Una definizione di movimento sociale può essere
data attraverso quattro aspetti che, secondo
studiosi di diversa provenienza teorica e
territoriale, li caratterizzano. I movimenti
sociali sono definiti come ‘reti di relazioni
prevalentemente informali, basate su credenze
condivise e nuove identità, che si mobilitano su
tematiche conflittuali, attraverso un uso frequente
di varie forme di protesta’.
In primo luogo, i movimenti sociali possono essere
considerati come sistemi di relazioni informali tra
una pluralità di individui, gruppi e/o
organizzazioni. A differenze dei partiti o dei
gruppi di pressione, dove l’appartenenza è
generalmente sancita da una tessera d’iscrizione, i
movimenti sociali sono composti da reticoli dispersi
e debolmente connessi di individui che si sentono
parte di uno sforzo collettivo.
Non sono organizzazioni, ma reti di relazioni tra diversi
attori, che possono includere, a seconda delle
condizioni, anche organizzazioni dotate di una
struttura formale. Una delle caratteristiche dei
movimenti è il poterne far parte, sentendosi
coinvolti in uno sforzo collettivo, senza dover
aderire ad una specifica organizzazione. In secondo
luogo tali reticoli, per essere considerati un
movimento sociale, e quindi differenziarsi da
semplici fenomeni collettivi di aggregato, come le
mode o il panico, devono elaborare un sistema di
credenze condivise e una nuova identità.
Caratteristica dei movimenti sociali è infatti
l’elaborazione di visioni del mondo e sistemi di
valori alternativi rispetto a quelli dominanti. Per
questo motivo i movimenti sono considerati come
protagonisti del mutamento sociale, “profeti del
presente”, poiché “come i profeti, parlano avanti,
annunciano il mutamento possibile”.
Diversamente dai gruppi di pressione, i
movimenti sociali non mirano prevalentemente a
rappresentare gli interessi dei loro iscritti o
simpatizzanti, ma si propongono come portatori di
modelli alternativi per la società e il sistema
politico in generale. Terza caratteristica, che li
contraddistingue dalle altre forme di azione
collettiva come il volontariato, l’associazionismo,
il gruppo d’interesse o il partito, è che l’azione
dei movimenti sociali è di tipo conflittuale. I
movimenti avanzano rivendicazioni mediante un’azione
di sfida diretta, rivolta contro autorità politiche,
determinati codici culturali o altri gruppi. Tali
sfide comportano l’esistenza di una relazione di
opposizione, o antagonista, tra due attori per il
controllo o l’appropriazione di risorse che entrambi
valorizzano, e hanno come esito di promuovere od
ostacolare il mutamento sociale. Infine, i movimenti
sociali si distinguono da altri attori politici,
come i partiti e i gruppi di pressione, per il fatto
di adottare forme particolari di comportamento
politico, in primis l’utilizzo della protesta
come modo di fare pressione politica. Per protesta
s’intende una forma non-convenzionale di azione che
interrompe la routine quotidiana. Le forme di
protesta utilizzate dai movimenti sociali, possono
essere distinte in non-violente, perturbative e
violente.
Per forme di protesta non-violente s’intendono
gli scioperi, le azioni dimostrative come i cortei o
i raduni pubblici, le petizioni e il volantinaggio.
Le azioni perturbative sono di vario tipo: le
occupazioni (la forma più diffusa negli anni
Sessanta), i sit-in, le irruzione in scuole o
edifici pubblici cui è vietato l’accesso, il blocco
di pubbliche funzioni (come ad esempio il blocco del
traffico), bruciare delle effigi o delle immagini,
lo sciopero della fame, incatenarsi ad un cancello.
Le forme di violenza utilizzate negli episodi di
protesta sono gli scontri con la polizia, quelli di
piazza, i danni ai beni materiali, gli attacchi
violenti, la violenza contro obiettivi causali. I
movimenti utilizzano in genere queste forme di
violenza quando le azioni collettive non-violente
perdono la loro capacità di colpire le èlite.
Chi protesta si rivolge in genere all’opinione
pubblica, prima ancora che ai rappresentanti
elettorali o alle burocrazie pubbliche. Mancando di
canali d’accesso alle istituzioni, i movimenti
sociali tendono ad utilizzare i mass media
come cassa di risonanza: da ciò ne consegue il
bisogno di forme d’azione inusuali che attraggono
l’attenzione dei media stessi. I movimenti
sociali hanno origine nei momenti di crisi, o di
diffusa insoddisfazione e critica nei confronti
dell’ordine sociale esistente. Sono i sentimenti
d’insoddisfazione e d’ingiustizia, che causano
frustrazione e risentimento nei confronti delle
norme e dei valori di un dato sistema sociale.
