Caratterista del movimento attivo contro la
globalizzazione neo-liberista è l’utilizzo di un
repertorio d’azione eterogeneo: dalla pressione
istituzionale delle organizzazioni non governative
ai pellegrinaggi dei gruppi religiosi, dalle azioni
dirette degli ecologisti alla ritualizzazione dello
scontro nella disobbedienza civile dei centri
sociali.
Soprattutto da Seattle in poi, gli attivisti del movimento
hanno fatto uso di forme d’azione non convenzionale,
prevalentemente non violente. Molte di queste forme
d’azione sono riprese da movimenti del passato (che
sono confluiti nel movimento globale), ma anche
innovate e adattate, accentuandone sia la dimensione
mediatica che la capacità di diffusione
cross-nazionale.
L’attività di lobbying, cioè la pressione esercitata
tramite contatti diretti con esponenti nazionali e
con le burocrazie delle organizzazioni
internazionali, viene praticata da alcune componenti
dei new global, in particolar modo
dalle organizzazioni non governative, che comunque
la considerano come una strategia inefficacie di
influenzare le organizzazioni internazionali. E’
inefficacie in quanto la maggior parte delle
organizzazioni non governative sono radicate nel
Nord del mondo, e quindi tendono, anche a questo
livello, a riprodurre le disuguaglianze di potere
tra paesi ricchi e paesi poveri. Inoltre non tutte
le organizzazioni non governative sono autonome da
governi e da grandi corporation.
La ridotta fiducia nel lobbying è testimoniata
dall’evoluzione dei contro-vertici. Questi vengono
promossi dalla società civile, si affiancano e si
contrappongono ai vertici ufficiali delle grandi
organizzazioni internazionali, trattano gli stessi
temi dei vertici ufficiali ma in una prospettiva
critica, ma vengono proposte soluzioni alternative
rispetto a quelle discusse nell’ambito dei vertici
ufficiali.
Un effetto dei contro-vertici è stato il consolidamento di
legami transnazionali e, sempre più, transtematici.
I contro-vertici hanno permesso infatti di estendere
la mobilitazione a nuove aree geografiche e
tematiche sociali, formando reti transnazionali;
inoltre la presenza di attori transnazionali ha
facilitato le mobilitazioni oltre i confini dei
singoli stati.
Accanto ai contro-vertici, le campagne, cioè l’insieme di
azioni di protesta su temi specifici, rappresentano
un’altra strategia di mobilitazione che ha favorito
lo sviluppo sia di legami cross-nazionali, che tra
gruppi attivi su diverse tematiche. In Italia, ad
esempio, le organizzazioni che dalla fine degli anni
Ottanta avevano collaborato in comuni campagne sugli
squilibri prodotti dalla globalizzazione (come
Sdebitarsi, Campagna per la riforma della Bm,
campagna Stop Millenium round, ecc.), si sono
poi coordinate, nella rete Lilliput, giungendo
all’elaborazione di una piattaforma comune.
Le due più importanti campagne per numero di
organizzazioni, reti e paesi coinvolti sono quella
per l’annullamento del debito dei paesi del Terzo
Mondo, e quella contro l’ampliamento delle
competenze del Wto. Altre campagne, su cui da anni
si mobilitano le organizzazioni non governative,
riguardano i temi dell’ambiente, ma anche della
pace, dei diritti delle donne e di quelli dei popoli
indigeni. Queste, così come quelle contro le mine,
la costruzione di grandi dighe, la distruzione delle
foreste tropicali, per la creazione di una corte
contro i crimini di guerra, sono riuscite ad
ottenere alcuni successi proprio grazie alla
creazione di collegamenti internazionali (come
Global exchange, Coalition for an international
criminal court, ecc.), capaci di coinvolgere
l’opinione pubblica di diversi paesi, talvolta anche
attraverso azioni dirette.
