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N. 27 - Agosto 2007

LETTERA AI cAPI

Aleksandr Solzenicyn, la Russia e il "giusto" governo

di Stefano De Luca

 

Il 5 settembre del 1973, Aleksandr Solženicyn scrisse una Lettera ai Dirigenti dell’Unione Sovietica, generalmente indicata come Lettera ai Capi, nella quale lo scrittore esponeva la sua visione etico-politica a coloro che avevano l’autorità per attuarla. La Lettera avrebbe suscitato dei commenti di tono diverso all’interno del movimento dissidente, che risultano estremamente importanti per comprendere la reale portata della spaccatura politica che si era delineata.

 

Solženicyn affermava che il fine ultimo della Lettera era “la salvezza ed il bene del popolo russo” perché, “come dice il proverbio, «dove sei nato, là servi a qualcosa»”. Questo è un primo, importante elemento da analizzare. Solženicyn non si rivolge agli estoni, ai moldavi o a qualunque altra nazionalità facente parte dell’Unione Sovietica, ma ai russi: la sua posizione ‘nazionalista’ si può già intravedere.

 

La Lettera si suddivide in sette paragrafi, che analizzeremo nel dettaglio in quanto di estrema importanza, se non nel merito quanto nelle conseguenze che avrebbero suscitato all’interno del movimento dissidente. Nel primo paragrafo, intitolato ‘L’Occidente in ginocchio’, lo scrittore avanzava la tesi secondo la quale “è vicino il tempo in cui tutte le nazioni europee cesseranno di esistere come potenze […] ed i loro dirigenti saranno pronti a qualunque concessione unicamente per rendersi graditi alla Russia di domani”.

 

Questo ‘primato’ della nazione russa, era il frutto della diplomazia sovietica, che aveva saputo “esigere, ottenere, prendere come lo zarismo non ha mai saputo fare”. Solženicyn si spingeva addirittura a riconoscere i meriti di Stalin in politica estera, capace di “raggirare” Roosvelt e Churchill ottenendo tutto ciò che voleva, tanto in Europa quanto in Asia.

 

“Il catastrofico indebolimento dell’Occidente” non era dovuto solo all’abile diplomazia staliniana, ma anche e soprattutto alla “crisi storica, psicologica e morale che investe tutta la cultura occidentale”. Solženicyn riteneva che l’Unione Sovietica avesse commesso “due sbagli straordinari”, ossia l’aver “allevato” la Wehrmacht germanica prima, e la Cina maoista poi, invece del “nostro pacifico vicino Chang Kai Sek”. Questi due errori erano dovuti “all’applicazione letterale della linea marxista-leninista”, tralasciando erroneamente ogni tipo di considerazione “nazionale”.

 

Nel secondo paragrafo, ‘La guerra con la Cina’, passava in analisi quello che considerava il pericolo più diretto e minaccioso per il popolo russo. Similmente ad Amalrik, non credeva che un conflitto con la Cina si sarebbe svolto con armi atomiche, ma in maniera convenzionale e con enormi sacrifici umani. “Quanto al popolo russo”, affermava Solženicyn, “saranno distrutte le nostre radici, sarà l’ultimo degli stermini iniziati nel secolo XVII con la persecuzione dei «vecchi credenti», continuati da Pietro il Grande, poi ripetuti più e più volte”. In base a questa considerazione su Pietro il Grande, che nel dibattito tra occidentalisti e slavofili-nazionalisti ha sempre costituito l’elemento simbolico di primo riferimento, possiamo senza dubbio considerare l’autore della Lettera come un esponente della seconda tendenza.

 

Con la Cina, lo sterminio del popolo russo sarebbe stato definitivo. “E che guerra? IDEOLOGICA! E per cosa? Essenzialmente per un’ideologia morta”. Così facendo, Solženicyn si allontanava inequivocabilmente da quel filone del dissenso che considerava l’ideologia, quella ‘autenticamente’ socialista, la soluzione migliore per l’Unione Sovietica. Solženicyn era convinto di avere il “mezzo” necessario ad evitare questa catastrofica guerra con la Cina, in base a due considerazioni.

 

La prima considerazione era che la pressione cinese sulle terre siberiane ancora non sfruttate dai russi, fosse dovuta al fatto che “nella fretta delle grandi trasformazioni socialiste, non abbiamo avuto il tempo di occuparcene”. Era un modo elegante per accusare i dirigenti sovietici di non aver saputo sfruttare come necessario le immense ricchezze di quei luoghi. L’altra considerazione era esclusivamente “ideologica”: “sono ormai quindici anni”, incalzava il Premio Nobel, “che fra voi e la Cina si trascina una disputa per stabilire chi meglio interpreta i Padri della Concezione Progressista del Mondo […] perché la verità sacrosanta sta scritta a pagina 533 di un certo volume di Lenin e non a pagina 335 come afferma il nostro avversario”.