Questi stessi fattori che facilitano la
mobilitazione, sono in realtà anche potenziali
fattori di disgregazione del movimento stesso. Come
è stato riscontrato dagli studiosi di scienze
sociali, un movimento si forma quando individui, che
hanno in comune un’identità collettiva (e le risorse
necessarie per mobilitarsi), condividono questo
sentimento di insoddisfazione e si aggregano per
protestare contro lo stato di cose.
Un movimento sociale si forma attraverso la
convergenza e la fusione di appartenenze precedenti.
E’ stato infatti riscontrato che gli individui che
prendono parte alla mobilitazione, hanno già
un’esperienza di partecipazione in altre reti
organizzative. Questa fusione di appartenenze
precedenti rende i movimenti instabili al loro
interno, in quanto emergono continui problemi
d’integrazione e di mantenimento dell’unità.
Mancando procedure istituzionalizzate per la
formazione di decisioni e un sistema riconosciuto di
norme, ogni sottogruppo tenderà a partecipare in
funzione dei propri interessi particolari. Questo
insieme di spinte devono essere controllate perché
il movimento possa sopravvivere. Il rischio di
disgregazione viene infatti equilibrato attraverso
la produzione di un’ideologia, la costituzione di
un’organizzazione e la creazione di una
leadership unitaria.
Il sentimento che accomuna gli individui che
fanno parte del movimento sociale è
l’insoddisfazione nei confronti delle realtà
esistente, e la convinzione che non viene fatto
nulla da parte del sistema per migliorare la
situazione presente; questi soggetti ipotizzano una
visione ideale di come dovrebbero andare le cose,
creano un’ideologia. Le funzioni dell’ideologia sono
molteplici: la definizione dei problemi,
l’individuazione delle possibili soluzioni, la
motivazione dell’azione, l’identificazione di un
avversario, la definizione di un oggetto o di una
posta in gioco. L’ideologia è l’elemento che
fornisce unità al movimento e rafforza i legami tra
i membri, che crea in poche parole tutte le
condizioni che permettono la mobilitazione
dell’attore sociale. Le ideologie dei movimenti
sociali sono state considerate come utopiche,
astratte, basate sulla netta distinzione tra amici e
nemici. La loro forza risiederebbe nella capacità di
convincere la popolazione dell’importanza degli
obbietti perseguiti dal movimento. Mutano nel tempo:
se i movimenti sociali degli anni Sessanta sono
stati definiti come emancipatori e progressisti,
quelli del decennio successivo invece come
anti-modernisti e regressivi. Studi recenti hanno
messo in evidenza come i movimenti degli anni
Ottanta erano più pragmatici, pioché si
allontanavano dalle grandi utopie per concentrarsi
su tematiche più specifiche. Essi rinunciavano alla
contrapposizione frontale a favore del negoziato.
Infine i movimenti degli anni Novanta, denunciano la
globalizzazione dall’alto, ovvero quella
neo-liberista.
L’ideologia, grazie alla definizione degli
obbiettivi collettivi delle lotta e
dell’identificazione dell’avversario contro cui il
movimento si batte, permette di passare
dall’insoddisfazione all’azione per cambiare le
condizioni che generano il malcontento. Ma per poter
trasformare in realtà la visione ideale, si deve
dare vita ad un sistema organizzativo che sia in
grado di “mantenere in vita” il movimento, e di
coordinare le azioni del movimento verso la
realizzazione del proprio fine. Questo processo è
gestito da un gruppo di persone, che costituiscono
il nucleo attorno al quale verrà formandosi il nuovo
movimento, e che diverranno i leaders dello
stesso. I leaders (anche se spesso viene
identificato in un movimento sociale un unico
leader, è più appropriato esprimersi nei termini
di un gruppo di leaders) hanno il compito di
definire gli obbiettivi del movimento, di provvedere
ai mezzi per l’azione, di proporre l’ideologia ai
seguaci per mezzo di discorsi e pubblicazioni, di
pianificare la strategia.
Le diverse fasi di sviluppo di un movimento
collettivo richiedono una leadership diversa
con caratteristiche specifiche. Se distinguiamo nel
ciclo vitale di un movimento quattro fasi, come ha
fatto Blumer, possiamo descrivere il tipo di
leadership presente in ciascuna fase. Infatti
ad ognuna delle quattro fasi corrisponde un tipo
diverso di leadership.
