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N. 30 - Novembre 2007

LE FORME DELLA PROTESTA

Il movimento globale dopo Seattle

di Stefano De Luca

Caratterista del movimento attivo contro la globalizzazione neo-liberista è l’utilizzo di un repertorio d’azione eterogeneo: dalla pressione istituzionale delle organizzazioni non governative ai pellegrinaggi dei gruppi religiosi, dalle azioni dirette degli ecologisti alla ritualizzazione dello scontro nella disobbedienza civile dei centri sociali.

Soprattutto da Seattle in poi, gli attivisti del movimento hanno fatto uso di forme d’azione non convenzionale, prevalentemente non violente. Molte di queste forme d’azione sono riprese da movimenti del passato (che sono confluiti nel movimento globale), ma anche innovate e adattate, accentuandone sia la dimensione mediatica che la capacità di diffusione cross-nazionale.

L’attività di lobbying, cioè la pressione esercitata tramite contatti diretti con esponenti nazionali e con le burocrazie delle organizzazioni internazionali, viene praticata da alcune componenti dei new global, in particolar modo dalle organizzazioni non governative, che comunque la considerano come una strategia inefficacie di influenzare le organizzazioni internazionali. E’ inefficacie in quanto la maggior parte delle organizzazioni non governative sono radicate nel Nord del mondo, e quindi tendono, anche a questo livello, a riprodurre le disuguaglianze di potere tra paesi ricchi e paesi poveri. Inoltre non tutte le organizzazioni non governative sono autonome da governi e da grandi corporation.

La ridotta fiducia nel lobbying è testimoniata dall’evoluzione dei contro-vertici. Questi vengono promossi dalla società civile, si affiancano e si contrappongono ai vertici ufficiali delle grandi organizzazioni internazionali, trattano gli stessi temi dei vertici ufficiali ma in una prospettiva critica, ma vengono proposte soluzioni alternative rispetto a quelle discusse nell’ambito dei vertici ufficiali.

Un effetto dei contro-vertici è stato il consolidamento di legami transnazionali e, sempre più, transtematici. I contro-vertici hanno permesso infatti di estendere la mobilitazione a nuove aree geografiche e tematiche sociali, formando reti transnazionali; inoltre la presenza di attori transnazionali ha facilitato le mobilitazioni oltre i confini dei singoli stati.

Accanto ai contro-vertici, le campagne, cioè l’insieme di azioni di protesta su temi specifici, rappresentano un’altra strategia di mobilitazione che ha favorito lo sviluppo sia di legami cross-nazionali, che tra gruppi attivi su diverse tematiche. In Italia, ad esempio, le organizzazioni che dalla fine degli anni Ottanta avevano collaborato in comuni campagne sugli squilibri prodotti dalla globalizzazione (come Sdebitarsi, Campagna per la riforma della Bm, campagna Stop Millenium round, ecc.), si sono poi coordinate, nella rete Lilliput, giungendo all’elaborazione di una piattaforma comune.

Le due più importanti campagne per numero di organizzazioni, reti e paesi coinvolti sono quella per l’annullamento del debito dei paesi del Terzo Mondo, e quella contro l’ampliamento delle competenze del Wto. Altre campagne, su cui da anni si mobilitano le organizzazioni non governative, riguardano i temi dell’ambiente, ma anche della pace, dei diritti delle donne e di quelli dei popoli indigeni. Queste, così come quelle contro le mine, la costruzione di grandi dighe, la distruzione delle foreste tropicali, per la creazione di una corte contro i crimini di guerra, sono riuscite ad ottenere alcuni successi proprio grazie alla creazione di collegamenti internazionali (come Global exchange, Coalition for an international criminal court, ecc.), capaci di coinvolgere l’opinione pubblica di diversi paesi, talvolta anche attraverso azioni dirette.

La strategia di fondo delle campagne di protesta è il naming and shaming (nominare e svergognare), che mira a sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso la diffusione di informazioni dettagliate su casi particolarmente eclatanti, spesso chiedendo ai cittadini di punire le multinazionali non comprando più i loro prodotti. Nelle campagne vengono anche utilizzate forme d’azione recepite dalle aree religiose, come le veglie ed i digiuni che sono organizzati come momenti di espressione della partecipazione alle sofferenze dei più poveri.

