Nel saggio Che cos’è il realismo socialista?
lo scrittore sovietico dissidente Andreij Sinjavskij
svelò in modo molto efficace, negli anni Sessanta,
la natura teleologica dell’arte e della letteratura
“ufficiali” (esisteva infatti l’arcipelago del
samizdat, le auto edizioni non sottoposte al
vaglio della censura e per questo clandestine) in
Unione Sovietica.
Il realismo socialista ha, secondo il noto
dissidente, natura dialettica, conosce
l’insegnamento di Marx e “nel descrivere la realtà
presente, sente il cammino della storia e lancia
un’occhiata all’avvenire; scorge i ‘tratti visibili
del comunismo’, invisibili all’osservatore comune”.
Esso ha uno scopo, chiaro e definito, il comunismo.
“Il poeta non scrive soltanto versi, ma attraverso
essi aiuta l’edificazione del comunismo”. L’arte
sovietica è teleologica, in quanto subordinata allo
scopo, al fine supremo, ma ciò risulta in
contraddizione con la tolleranza.
Al pari essa “non è compatibile con lo storicismo,
cioè con la tolleranza di fronte al passato”, perché
“si riduce al tentativo d’identificare la vita (e la
storia) col suo movimento verso il comunismo”.
Ma il rincorrere lo scopo ha avuto un suo prezzo, ha
imposto dei sacrifici: “perché le prigioni
sparissero, ne abbiamo costruite di nuove; perché il
lavoro diventasse in avvenire un riposo e un
piacere, abbiamo inventato i lavori forzati; perché
non si versasse più una goccia di sangue, abbiamo
ucciso e ucciso senza sosta”.
Come l’inquisizione medievale aveva allontanato
l’uomo da Dio, così le violenze causate dal
perseguimento del fine avevano allontanato la
società sovietica dall’ideale del comunismo.
In un clima di così netta costrizione, solo un fermo
credente nel sistema poteva svolgere la sua attività
artistica tranquillamente, poiché “per un artista
che serve fedelmente il suo popolo, non si tratta di
sapere se è libero o no nella sua creazione. La
questione non si pone nemmeno: un tale artista sa
perfettamente come affrontare i fenomeni della
realtà; […] rappresentare fedelmente la realtà
secondo le sue convinzioni comuniste è un’esigenza
della sua anima”.
Egli segue così le direttive del Comitato Centrale
del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e del
suo primo segretario, poiché sono loro a dirigere la
società verso il comunismo. Il capo, ossia Stalin,
viene definito Grande Sacerdote, perché “dubitare
delle sue parole”, per un credente comunista, “è un
peccato grave come dubitare della volontà del
Creatore”.
Dal discorso di Sinjavskij si comprende come, per
tutti gli scrittori che non avevano ben salda la
fede nel comunismo, le alternative erano ben poche:
andarsene dall’URSS (cosa tutt’altro che semplice),
smettere di scrivere, adeguarsi strumentalmente a
ciò che era imposto o continuare a seguire nella
creazione solamente la propria coscienza, in quest’ultimo
caso con la sicurezza quasi matematica che si
sarebbe incorsi nella severa repressione del regime.
Quest’ultima opzione era sicuramente quella più
audace e rischiosa, non venne percorsa da un numero
troppo elevato di persone ma coloro che lo fecero
dimostrarono, oltre ad una buona dose di coraggio,
anche una coerenza intellettuale degna di lode.