La strategia di fondo delle campagne di protesta è il
naming and shaming (nominare e svergognare), che
mira a sensibilizzare l’opinione pubblica attraverso
la diffusione di informazioni dettagliate su casi
particolarmente eclatanti, spesso chiedendo ai
cittadini di punire le multinazionali non comprando
più i loro prodotti. Nelle campagne vengono anche
utilizzate forme d’azione recepite dalle aree
religiose, come le veglie ed i digiuni che sono
organizzati come momenti di espressione della
partecipazione alle sofferenze dei più poveri.
Ciò che emerge da forme di protesta come le campagne
anti-marchio, le incursioni distruttive nei campi
seminati con organismi geneticamente modificati o i
boicottaggi dinanzi ai supermercati, è di quanto sia
mutata la natura dei conflitti sociali e di quanto
sia diverso il movimenti new global dai
movimenti sociali del passato. Non è più dalla
realtà del lavoro, della produzione e della fabbrica
che possono partire azioni collettive capaci di
esprimere i conflitti e affrontare i problemi
dell’ambiente, del consumo, della difesa delle
culture. Non è mobilitandosi come lavoratore che gli
individui possono oggi cambiare aspetti importanti
dell’ambiente, o del consumo. E’ in quanto
consumatori e cittadini che gli stessi lavoratori
possono giungere ad incidere sui rapporti di lavoro
e sulle regole del mercato. Quindi non è più facendo
leva sul proprio status di lavoratore che il
cittadino può rivendicare diritti nella sfera
extra-lavorativa e nella società, ma è, al
contrario, facendo leva sul proprio status sociale
di consumatore e di cittadino che può rivendicare
diritti nel lavoro.
Altre forme di protesta utilizzate dal movimento new
global sono le grandi manifestazioni di massa e
le conferenze. Le prime vengono definite come
momenti in cui i movimenti diventano visibili, dando
prova della loro capacità di mobilitare e di
provocare una forte sensibilizzazione nell’opinione
pubblica.
Per quanto riguarda invece le conferenze, hanno la funzione
di facilitare la comunicazione e la collaborazione
tra le varie anime del movimento. Permettono anche
la preparazione dell’agenda collettiva dei movimenti
e delle campagne per favorire gli scambi, la
conoscenza e la comprensione delle diverse realtà
sociali e nazionali.
Per fare un solo esempio del ruolo che hanno queste
conferenze, basta prendere in considerazione il
primo Forum mondiale sociale di Porto Alegre (2001),
che ha rappresentato una svolta significativa per
l’evoluzione del movimenti new global.
Infatti i movimenti di opposizione alla
globalizzazione, dal Forum di Porto Alegre in poi,
non seguitano solo a contestare, nei controvertici,
nei forum o nelle manifestazioni, le decisioni sul
destino del mondo che sono prese nei summit
del Fmi, del Wto o della Banca Mondiale, ma
attraverso il Forum Mondiale Sociale portano
all’opinione pubblica mondiale proposte alternative.
Si è passati quindi dalla fase della protesta a
quella della costruzione di alternative.
Caratterista infatti di questo movimento è la capacità di
produzione diretta di politiche. Le proposte
alterative sono frutto di quella capacità dei
movimenti globali e dei loro centri di elaborazione
di comprendere la nuova natura dei problemi, e di
avanzare proposte di soluzioni che sono al tempo
stesso radicali, ma comunque praticabili.
A Porto Alegre si è discusso su come “designare strategie
di resistenza alla globalizzazione, ma anche
elaborare paradigmi alternativi di sviluppo
economico, ecologico e sociale”. Lo slogan “un mondo
diverso è possibile” è divenuta la carta d’intenti
dei movimenti, nella dichiarazione finale sono
elencati i principali obbiettivi del movimento che
si propone una globalizzazione dal basso.
Il Forum Sociale Mondiale, considerato come il
più importante incontro dei movimenti popolari e
sociali in lotta contro la globalizzazione
neoliberista, e quello in cui maggiore visibilità e
protagonismo ha avuto il Sud del mondo, almeno
quello latino-americano. Non è stata casuale, la
scelta di Porto Alegre, capitale dello Stato del Rio
Grande do Sul, all'estremo sud del Brasile, per la
prima edizione del Forum. Dove da anni viene
praticata la gestione partecipativa (o bilancio
partecipativo), vale a dire, la possibilità per gli
abitanti dei diversi quartieri di definire, molto
concretamente e molto democraticamente,
l’attribuzione dei fondi municipali.