Blumer sostiene che durante la prima fase di
fermento sociale, il leader tipico è un ‘agitatore’,
una persona che ‘smuove le acque’. Durante la
seconda fase di eccitazione popolare, è necessario
un ‘profeta’, per diffondere il messaggio e
suscitare entusiasmo tra i seguaci. Nella terza fase
di organizzazione formale c’è bisogno di un ‘amministratore’,
che organizzi e coordini il movimento e ne definisca
i requisiti di appartenenza.
Durante la fase finale di
istituzionalizzazione, il movimento diventa più
burocratico e il leader tipico è un ‘un uomo
di stato’, che capisce la realtà politica, e aiuterà
il movimento a raggiungere i suoi obbiettivi. A
volte, un solo leader può riassumere in sé
tutte le caratteristiche sopra menzionate ma, di
solito, un movimento ha bisogno di leader
diversi per le varie fasi del suo sviluppo. Ciò
comporta la possibilità che, all’interno del
movimento, si verifichino conflitti tra soggetti che
rivestono posizioni di vertice. I fondatori del
movimento, per esempio, possono essere in disaccordo
con coloro che attualmente lo gestiscono, con una
conseguente formazione di fratture o correnti
all’interno del movimento stesso. Da quanto emerge
sopra, anche per i movimenti sociali sembrerebbe
valida la ‘legge ferrea dell’oligarchia’, enunciata
da Robert Michels, secondo la quale per
sopravvivere come organizzazione un “partito
politico” deve dare sempre meno importanza
all’ideologia, e concentrarsi sulla propria
sopravvivenza all’interno del sistema. Secondo
questa teoria i movimenti sociali, come i partiti
politici, si burocratizzano. Ma nella realtà è stato
riscontrato dagli studiosi che l’evoluzione dei
movimenti sociali non segue un modello costante.
Prima di tutto è emerso che solo pochi
movimenti sopravvivono nel tempo, molti di loro si
sciolgono perché hanno raggiunto i propri fini,
alcuni invece scompaiono a seguito di frequenti
processi di scissione e fusione all’interno del
movimento stesso. Altri si burocratizzano
(assomigliando sempre più a partiti o gruppi di
pressione), cioè sviluppano delle strutture interne,
moderano i fini e si integrano nel sistema di
rappresentanza degli interessi: ad esempio dal
movimento studentesco italiano degli anni Sessanta
sono nati i partiti della Nuova sinistra. Altri
ancora si radicalizzano: i fini divengono più
ambiziosi, le forme d’azione meno convenzionali e si
isolano dal mondo esterno. Come si può ben intuire i
movimenti sociali si evolvono in modi diversi, e
l’analisi di Blumer sui cicli di vita dei movimenti
sociali e sui relativi tipi di leadership
presenti nel movimento, non può essere considerata
valida per tutti i movimenti sociali. Sembrerebbe
più giusto affermare che ci sono movimenti che
completano il ciclo (s’istituzionalizzano), altri
invece che si fermano ad una delle fasi del ciclo e
altri ancora che scompaiono del tutto.
I movimenti per mantenersi nel tempo, e cercare
di raggiungere i propri obbiettivi e non esaurirsi
al termine di una protesta, devono sviluppare una
struttura organizzativa al proprio interno. Non è
che i movimenti diventano un’organizzazione nel
senso proprio del termine, ma restano sempre delle
reti di relazioni. Diviene necessaria una
coordinazione interna per poter svolgere tutte
quelle attività necessarie sia al mantenimento in
vita del movimento, che al raggiungimento dei propri
fini. I compiti dell’organizzazione di un movimento
sono diversi: come l’elaborazione delle strategie
per raggiungere l’obiettivo, il coordinamento delle
campagne di protesta e la rappresentazione del
movimento all’interno delle istituzioni.
Caratteristica dell’organizzazione è di essere
segmentata con differenti cellule che crescono e
muoiono in breve tempo, policefala, con numerosi
leaders che controllano piccole frazioni del
movimento, reticolare, cioè basata su legami
multipli tra cellule autonome che costruiscono delle
reti dai confini indefiniti.
Altra caratteristica dell’organizzazione è la
struttura partecipativa. Soprattutto i movimenti che
sono definiti della ‘sinistra libertaria’, affermano
come valore principale la democrazia diretta,
tendono a distribuire il potere fra molti individui,
riconoscendo in maniera solo limitata la delega e
privilegiando le elaborazioni di decisioni
consensuali.
Anche per quanto riguarda l’organizzazione dei
movimenti, non è possibile tracciare un unico
modello in grado di spiegare il tipo di
organizzazione che esso assume. Questo dovuto al
fatto che il passaggio dalla protesta,
all’organizzazione interna di un movimento avviene
secondo modalità diverse.
