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N. 19 - Dicembre 2006

GORKIJ E MAJAKOVSKIJ

Lo scrittore che tornò sui suoi passi ed il poeta deluso

di Stefano De Luca

 

Interessante, per capire i problemi sorti per l’intelligencija russa lungo la via dell’edificazione del socialismo, è l’analisi di due dei suoi principali esponenti: lo scrittore Maksim Gorkij, il protagonista della vita letteraria sovietica nella prima fase della parabola staliniana, ed il poeta Vladimir Majakovskij.

 

Gor’kij non era nel 1917 tra gli entusiasti della Rivoluzione in quanto, come Plechanov, non riteneva fosse possibile sviluppare il socialismo in Russia, Paese prettamente agricolo dove la classe operaia (il soggetto rivoluzionario) era numericamente scarsa rispetto la totalità degli abitanti.

 

All’opposto la pensava Majakovskij, il poeta che nella rivoluzione trovava la soddisfazione del suo slancio creativo futurista, che affermava  “accettarla o non accettarla? Non è mio problema, essa è mia”. Col tempo le posizioni dei due si invertirono.

 

Gor’kij, dopo aver trascorso i primi anni del secolo a Capri, visse a Sorrento tra il 1921 e 1931, e tornò in viaggio in Russia nel 1928, durante il quale si convinse dei meriti della rivoluzione, finendo per affermare “noi abbiamo conquiste immense da difendere”, conquiste superiori rispetto ad ogni difetto del sistema (non a caso la rivista che allora fondò si chiamava I nostri successi). Conquiste che i letterati stessi erano chiamati a difendere “guardando il passato e il presente dall’altezza dei fini del futuro”.

 

Il senso di tale posizione è che le conquiste strutturali (ossia il nuovo sistema economico socialista) andavano tutelate adeguando ad esse anche la letteratura, che nell’ottica marxista era, assieme all’arte, relegata al livello di ‘sovrastruttura’.

 

Majakovskij si rendeva allora conto dei rischi di tale impostazione, credeva nelle masse e riteneva che la loro educazione potesse essere ottenuta solo discutendo apertamente. Per Majakovskij ciò che diceva Gor’kij era l’equivalente del conformismo, dell’asservimento degli artisti ai fini politici perseguiti dal Partito.

 

La conferma delle paure del poeta la si evince dal contenuto di una lettera scritta da Gor’kij ad Ekaterina Kuskova nella quale diceva che “la verità è nociva per i centocinquanta milioni di russi, perché gli uomini hanno bisogno di un’altra verità che non abbassa ma innalza la loro energia nel lavoro e nella creazione”.

 

Per Majakovskij la poesia non è una sovrastruttura meccanica che si aggiunge all’edificio compiuto dagli esseri, il poeta autentico non è a foraggio della vita quotidiana, ma sprona e supera il tempo. Un poeta di regime non era un poeta, ma un servo.

 

È probabilmente giusta l’affermazione di Vjačeslav Ivanov che sostiene che in un’epoca rivoluzionaria il vero talento (Majakovskij) serve necessariamente la rivoluzione, ma quando tale slancio cessa per appiattirsi in una nuova realtà più stabilizzata tale unione è destinata a spezzarsi.

 

Il poeta deluso sarebbe morto suicida nel 1930, sentendosi molto probabilmente tradito dalla rigidità della nuova epoca.

 

Non è un caso se nel 1958 le prime manifestazioni di aperto dissenso al regime inizieranno proprio nella piazza di Mosca che porta il suo nome.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Vittorio Strada, Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa, Torino, Einaudi, 1980

Roman Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij, Einaudi, 1975

 



 

 

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