 

Stalin, secondo lui giustamente, durante la Seconda Guerra mondiale mise da parte l’ideologia, “sventolò la bandiera russa, e per un po’ persino lo stendardo della Chiesa ortodossa. E vincemmo”. La strada migliore, la strada della vittoria, risiedeva dunque nella bandiera ‘russa’, e nella religione ‘nazionale’ russa, l’Ortodossia.

 

Il “mezzo” quindi, era l’abbandono del socialismo. “Il cupo uragano dell’IDEOLOGIA PROGRESSISTA ci ha investiti da Occidente alla fine del secolo scorso […] e se adesso tende ad allontanarsi spontaneamente verso Oriente, si allontani pure”. Ecco perché rigettava il socialismo. Esso veniva da Occidente, era ‘figlio’ della cultura occidentale, quindi alieno alla Russia ed alle sue tradizioni. Per lui, il socialismo era stato un “uragano”, e quindi qualcosa di esterno al suolo, quello russo, che in quanto tale era destinato prima o poi ad allontanarsene: la sua Lettera, serviva proprio ad agevolarne la scomparsa.

 

Il terzo paragrafo, ‘Il vicolo cieco della civiltà’, alludeva alla civiltà occidentale, alla quale “la Russia da tempo ha scelto l’onore di appartenere”. Il vicolo cieco era il “progresso senza fine, illimitato, che fu inculcato nelle nostre teste dai sognatori del regno illuministico della Ragione”. Non andavano quindi derisi “quei retrogradi che esortavano a proteggere e conservare i nostri antichi modi di vivere, anche il più remoto dei villaggi a tre isbe, anche il sentiero di campagna accanto al binario ferroviario, a conservare i cavalli pur se già esistevano le automobili…”. Secondo lui, non c’era “un’unica via di sviluppo per tutta l’umanità” e la Russia, in virtù delle proprie “doti spirituali e tradizioni di vita”, era perfettamente in grado di “cercare un proprio cammino”.

 

Le teorie universalistiche sacharoviane, venivano di fatto rigettate dallo scrittore di Kirlovodsk. “Il compito che ci attende, non è la convergenza col mondo occidentale”, ma la “ricostruzione dell’Oriente come dell’Occidente, perché l’uno e l’altro sono dinanzi ad un vicolo cieco”. Il progresso, al pari della crescita economica, era un “mito” occidentale, dal quale la Russia doveva stare alla larga. Avanti di quei ritmi infatti, “l’umanità fra il 2020 e il 2070” sarebbe crollata, e questo in base alle risorse naturali relazionate alla popolazione mondiale. Sulla strada per la salvezza, la Russia aveva una sola possibilità: rinunciare alla propria ideologia.

 

Il quarto paragrafo si intitola ‘Il nord-Est russo’, che agli occhi dell’autore della Lettera costituiva una “speranza supplementare”. Il discorso di Solženicyn, per molti versi ‘utopico’, prospetta una colonizzazione delle “vastissime distese nord-orentali, non ancora deturpate dai nostri errori grazie alla nostra indolenza”. La salvezza era interna alla Russia, era rappresentata dalla “terra, lo spazio su cui risiede la nazione”, e la Siberia aveva da offrirne un’infinità. Chiedeva una chiusura quasi ‘dogmatica’ della Russia in sé stessa, lasciando “gli arabi al loro destino”, al pari del Sud America e dell’Africa. L’isolazionismo quindi, capace di valorizzare la cultura propria di ogni popolo, era a suo avviso una soluzione migliore ai problemi del mondo rispetto all’applicazione sistematica di ogni teoria che aveva la pretesa di essere universale.

 

Nel quinto paragrafo, ‘Sviluppo interno e non esterno’,  definiva i ragionamenti precedentemente espressi, focalizzando l’attenzione sulla distruzione perpetrata dall’ideologia socialista tanto sulle città, quanto sulla campagna russe. Le città tradizionali erano cresciute a dismisura, perdendo le caratteristiche che le erano proprie, e con esse anche il loro splendore. A livello urbanistico, lo scrittore era disgustato dai palazzi sempre più imponenti che venivano costruiti, proponendo di edificarne dei nuovi al massimo di “due piani, l’altezza più gradevole per un’abitazione umana”.

 

Anche la campagna russa era stata deturpata dal socialismo, ed il bersaglio principale delle sue accuse era costituito dai kolchozy. L’«agricoltura ideologica» era stata catastrofica per la Russia, che “per secoli ha esportato cereali”, ed ora era costretta ad “importarne venti milioni di tonnellate” per poter sopravvivere. La Russia, per tornare un Paese felice, doveva tenere conto le proprie esigenze interne, e quindi il proprio retaggio culturale, abbandonando ogni pretesa imperiale ed emulazione dell’Occidente.