Il tipo di organizzazione che emerge dipende da
come il movimento risponde agli stimoli e ai vincoli
che gli provengono dalla sua struttura interna e
dall’ambiente in cui opera, e anche dal fatto che il
tipo di organizzazione muta anche a seconda di come
si evolve il movimento.
Più che una classificazione delle formule organizzative, è
preferibile elencare alcune caratteristiche dei
movimenti sociali che influenzano il tipo di
organizzazione che questo assume. Queste
caratteristiche sono: il tipo di obbiettivo
perseguito, i requisiti di appartenenza richiesti, i
rapporti che si instaurano con l’ambiente esterno e
gli incentivi che forniscono ai membri.
A seconda del tipo di obbiettivo perseguito dal movimento
si avrà una particolare forma di organizzazione. Si
può distinguere tra movimenti espressivi e movimenti
strumentali. I primi hanno obbiettivi orientati alla
soddisfazione di bisogni sociali e psicologici dei
membri, adattano un tipo di organizzazione
decentrata. I secondi sono invece orientate al
perseguimento di specifici obbiettivi, esterni
all’organizzazione, sviluppano una struttura
organizzativa di tipo centralizzata. Altra
caratteristica cui fanno riferimento gli studiosi
delle scienze sociali per individuare le
caratteristiche che assume l’organizzazione del
movimento, sono i requisiti di appartenenza
richiesti agli individui. Si può distinguere in
organizzazioni inclusive ed esclusive.
Le prime non hanno meccanismi rigidi di selezione dei
membri e richiedono un livello d’impegno
relativamente scarso, non prevedono specifici
doveri, e il ruolo dell’ideologia è molto debole. Le
organizzazioni esclusive invece, controllano
rigidamente i processi di aggregazione all’interno
dei movimenti, richiedono un’intensa identificazione
ideologica e un elevato impegno all’interno
dell’organizzazione, qui invece ci sarà
un’organizzazione di tipo più centralizzata.
Ancora possiamo distinguere l’organizzazione
dei movimenti sociali a seconda dei rapporti che
instaurano con l’ambiente e, in particolare con le
altre organizzazioni. Ci sono movimenti che non
hanno rapporti con altre reti associate, oppure
quelli che hanno appartenenze multiple e
leadership comunicanti con altre organizzazioni.
Le organizzazioni possono essere classificate anche
secondo il tipo di incentivi che forniscono ai
membri: come incentivi materiali, di solidarietà, di
valore. I primi sono beni o risorse economiche; i
secondi sono indipendenti dai fini specifici
dell’organizzazione e derivano da un senso di
soddisfazione che raggiungono i membri nel
partecipare al movimento stesso, oppure nel
stabilire delle relazioni tra i membri; gli ultimi
sono legati a fini dell’organizzazione e alla loro
realizzazione.
Il modello organizzativo prescelto e la sua evoluzione nel
tempo sono il prodotto di processi complessi di
adattamento all’ambiente, di tentativi di
trasformare il movimento , di scelte strategiche e
accettazione delle tradizioni (come per le forme di
protesta anche per l’organizzazione di un movimento
sono importanti i repertori delle formule
organizzative). In primo luogo bisogna osservare che
c’è una certa tendenza delle organizzazioni di
movimento ad adeguare le loro strutture
organizzative agli obbiettivi che si cercano di
realizzare, e alle caratteristiche dei gruppi
sociali che si propongono di mobilitare. Queste
scelte vengono comunque influenzate dalle risorse e
dai vincoli presenti sia nei movimenti stessi (dalle
risorse culturali, dal loro stesso modello
organizzativo iniziale), sia nel loro ambiente.
Trasformazioni tecnologiche, sviluppo economico,
hanno influenzato non solo le tattiche dei
movimenti, ma anche la loro struttura organizzativa.
L’espansione dei mezzi di comunicazione, dalla carta
stampata ai media elettronici, ha permesso di
esternare alcuni costi: se prima erano necessarie
organizzazioni ben strutturate per far circolare i
messaggi, oggi sono sufficienti organizzazione
“leggere” che riescono a catturare l’attenzione dei
media. La diffusione dei mezzi di comunicazione
globali (fax o posta elettronica) ha anche ridotto i
costi del coordinamento.
