assicurava il
lavoro di braccianti male remunerati e il tranquillo
godimento delle rendite del feudo. Così la mafia
divenne uno dei mezzi più efficaci per il
mantenimento effettivo dell’ordine e dell’equilibrio
sociale sicchè le autorità istituzionali si
dimostrarono indulgenti nei suoi confronti
legittimandola agli occhi della popolazione. Dunque
andò formandosi uno stretto legame tra potere
mafioso e uomini politici che divenne una costante
del panorama politico siciliano.
Nel primo dopoguerra
la Sicilia era controllata dalla mafia che,
approfittando della confusione e del vuoto di potere
seguiti alla guerra, aveva allargato la propria
influenza, avendo beneficiato, durante il periodo
bellico, dell’affluenza di disertori nelle file dei
briganti. La mafia così rappresentò uno Stato nello
Stato.
Per Mussolini era
espressione di separatismo che urtava contro
l’unitarismo e il totalitarismo che egli voleva
imporre. Dopo una prima fase (1922-1925) in cui
mafia e fascismo convissero, e anzi in cui
quest’ultimo cercò l’appoggio dell’”onorata
società”, il fascismo si dette un volto legalitario
e di rispettabilità, e non accettava più quelle
collaborazioni che avevano evidenti connotati
illegali.
Dopo una visita
nell’isola, Mussolini, pur non ignorando che il suo
listone, uscito trionfante dalle elezioni
amministrative del 6 aprile del 1925, se al nord
aveva avuto successo grazie al manganello
squadrista, in Sicilia doveva la sua affermazione
all’influenza della mafia che aveva appoggiato il
neodeputato Alfredo Cucco, leader del fascismo
siciliano e membro del direttorio nazionale del
partito, tornò a Roma deciso a sradicare la mafia
dalla Sicilia restaurando l’autorità dello Stato.
Il fascismo oramai
aveva il pieno appoggio della classe dominante
siciliana, quella della grande proprietà terriera,
soprattutto da quando furono abolite le norme di
legge che limitavano il diritto dei proprietari
terrieri ad elevare i canoni di affitto e a
liberarsi dei mezzadri. In tale situazione la mafia
non aveva motivo di esistere, visto che le contese
tra latifondisti e contadini venivano regolate dallo
stato fascista.
L’uomo a cui venne
dato l’incarico di sradicare il fenomeno mafioso
dall’isola fu Cesare Mori. Per questi si trattò di
un ritorno nell’isola dopo due precedenti incarichi.
Nella sua opera repressiva Mori, che venne nominato
prefetto di Palermo con amplissimi poteri (23
ottobre 1925), si servì di retate militari, tra le
quali la più spettacolare fu quella di Gangi nelle
Madonie, e di metodi violenti, arrivando a tenere
volutamente un atteggiamento tale da ottenere la
collaborazione degli stessi mafiosi, collaborazione
che mirava a rompere quel muro di silenzio,
l’omertà, che stava alla base del vincolo di unione
dell’onorata società.
I successi del
prefetto vennero esaltati dalla stampa nazionale e
nell’isola la sua popolarità superava molte volte
anche quella di Mussolini. Mori liberò le campagne,
e quindi i proprietari terrieri e i contadini,
dall’oppressione mafiosa, riuscendo ad eliminare
tutte quelle attività “agricole” da cui la mafia
traeva i suoi guadagni.
Tali attività erano
l’abigeato, ovvero il traffico del bestiame rubato,
l’appalto dei feudi, la gabella sui poderi e la
cancia, ossia la tassa che i contadini dovevano
pagare per avere farina in cambio del grano appena
raccolto se non volevano affrontare il “rischioso
viaggio” dal podere al mulino. Ma ciò che Mori colpì
non fu altro che la bassa mafia, come lui stesso
raccontò nelle sue memorie, semplici esecutori di
ordini che potevano essere briganti, gabellotti e
campieri. Ciò a cui egli mirava era l’alta mafia che
allignava nelle città attorno ai centri del potere,
ove era stretto il legame tra mafia e politica.
Dunque la missione di
Mori divenne quella di colpire i veri mafiosi, i
quali appartenevano a classi sociali più alte e che
svolgevano, apparentemente, attività legali. Il
personaggio più importante su cui Mori indirizzò le
sue indagini fu il deputato fascista Alfredo Cucco,
leader del fascismo siciliano. Mori era convinto
che Cucco aveva ottenuto dalla mafia voti, appoggi e
favori di ogni genere, e persino denaro con cui
fondare il giornale Sicilia Nuova, vessillo
dell’antimafia.
A seguito di tutte le
prove raccolte da Mori, Cucco venne espulso dal PNF
e il Fascio di Palermo venne sciolto. Tali fatti
ottennero l’effetto di impaurire l’alta mafia e il
nobilitato siciliano che intrapresero una campagna
subdola, attraverso anche lettere anonime inviate al
duce, a screditare il Prefetto mettendo in cattiva
luce i suoi collaboratori e i suoi modi troppo
violenti. Cucco così diventò un simbolo, o meglio un
pretesto per condannare l’opera di Mori. I nemici,
però, non si trovavano solo in Sicilia ma anche
negli ambienti fascisti romani. Grandi, Farinacci e
Balbo non avevano mai visto di buon occhio il
personaggio Mori dopo i fatti di Bologna del 1921.
Dunque Mori cominciò a
divenire per il regime fascista un personaggio
scomodo che, dopo essere stato nominato senatore del
regno (22 dicembre 1928), venne sollevato dal suo
incarico (16 giugno 1929) attraverso un decreto
regio che prevedeva che i prefetti e i questori che
avessero raggiunto il trentacinquesimo anno di
servizio avrebbero dovuto andare a casa qualunque
fosse stata la loro età.
In tal modo venne
fatto fuori un Prefetto che era divenuto ormai
scomodo e pericoloso e la cui opera veniva
considerata conclusa, visto che aveva procurato al
regime una comoda facciata di perbenismo e di
rispettabilità di cui a Roma si era avvertito
l’urgente bisogno. Successivamente fu cura del
ministero dell’Interno provvedere a distribuire una
circolare ai giornali invitandoli a tener presente
che, nel caso pubblicassero articoli sulla Sicilia,
la mafia non rappresentava più nessun problema.
Invece la realtà era
che la mafia non era affatto morta, si era
nuovamente istituzionalizzata. Se tanti briganti e
piccoli delinquenti erano stati rinchiusi nelle
carceri o mandati al confino, gli esponenti
dell’alta mafia, se non emigrarono in America,
aderirono in blocco al fascismo, sicuri di poter
proseguire nei loro affari e nei loro traffici una
volta che la Sicilia era stata liberata dall’incubo
Mori.
Riferimenti
bibliografici:
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