Forum come quelli di Porto Alegre permettono agli attori
del movimento di definire le linee d’azioni comuni,
contaminare i linguaggi, far circolare i repertori
d’azione e le idee. Ha rappresentato un luogo per
cominciare a lavorare insieme e superare le
differenze reciproche, tanto che la proposta
presentata dai rappresentanti italiani delle varie
organizzazioni è stato considerata un miracolo,
perché è stato scritto “tutta questa gente in Italia
non firmerebbe assieme neanche una petizione”.
Anche a livello sub-nazionale si sono organizzati dei
Forum.: in Italia, ad esempio, dall’esperienza del
Genoa Social Forum sono emersi centinaia di forum
locali. Questi vogliono riprodurre un modello
organizzativo basato sulla collaborazione di attori
eterogenei, radicandosi nel territorio, attraverso
l’elaborazioni di critiche e soluzioni anche a
livello locale, su temi che spaziano dai diritti dei
migranti all’opposizione alle privatizzazioni dei
servizi pubblici, dall’ambiente alla sanità.
Il movimento privilegia le azioni di non-violenza, in
quanto il rifiuto della violenza viene considerato
come un elemento centrale di differenziazione dalle
strategie neo-liberiste. A Genova ad esempio le
azioni non-violente sono state utilizzate
soprattutto dal mondo dell’associazionismo laico e
cattolico, coordinati dalla rete Lilliput, che aveva
organizzato dibattiti sulla teoria della
non-violenza ed esercitazioni alle pratiche
non-violente. Le strategie di carattere non-violente
comprendono azioni di protesta come “l’informazione
e la denuncia per accrescere la consapevolezza e
indebolire i centri di potere, il consumo critico e
il boicottaggio per condizionare le imprese, la
sperimentazione di iniziative di economia
alternativa e di stili di vita più sobri per
dimostrare che un’economia di giustizia è
possibile”.
Azioni tipiche della disobbedienza civile, sono le
distruzioni di campi di mais transgenico, le
incursioni di Greepeace contro ad esempio le
baleniere, i blocchi dei siti nucleari e anche la
resistenza passiva agli interventi della polizia.
Caratteristica della disobbedienza civile,
utilizzata in Italia dai numerosi centri sociali che
aderiscono al movimento come le tute bianche, è la
provocazione simbolica: la vestizione (gommapiuma,
parastinchi, maschere anti-gas, scudi di plastica
trasparente, ecc.), così come la disposizione a
testuggine, hanno una funzione prevalentemente
simbolica, cioè quella di mettere in scena la
violenza invece di praticarla.
Le proteste contro la globalizzazione neo-liberista sono
spesso riuscite a sfruttare il peso crescente dei
media, e soprattutto della televisione. Se le
strategie di gran lunga privilegiate sono quelle
non-violente, la stessa logica dei media ha comunque
enfatizzato la presenza di forme di protesta più
radicali, adattando forme d’azione come il lancio di
sassi contro le vetrine, gli scontri tra gruppi di
dimostranti e polizia che assicurano una maggiore
visibilità al gruppo.
La critica alla violenza all’interno del movimento ha
spesso richiamato gli effetti negativi per
l’immagine della protesta nell’opinione pubblica,
prodotti da scontri con la polizia, da incendi di
auto o vetrine infrante. Infatti, accettati
all’inizio in nome del pluralismo, seppure non
praticati dalla maggioranza dei dimostranti, i
repertori violenti sono stati sempre più criticati.