Ciò che emerge da forme di protesta come le campagne anti-marchio, le incursioni distruttive nei campi seminati con organismi geneticamente modificati o i boicottaggi dinanzi ai supermercati, è di quanto sia mutata la natura dei conflitti sociali e di quanto sia diverso il movimenti new global dai movimenti sociali del passato. Non è più dalla realtà del lavoro, della produzione e della fabbrica che possono partire azioni collettive capaci di esprimere i conflitti e affrontare i problemi dell’ambiente, del consumo, della difesa delle culture. Non è mobilitandosi come lavoratore che gli individui possono oggi cambiare aspetti importanti dell’ambiente, o del consumo. E’ in quanto consumatori e cittadini che gli stessi lavoratori possono giungere ad incidere sui rapporti di lavoro e sulle regole del mercato. Quindi non è più facendo leva sul proprio status di lavoratore che il cittadino può rivendicare diritti nella sfera extra-lavorativa e nella società, ma è, al contrario, facendo leva sul proprio status sociale di consumatore e di cittadino che può rivendicare diritti nel lavoro.

Altre forme di protesta utilizzate dal movimento new global sono le grandi manifestazioni di massa e le conferenze. Le prime vengono definite come momenti in cui i movimenti diventano visibili, dando prova della loro capacità di mobilitare e di provocare una forte sensibilizzazione nell’opinione pubblica.

Per quanto riguarda invece le conferenze, hanno la funzione di facilitare la comunicazione e la collaborazione tra le varie anime del movimento. Permettono anche la preparazione dell’agenda collettiva dei movimenti e delle campagne per favorire gli scambi, la conoscenza e la comprensione delle diverse realtà sociali e nazionali.

Per fare un solo esempio del ruolo che hanno queste conferenze,  basta prendere in considerazione il primo Forum mondiale sociale di Porto Alegre (2001), che ha rappresentato una svolta significativa per l’evoluzione del movimenti new global. Infatti i movimenti di opposizione alla globalizzazione, dal Forum di Porto Alegre in poi, non seguitano solo a contestare, nei controvertici, nei forum o nelle manifestazioni, le decisioni sul destino del mondo che sono prese nei summit del Fmi, del Wto o della Banca Mondiale, ma attraverso il Forum Mondiale Sociale portano all’opinione pubblica mondiale proposte alternative. Si è passati quindi dalla fase della protesta a quella della costruzione di alternative.

Caratterista infatti di questo movimento è la capacità  di produzione diretta di politiche. Le proposte alterative sono frutto di quella capacità dei movimenti globali e dei loro centri di elaborazione di comprendere la nuova natura dei problemi, e di avanzare proposte di soluzioni che sono al tempo stesso radicali, ma comunque praticabili.

A Porto Alegre si è discusso su come “designare strategie di resistenza alla globalizzazione, ma anche elaborare paradigmi alternativi di sviluppo economico, ecologico e sociale”. Lo slogan “un mondo diverso è possibile” è divenuta la carta d’intenti dei movimenti, nella dichiarazione finale sono elencati i principali obbiettivi del movimento che si propone una globalizzazione dal basso.

Il Forum Sociale Mondiale, considerato come il più importante incontro dei movimenti popolari e sociali in lotta contro la globalizzazione neoliberista, e quello in cui maggiore visibilità e protagonismo ha avuto il Sud del mondo, almeno quello latino-americano. Non è stata casuale, la scelta di Porto Alegre, capitale dello Stato del Rio Grande do Sul, all'estremo sud del Brasile, per la prima edizione del Forum. Dove da anni viene praticata la gestione partecipativa (o bilancio partecipativo), vale a dire, la possibilità per gli abitanti dei diversi quartieri di definire, molto concretamente e molto democraticamente, l’attribuzione dei fondi municipali.

Forum come quelli di Porto Alegre permettono agli attori del movimento di definire le linee d’azioni comuni, contaminare i linguaggi, far circolare i repertori d’azione e le idee. Ha rappresentato un luogo per cominciare a lavorare insieme e superare le differenze reciproche, tanto che la proposta presentata dai rappresentanti italiani delle varie organizzazioni è stato considerata un miracolo, perché è stato scritto “tutta questa gente in Italia non firmerebbe assieme neanche una petizione”.

Anche a livello sub-nazionale si sono organizzati dei Forum.: in Italia, ad esempio, dall’esperienza del Genoa Social Forum sono emersi centinaia di forum locali. Questi vogliono riprodurre un modello organizzativo basato sulla collaborazione di attori eterogenei, radicandosi nel territorio, attraverso l’elaborazioni di critiche e soluzioni anche a livello locale, su temi che spaziano dai diritti dei migranti all’opposizione alle privatizzazioni dei servizi pubblici, dall’ambiente alla sanità.

Il movimento privilegia le azioni di non-violenza, in quanto il rifiuto della violenza viene considerato come un elemento centrale di differenziazione dalle strategie neo-liberiste. A Genova ad esempio le azioni non-violente sono state utilizzate soprattutto dal mondo dell’associazionismo laico e cattolico, coordinati dalla rete Lilliput, che aveva organizzato dibattiti sulla teoria della non-violenza ed esercitazioni alle pratiche non-violente. Le strategie di carattere non-violente comprendono azioni di protesta come “l’informazione e la denuncia per accrescere la consapevolezza e indebolire i centri di potere, il consumo critico e il boicottaggio per condizionare le imprese, la sperimentazione di iniziative di economia alternativa e di stili di vita più sobri per dimostrare che un’economia di giustizia è possibile”.