Un ulteriore e più approfondito cenno deve essere fatto ai
comportamenti che adottano i movimenti nel svolgere
la propria azione, che comprendono sia le azioni
strategiche che quelle più spontanee e meno
coordinate. Un indicatore dei comportamenti dei
movimenti sono le forme di protesta, considerate
come forme tipiche di azione collettiva dei
movimenti sociali (anche se altri attori la
utilizzano), cioè propria di quegli attori che, a
differenza dei partiti o dei gruppi di pressione,
sono meno dotati di canali di accesso ai decisori
pubblici. E’ stato osservato dagli studiosi delle
scienze sociali che i movimenti utilizzano forme di
protesta definite come ‘perturbative’, perché mirano
ad intimorire le èlite attraverso una
dimostrazione della forza numerica ma anche della
determinazione degli attivisti. La protesta serve
anche a raccogliere consensi: deve essere abbastanza
innovativa da raggiungere i mezzi di comunicazione
di massa e, attraverso essi, un pubblico ampio che i
movimenti collettivi come ‘minoranze attive’ cercano
di convincere della giustezza dei loro obiettivi.
Oltre alla distinzione già accennata sopra fra forme
di protesta pacifiche, perturbative e violente, le
forme d’azione dei movimenti possono essere distinte
anche a seconda che abbiano strategie culturali,
cioè mirano ad una trasformazione interiore, o
strategie politiche, cioè che cerchino soprattutto
un cambiamento della realtà esterna. Ma a loro volta
queste strategie si caratterizzano per i diversi
gradi di radicalismo: dalla moderata evoluzione
subculturale alla radicale sfida controculturale,
nel primo caso, dal negoziato allo scontro, nel
secondo.
Le tattiche di protesta messe in atto dai movimenti sono
influenzate dagli scopi che si vuole raggiungere
con la protesta. Le varie forme di protesta sono
essenzialmente riconducibili a tre logiche: quella
dei numeri, quella del “danno materiale” e quella
della testimonianza. La prima fa leva sul numero dei
sostenitori del movimento ed è alla base di forme di
protesta come i cortei, i referendum e le petizioni,
che ad esempio negli anni Ottanta venivano
utilizzate dai movimenti pacifisti per bloccare
l’installazione dei missili a testata nucleare
Cruise e Pershing II. I movimenti sociali
cercherebbero di mobilitare il maggior numero
possibile di dimostranti, con lo scopo di richiamare
i rappresentanti eletti mostrando che, almeno su
alcuni temi, esiste nel paese una maggioranza
diversa rispetto a quella parlamentare. La paura di
perdere elettori dovrebbe quindi spingere i
rappresentanti del popolo a rivedere la propria
posizione, riallineandola con quella del paese
reale. La seconda si basa sulla capacità di produrre
danni a cose o persone, il che può derivare da
scioperi, da azioni di boicottaggio o, addirittura
quella prospettiva violenta che è alla base degli
atti terroristici.
Questa è la logica che troviamo alla base ad esempio dello
sciopero nell’industria. Scopo di questo tipo di
protesta è arrecare un danno materiale al datore di
lavoro; il danno economico dovrebbe spingere
l’imprenditore razionale a scendere a patti con i
lavoratori onde evitare altre perdite. A parte il
caso specifico degli scioperi nelle fabbriche, nella
maggior parte delle forme di protesta utilizzate dai
movimenti possiamo riscontrare un tipo di azione che
cerca di interrompere la ruotine quotidiana,
che minaccia disordine.
Accanto ad azioni che seguono la logica dei numeri o quella
del ‘danno’, si sono sviluppate, soprattutto a
partire dagli anni Settanta, forme di protesta
basate su una logica delle testimonianza. Queste
azioni non mirano a convincere il pubblico o gli
eletti che coloro che protestano rappresentano la
maggioranza, né che essi costituiscono un potenziale
di minaccia per l’equilibrio del sistema, ma
vogliono dimostrare un forte impegno per un
obbiettivo considerato di vitale importanza per le
sorti dell’umanità.
Attraverso azioni come la disobbedienza civile (infrazione
consapevole di una serie di leggi considerate
ingiuste), sciopero della fame e tante altre, i
dimostranti cercano di testimoniare la convinzione
che sia indispensabile, anche correndo alti rischi
(come l’arresto), fare qualcosa contro una decisione
o una situazione ritenuta profondamente ingiusta.
Anche le forme di protesta, come anche
l’ideologia, l’organizzazione e la leadership
possono variare nel tempo: negli anni Sessanta si
era osservata una tendenza a mantenere l’attenzione
dei media e il potenziale di minaccia accentuando
soprattutto la radicalità delle azioni, più
recentemente sono state individuate dagli studiosi
due nuove tendenze: la diffusione della protesta
anche ad attori istituzionali, e la crescente
moderazione dei repertori d’azione utilizzati dai
movimenti stessi.