Il rapporto con coloro che utilizzano forme d’azione
violente è così diventato sempre più problematico, e
varie soluzioni sono state adottate per proteggere i
manifestanti pacifici dai rischi di escalation:
dalla creazione nei cortei di “zone verdi”, o libere
da gas lacrimogeni (come a Québec City), alla
divisione dei manifestanti in diversi luoghi a
seconda delle strategie d’azione preferite (come a
Praga), a, infine, la firma di accordi che escludono
tattiche e simboli più radicali (come a Genova).
La critica contro l’utilizzo della violenza all’interno del
movimento si è sempre più diffusa in particolare con
l’estendersi delle mobilitazioni contro la guerra.
Infatti la scelta di repertori non-violenti è stata
difesa con sempre più convinzione come necessaria
coerenza con gli obbiettivi di un movimento, che
ripudia l’uso della forza come modo di soluzione
dei conflitti.
In Italia già a partire dagli anni Ottanta, dopo gli anni
di piombo, l’utilizzo della violenza come tattica di
protesta è stato sempre più criticato. Se infatti
negli anni Settanta la violenza era stata
legittimata prima come strumento difensivo negli
scontri con l’estrema destra e la polizia, poi come
tattica propria di alcune organizzazioni di
movimento, le mobilitazioni pacifiste degli anni
Ottanta hanno portato con sé una critica della
violenza, sia come tatticamente contro-producente
che, soprattutto come eticamente sbagliata.
La maggior parte degli attivisti rifiutano strategie
violente, ma vi è una parte, seppure ridotta, che
ritiene legittimo reagire alle cariche della
polizia. Ai margini di molte manifestazioni sulla
globalizzazione vi sono stati gruppetti del
cosiddetto black block che praticano forme di
guerriglia urbana, utilizzando armi improprie sia in
attacchi contro le cose che, più raramente, in
scontri con la polizia.
Il Blocco nero non è un’organizzazione, ma una tecnica di
protesta. Il suo scopo è di procurare danni al
potere economico delle multinazionali, distruggendo
i simboli della globalizzazione. La violenza viene
accettata come estremo atto di auto-difesa, contro
la violenza delle forze dell’ordine, ma all’interno
dei black block vi sono delle divisioni
sulle forme d’azione ritenute accettabili.
I fatti di Genova, ad esempio, sono stati criticati dalla
maggior parte dei nuclei dei black block. Qui
infatti l’azione diretta delle Tute nere non si è
limitata a prendere di mira quelli che sono
considerati i simboli del capitalismo (banche e
imprese multi-nazionali), ma si è scatenata anche
contro piccoli negozi e autovetture private, incluse
quelle di bassa cilindrata.
La causa di queste divergenze tra i vari nuclei delle tute
nere, è soprattutto la mancanza di una struttura
organizzativa. Infatti i vari nuclei agiscono in
maniera prevalentemente autonoma gli uni dagli
altri, senza leader ne portavoce, ma quando
partecipano a cortei e manifestazioni, utilizzano la
stessa forma d’azione: fondata sul lancio di pietre
e, a volte, molotov contro sedi di imprese
ritenute simboli della globalizzazione
neo-liberista.
Da Seattle in poi questi gruppi sono apparsi, da un lato,
più organizzati, ma dall’altro anche sempre più
isolati dal movimento. Ad esempio a Genova sono
stati costruiti dei cordoni per tenerli fuori dal
corte, sono rimasti fuori dal Genoa Social Forum in
quanto non volevano sottoscrivere l’impegno ad
utilizzare tattiche non-violente, sono stati
definiti sia dannosi che estranei ad esso. Ciò ha
fatto sì che le relazioni del black block con
gli altri settori del movimento, divenissero sempre
più tese.
Per quanto riguarda la risposta delle istituzioni alle
proteste del movimento new global, una
riflessione all’interno delle grandi istituzioni
nazionali e sovra-nazionali sui numerosi episodi di
violenza ha portato ad una blindatura dei vertici
considerati a rischio. Con la creazione delle ‘zone
rosse’, interdette alle contestazioni, anche
l’obbiettivo delle mobilitazioni è comunque
cambiato, almeno per una parte dei manifestanti,
passando dal tentativo di bloccare i lavori del
vertice a quello di violare i divieti e le barriere
che impediscono di manifestare in aree proibite.