 

Il sesto paragrafo, ‘L’ideologia’, era una critica totale del socialismo, “primitiva e superficiale teoria economica” che “non è una scienza” in quanto si è rivelata incapace di “predire un solo evento”. Inoltre il perseguimento dell’ateismo era risultato “folle e dannoso”, tagliando fuori dalla loro Patria milioni di credenti, che costituivano i sudditi “migliori”. Solženicyn rivolgeva quindi una domanda ai ‘Capi’ in merito all’ideologia socialista: “voi stessi credete minimamente alla sincerità di quei discorsi? Non più, da molto tempo. Ne sono certo”. Il socialismo quindi, era visto come una “menzogna generale, forzata, d’uso obbligatorio”, “un’epidemia” della quale la Russia doveva al più presto liberarsi.   

 

Nel settimo ed ultimo paragrafo, intitolato ‘Che cosa fare?’, Solženicyn esponeva la sua idea di governo ai dirigenti sovietici: “non ho dimenticato per un attimo che voi siete in primo luogo dei realisti […] dei realisti all’estremo”, tali che “non ammettereste mai di lasciarvi sfuggire il potere dalle mani”. Qui lo scrittore entrava però in contraddizione: se erano realisti “all’estremo”, perché allora li aveva accusati, durante tutto il testo della Lettera, di seguire ciecamente l’ideologia senza tener conto della realtà?

 

Per quanto riguarda la miglior forma di governo per la Russia, avversava la “democrazia senza freni”, affermando che “la libertà è morale, ma fino ad un certo punto oltre il quale degenera in presunzione ed in licenza”. “L’ordine”, invece, non era di per sé immorale, “se significa una assetto stabile e pacifico”, ma anch’esso “fino ad un certo punto, al di là del quale diventa arbitrio e tirannide”.

 

La sua preferenza, era per l’ordine “morale”, in quanto “in Russia, per mancanza d’abitudine, la democrazia è durata otto mesi soltanto, da febbraio ad ottobre 1917”. Questi otto mesi democratici furono a suo giudizio “una vergogna”, un modello ‘importato’ dall’Occidente al quale la sua patria non era avvezza. La Russia “è vissuta mille anni sotto un sistema autoritario”, e tale regime aveva alla sua origine “una forte base morale: non l’ideologia di una violenza generalizzata, ma l’Ortodossia”, quella “antica, fiorita per sette secoli […] non ancora straziata da Nikon e da Pietro il Grande”.

 

Quindi Solženicyn poneva una domanda, con annessa la risposta: “la Russia, nel futuro prevedibile, è destinata a subire un regime autoritario? Forse è matura solo per questo, oggi”. Diceva ai ‘Capi’ di sapere benissimo che loro non avrebbero mai rinunciato al proprio potere, e che la sua proposta non presupponeva affatto una tale abdicazione. La nuova Russia avrebbero potuto continuare a governarla loro, ai quali l’autoritarismo di certo non difettava, purché avessero abbandonato l’ideologia, e con essa ogni obiettivo “di dominazione mondiale […]” per dedicarsi ai “compiti nazionali”.

 

Quindi, “che resti pure autoritario il regime”, purché non fondato “sull’odio di classe”, ma “sull’amore sinceramente premuroso per tutto il vostro popolo”. Andavano eliminati gli aspetti più crudeli della lotta di classe: il Gulag, la “violenza psichiatrica”, i processi segreti, l’odio verso le religioni, ed il controllo ferreo sulla letteratura e sull’arte. “Con questa lettera”, concludeva Solženicyn, “assumo anch’io una pesante responsabilità di fronte alla storia della Russia. Non prendere nessuna iniziativa, sarebbe una responsabilità ancora maggiore”.

 

Il discorso di Solženicyn, seppur rivolto esclusivamente alla Russia aveva, a ben guardare, una valenza più generale. La risposta migliore ai problemi del mondo non consisteva a suo avviso nell’importazione di un modello politico-economico-sociale esterno, unificante, ma piuttosto nella riscoperta delle radici culturali proprie di ogni singola nazione.

 

Questo non significa che non pensasse all’umanità ed ai problemi globali, ma che ne cercasse la soluzione non nell’omologazione, ma nel rispetto e la valorizzazione delle particolarità. Solženicyn non parla mai di politica di potenza, di espansione territoriale, tanto che il suo nazionalismo può senza dubbio essere considerato genuino e volto alla pacifica coesistenza. Di certo, la sua scelta per un governo sostanzialmente autoritario provocò non poche polemiche nell’ambito del dissenso.

 

Solženicyn, che non ottenne nessun tipo di risposta dai ‘Capi’, decise, sei mesi più tardi, di rendere pubblico il testo della Lettera.

 



 

 

 

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