N. 16 - Settembre 2006
HELSINKI 1975
La Conferenza sulla Sicurezza e la
Cooperazione in Europa
di
Stefano De Luca
La
Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in
Europa, aperta ufficialmente il 3 luglio 1973 a
Helsinki e proseguita a Ginevra dal 18 settembre 1973
al 21 luglio 1975, si concluse il 1 agosto 1975 nella
capitale finlandese alla presenza degli Alti
Rappresentanti di 36 Stati: tutti quelli europei,
compresa l’Unione Sovietica, più gli Stati Uniti ed il
Canada. Obiettivo della CSCE, era il “miglioramento
delle relazioni reciproche tra gli Stati”, tale da
“assicurare condizioni nelle quali i loro popoli
possano godere di una pace vera e duratura, liberi da
ogni minaccia o attentato alla loro sicurezza”.
La
distensione Est–Ovest, la volontà di stabilizzazione
in Europa e gli interessi economico-commerciali,
furono gli elementi sui quali fu possibile costruire
un’intesa, sintetizzata nell’Atto finale.
L’Atto finale della CSCE enunciava una «Dichiarazione
sui Principi che reggono le relazioni tra gli Stati
partecipanti». In essa, era riconosciuto il “diritto
di ciascuno Stato all’eguaglianza giuridica,
all’integrità territoriale, alla libertà ed
indipendenza politica”, nonché il diritto di
“scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema
politico, sociale, economico e culturale, nonché
quello di determinare le proprie leggi e regolamenti”.
Era
l’accettazione dell’esistenza di un mondo diviso,
l’astensione degli Stati partecipanti “da ogni
intervento, diretto o indiretto, individuale o
collettivo, negli affari interni o esterni che
rientrino nella competenza interna di un altro Stato
partecipante”. Molti dissidenti sovietici, vi lessero
l’abbandono occidentale alla difesa delle loro
istanze.
L’Atto finale ribadiva il rifiuto dell’uso della forza
nella risoluzione delle controversie internazionali,
ed il reciproco riconoscimento, da parte dei Paesi
firmatari, dell’inviolabilità di “tutte le loro
frontiere, nonché quelle di tutti gli Stati in
Europa”. Questo era il punto che più interessava ai
sovietici: la sicurezza che l’«impero» conquistato con
la Seconda guerra mondiale non sarebbe stato più messo
in discussione dagli occidentali.
A leggere bene,
Helsinki sancì la cristallizzazione di un mondo
bipolare: più che di una ‘convergenza’, si trattava
del riconoscimento delle profonde diversità esistenti
tra Est ed Ovest. Cooperazione quindi, dal campo
culturale all’educazione, dall’ambiente ai commerci,
ma non integrazione.
Di particolare rilievo il paragrafo VII della «Dichiarazione
sui principi», Rispetto dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di
pensiero, coscienza e religione.
Testualmente, il paragrafo VII sanciva
che “gli Stati partecipanti rispettano i diritti
dell'uomo e le libertà fondamentali inclusa la libertà
di pensiero, coscienza, religione o credo, per tutti
senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione. Essi promuovono e incoraggiano l'esercizio effettivo
delle libertà e dei diritti civili, politici,
economici, sociali, culturali ed altri che derivano
tutti dalla dignità inerente alla persona umana e sono
essenziali al suo libero e pieno sviluppo”. Si
trattava di principi che solo da pochi anni gli USA
applicavano integralmente e che in URSS non erano
rispettati.
La
libertà di coscienza veniva quindi riconosciuta come
un valore essenziale per le nuove forme della
cooperazione tra i due ‘blocchi’: la sua tutela,
sarebbe stata «promossa» ed «incoraggiata», ma non era
previsto alcun organo che ne verificasse la reale
applicazione. Questo fu il limite maggiore dell’Atto
finale.
La garanzia che tali principi sarebbero stati
tutelati era, nell’Atto finale, fortemente limitata
dall’impegno alla non-ingerenza negli affari interni
degli altri Stati. L’affermazione che “gli Stati
partecipanti rispettano i diritti dell'uomo e le
libertà fondamentali”, quando era evidente la costante
violazione degli stessi in URSS, era anche una
dimostrazione dell’impotenza occidentale di agire con
incisività in questo settore.
L’Occidente riuscì a far accettare ai sovietici il
principio del rispetto dei diritti umani, anche se non
riuscì a tutelarne la concreta attuazione. Gli Stati
Uniti erano senza dubbio consapevoli che il ‘rispetto’
dei diritti umani in URSS non sarebbe stato, dopo
Helsinki, diverso che in passato, ma su un piano
negoziale è difficile immaginare che avrebbero potuto
ottenere qualcosa in più di quanto pattuito.
L’Unione
Sovietica rimase un Paese chiuso, che mal vedeva ogni
ingerenza straniera: così come non aveva mai accettato
le ispezioni dell’ONU sull’arsenale nucleare in suo
possesso, altrettanto non accettò l’attività di
organismi stranieri nel controllo del rispetto dei
diritti umani.
L’utilità dei principi sanciti ad Helsinki, era
essenzialmente quella di mettere in maggiore risalto e
contraddizione ogni futura violazione degli stessi
compiuta dalle autorità sovietiche: ipotizzare che gli
occidentali avrebbero potuto ottenere, facendo
maggiori pressioni in tal senso, un’azione diretta che
ne verificasse la concreta applicazione, è pura
fantasia.
La strategia occidentale, nata dalla
consapevolezza di non poter ottenere tutto e subito, e
dalla necessità di non compromettere i rapporti con
l’URSS, avrebbe dato i suoi frutti non nell’immediato,
ma nel corso del tempo.
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