Azioni tipiche della disobbedienza civile, sono le distruzioni di campi di mais transgenico, le incursioni di Greepeace contro ad esempio le baleniere, i blocchi dei siti nucleari e anche la resistenza passiva agli interventi della polizia. Caratteristica della disobbedienza civile, utilizzata in Italia dai numerosi centri sociali che aderiscono al movimento come le tute bianche, è la provocazione simbolica: la vestizione (gommapiuma, parastinchi, maschere anti-gas, scudi di plastica trasparente, ecc.), così come la disposizione a testuggine, hanno una funzione prevalentemente simbolica, cioè quella di mettere in scena la violenza invece di praticarla.

Le proteste contro la globalizzazione neo-liberista sono spesso riuscite a sfruttare il peso crescente dei media, e soprattutto della televisione. Se le strategie di gran lunga privilegiate sono quelle non-violente, la stessa logica dei media ha comunque enfatizzato la presenza di forme di protesta più radicali, adattando forme d’azione come il lancio di sassi contro le vetrine, gli scontri tra gruppi di dimostranti e polizia che assicurano una maggiore visibilità al gruppo.

La critica alla violenza all’interno del movimento ha spesso richiamato gli effetti negativi per l’immagine della protesta nell’opinione pubblica, prodotti da scontri con la polizia, da incendi di auto o vetrine infrante. Infatti, accettati all’inizio in nome del pluralismo, seppure non praticati dalla maggioranza dei dimostranti, i repertori violenti sono stati sempre più criticati.

 Il rapporto con coloro che utilizzano forme d’azione violente è così diventato sempre più problematico, e varie soluzioni sono state adottate per proteggere i manifestanti pacifici dai rischi di escalation: dalla creazione nei cortei di “zone verdi”, o libere da gas lacrimogeni (come a Québec City), alla divisione dei manifestanti in diversi luoghi a seconda delle strategie d’azione preferite (come a Praga), a, infine, la firma di accordi che escludono tattiche e simboli più radicali (come a Genova).

La critica contro l’utilizzo della violenza all’interno del movimento si è sempre più diffusa in particolare con l’estendersi delle mobilitazioni contro la guerra. Infatti la scelta di repertori non-violenti è stata difesa con sempre più convinzione come necessaria coerenza con gli obbiettivi di un movimento, che ripudia l’uso della forza  come modo di soluzione dei conflitti.

In Italia già a partire dagli anni Ottanta, dopo gli anni di piombo, l’utilizzo della violenza come tattica di protesta è stato sempre più criticato. Se infatti negli anni Settanta la violenza era stata legittimata prima come strumento difensivo negli scontri con l’estrema destra e la polizia, poi come tattica propria di alcune organizzazioni di movimento, le mobilitazioni pacifiste degli anni Ottanta hanno portato con sé una critica della violenza, sia come tatticamente contro-producente che, soprattutto come eticamente sbagliata.

La maggior parte degli attivisti rifiutano strategie violente, ma vi è una parte, seppure ridotta, che ritiene legittimo reagire alle cariche della polizia. Ai margini di molte manifestazioni sulla globalizzazione vi sono stati gruppetti del cosiddetto black block che praticano forme di guerriglia urbana, utilizzando armi improprie sia in attacchi contro le cose che, più raramente, in scontri con la polizia.

Il Blocco nero non è un’organizzazione, ma una tecnica di protesta. Il suo scopo è di procurare danni al potere economico delle multinazionali, distruggendo i simboli della globalizzazione. La violenza viene accettata come estremo atto di auto-difesa, contro la violenza delle forze dell’ordine, ma all’interno dei black block  vi sono delle divisioni sulle forme d’azione ritenute accettabili.

I fatti di Genova, ad esempio, sono stati criticati dalla maggior parte dei nuclei dei black block. Qui infatti l’azione diretta delle Tute nere non si è limitata a prendere di mira quelli che sono considerati i simboli del capitalismo (banche e imprese multi-nazionali), ma si è scatenata anche contro piccoli negozi e autovetture private, incluse quelle di bassa cilindrata.

La causa di queste divergenze tra i vari nuclei delle tute nere, è soprattutto la mancanza di una struttura organizzativa. Infatti i vari nuclei agiscono in maniera prevalentemente autonoma gli uni dagli altri, senza leader ne portavoce, ma quando partecipano a cortei e manifestazioni, utilizzano la stessa forma d’azione: fondata sul lancio di pietre e, a volte, molotov contro sedi di imprese ritenute simboli della globalizzazione neo-liberista.