Questa scelta ha influito sulle interazioni tra le
forze dell’ordine e i manifestanti. Se il blocco
dell’accesso ai delegati avveniva in forme
relativamente pacifiche attraverso il formarsi di
catene umane, l’obbiettivo di violare la “zona
rossa” presuppone invece un’interazione più diretta
con le forze dell’ordine. Si è così avviata una
radicalizzazione del conflitto che è iniziata a
Göteborg, dove la polizia ha sparato ferendo tre
manifestanti. L’escalation sia delle
strategie delle polizia di difesa dei luoghi dei
vertici, che delle tattiche sperimentate dai
dimostranti che mirano alla penetrazione, continuerà
a Genova nel 2001, quando contro il G8 si svolgerà
la più massiccia protesta contro un vertice
internazionale (con l’uccisione di un manifestante).
Dopo gli incidenti di Genova la grandi manifestazioni sui
temi della globalizzazione (come il Social forum
europeo a Firenze, i cortei pacifici del 2003), si
sono svolte in modo assolutamente pacifico. Sia il
dibattito autocritico nei gruppi più radicali, che
una maggiore vigilanza da parte dei vari
coordinamenti della protesta sembrano avere
interrotto quella spirale di violenze, che aveva
prodotto a Praga, Göterborg e Genova duri scontri
tra manifestanti e forze dell’ordine. I crescenti
consensi che il movimento sulla globalizzazione è
riuscito a raccogliere hanno inoltre ridotto la
propensione di governi e forze di polizia ad
utilizzare quelle forme di repressione dura, che
avevano invece caratterizzato il controllo della
protesta durante le manifestazioni new global.
Per quanto riguarda la struttura organizzativa assunta dal
movimento contro la globalizzazione neo-liberista,
questa è particolarmente flessibile e multicentrica.
Rispetto ai movimenti del passato, il ‘movimenti dei
movimenti’ esalta maggiormente la presenza di legami
deboli tra gruppi che mantengono modelli
organizzativi differenziati. La mobilitazione di
gruppi così eterogenei richiede infatti una
struttura reticolare, che rispetti le specificità
dei singoli gruppi (l’accettazione delle diversità
si contrappone all’omologazione).
Questa struttura ha dei vantaggi innegabili nei momenti di
mobilitazione, permettendo aggregazioni molto ampie.
Il fatto che i diversi gruppi mantengano la loro
identità autonoma spinge verso una partecipazione
ampia ed una ricerca dell’accordo, necessario alla
mobilitazione comune. Non comprimendo le differenze,
il movimento espande i suoi potenziali gruppi di
riferimento. Rimangono comunque alcune difficoltà
delle strutture reticolari, legate in particolare
all’alto investimento di tempo necessario alla
presa delle decisioni e al rischio di
frammentazione.
Collegata al rispetto della soggettività è la scelta di un
modello consensuale: mentre il metodo maggioritario
prevede decisioni prese attraverso un conteggio dei
voti, il modello consensuale richiede invece un
dibattito orientato alla costruzione di una
posizione comune. Il modello consensuale era già
stato utilizzato dal movimento degli studenti nelle
sue prime fasi, poi ripreso con più convinzione dal
movimento femminista, ma si era rilevato però
piuttosto difficile da gestire, in quanto allungava
i tempi fino ad ostacolarne l’azione. Molti gruppi
new global hanno rivisitato il modello
consensuale, elaborando nuove regole, che dovrebbero
aiutare a superare i blocchi decisionali creati
dalla permanenza di differenze di opinione, o
evitare la manipolazione del processo decisionale da
parte di pochi. Il modello consensuale dovrebbe
permettere a tutti di esprimere la propria opinione:
il procedimento si svolge in varie fasi e in cui si
usano diverse tecniche di discussione, analisi e
confronto, mediante il quale un gruppo arriva a
prendere le sue decisioni senza ricorrere alle
votazioni.