Da Seattle in poi questi gruppi sono apparsi, da un  lato, più organizzati, ma dall’altro anche sempre più isolati dal movimento. Ad esempio a Genova sono stati costruiti dei cordoni per tenerli fuori dal corte, sono rimasti fuori dal Genoa Social Forum in quanto non volevano sottoscrivere l’impegno ad utilizzare tattiche non-violente, sono stati definiti sia dannosi che estranei ad esso. Ciò ha fatto sì che le relazioni del black block con gli altri settori del movimento, divenissero sempre più tese.

Per quanto riguarda la risposta delle istituzioni alle proteste del movimento new global, una riflessione all’interno delle grandi istituzioni nazionali e sovra-nazionali sui numerosi episodi di violenza ha portato ad una blindatura dei vertici considerati a rischio. Con la creazione delle ‘zone rosse’, interdette alle contestazioni, anche l’obbiettivo delle mobilitazioni è comunque cambiato, almeno per una parte dei manifestanti, passando dal tentativo di bloccare i lavori del vertice a quello di violare i divieti e le barriere che impediscono di manifestare in aree proibite. Questa scelta ha influito sulle interazioni tra le forze dell’ordine e i manifestanti. Se il blocco dell’accesso ai delegati avveniva in forme relativamente pacifiche attraverso il formarsi di catene umane, l’obbiettivo di violare la “zona rossa” presuppone invece un’interazione più diretta con le forze dell’ordine. Si è così avviata una radicalizzazione del conflitto che è iniziata a Göteborg, dove la polizia ha sparato ferendo tre manifestanti. L’escalation sia delle strategie delle polizia di difesa dei luoghi dei vertici, che delle tattiche sperimentate dai dimostranti che mirano alla penetrazione, continuerà a Genova nel 2001, quando contro il G8 si svolgerà la più massiccia protesta contro un vertice internazionale (con l’uccisione di un manifestante).

Dopo gli incidenti di Genova la grandi manifestazioni sui temi della globalizzazione (come il Social forum europeo a Firenze, i cortei pacifici del 2003), si sono svolte in modo assolutamente pacifico. Sia il dibattito autocritico nei gruppi più radicali, che una maggiore vigilanza da parte dei vari coordinamenti della protesta sembrano avere interrotto quella spirale di violenze, che aveva prodotto a Praga, Göterborg e Genova duri scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. I crescenti consensi che il movimento sulla globalizzazione è riuscito a raccogliere hanno inoltre ridotto la propensione di governi e forze di polizia ad utilizzare quelle forme di repressione dura, che avevano invece caratterizzato il controllo della protesta durante le manifestazioni new global.

Per quanto riguarda la struttura organizzativa assunta dal movimento contro la globalizzazione neo-liberista, questa è particolarmente flessibile e multicentrica. Rispetto ai movimenti del passato, il ‘movimenti dei movimenti’ esalta maggiormente la presenza di legami deboli tra gruppi che mantengono modelli organizzativi differenziati. La mobilitazione di gruppi così eterogenei richiede infatti una struttura reticolare, che rispetti le specificità dei singoli gruppi (l’accettazione delle diversità si contrappone all’omologazione).

Questa struttura ha dei vantaggi innegabili nei momenti di mobilitazione, permettendo aggregazioni molto ampie. Il fatto che i diversi gruppi mantengano la loro identità autonoma spinge verso una partecipazione ampia ed una ricerca dell’accordo, necessario alla mobilitazione comune. Non comprimendo le differenze, il movimento espande i suoi potenziali gruppi di riferimento. Rimangono comunque alcune difficoltà delle strutture reticolari, legate in particolare all’alto investimento  di tempo necessario alla presa delle decisioni e al rischio di frammentazione.

Collegata al rispetto della soggettività  è la scelta di un modello consensuale: mentre il metodo maggioritario prevede decisioni prese attraverso un conteggio dei voti, il modello consensuale richiede invece un dibattito orientato alla costruzione di una posizione comune. Il modello consensuale era già stato utilizzato dal movimento degli studenti nelle sue prime fasi, poi ripreso con più convinzione dal movimento femminista, ma si era rilevato però piuttosto difficile da gestire, in quanto allungava i tempi fino ad ostacolarne l’azione. Molti gruppi new global hanno rivisitato il modello consensuale, elaborando nuove regole, che dovrebbero aiutare a superare i blocchi decisionali creati dalla permanenza di differenze di opinione, o evitare la manipolazione del processo decisionale da parte di pochi. Il modello consensuale dovrebbe permettere a tutti di esprimere la propria opinione: il procedimento si svolge in varie fasi e in cui si usano diverse tecniche di discussione, analisi e confronto, mediante il quale un gruppo arriva a prendere le sue decisioni senza ricorrere alle votazioni.

 



 

 

 

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