N. 22 - Marzo 2007
EUROPA ORIENTALE
Dal
1970 ad oggi - Parte II
di
Giulio Viggiani
Come abbiamo visto, agli albori degli anni ’70 il blocco
dei paesi comunisti era stato ricondotto con la
forza agli ordini di Mosca. I tentativi di riformare
il comunismo all’interno del sistema furono repressi
nel sangue nonostante le promesse liberali di
Chruscev.
Con l’ascesa al potere di Breznev si impose su tutti i
paesi del Patto di Varsavia la dottrina che prese il
suo nome: non sarebbe stata tollerata alcuna
deviazione dalla dottrina socialista, pena l’invio
delle truppe sovietiche, come in Ungheria nel 1956 e
in Cecoslovacchia nel 1968.
Tuttavia, sotto la cenere covavano nuovi movimenti di
protesta che, ambiziosamente ma al contempo
realisticamente, si proponevano di abbattere il
sistema comunista al potere, ormai delegittimato
dalla gravissima crisi economica e dalla spinta
della globalizzazione che, alla fine degli anni ’70,
già iniziava a farsi sentire in tutto il mondo.
Comunque, agli inizi del decennio nessun analista di
politica internazionale avrebbe preso in seria
considerazione l’ipotesi di un crollo dei regimi
comunisti nel giro di venti anni.
E infatti, si affermò in Europa la cosiddetta Ostpolitik
che, inaugurata dal cancelliere socialdemocratico
Brandt, diede il via a una serie di accordi
economici tra i paesi del blocco comunista e quelli
occidentali.
Il culmine del periodo della “distensione internazionale”
fu costituito dalla firma del Trattato di Helsinki
nel 1975, che contemplava vari riconoscimenti
reciproci sulle sfere di sovranità dei rispettivi
Stati e permetteva alle diplomazie dei paesi
occidentali di inserirsi surrettiziamente nella
politica interna dei paesi socialisti, così da
legittimare indirettamente i movimenti di
opposizione democratica che stavano sorgendo in
quegli anni. Anche l’Unione Sovietica si mostrò
interessata a raffreddare la tensione
internazionale, che negli anni ’60 aveva toccato i
suoi massimi con la crisi dei missili di Cuba e la
costruzione del muro di Berlino.
Negli anni ’70 il Cremlino ordinò di impostare tra i paesi
dell’Europa orientale una più forte cooperazione
economica, politica, militare e culturale per
tentare di arginare le proteste montanti a causa del
continuo aumento dei prezzi deciso dai regimi per
rinegoziare i debiti esteri e ottenere ulteriori
prestiti dall’Fmi e dalle potenze occidentali e
aumentare il volume delle importazioni così da
riequilibrare il deficit della bilancia commerciale.
L’obiettivo però fallì, per l’eccessivo costo del
lavoro e la pessima allocazione delle risorse
produttive, concentrate sull’inefficiente e obsoleta
industria pesante.
La Polonia divenne in quegli anni il tallone d’Achille del blocco
comunista, soprattutto grazie all’appoggio che la
Chiesa cattolica assicurò ai sindacati indipendenti
che, dalle rivendicazioni salariali per far fronte
all’aumento diffuso e indiscriminato dei prezzi,
passarono ben presto a dimostrazioni che mettevano
in discussione il ruolo guida del partito, forti
della montante crisi economica aggravata dalle crisi
petrolifere del 1973 e del 1979, che ebbero
l’effetto deleterio di far crescere in modo
esponenziale il pesante indebitamento con l’estero,
che i paesi e le istituzioni finanziarie occidentali
erano ben disposte a finanziare a tassi di interesse
sempre più alti.
Gli anni ’80 segnarono uno spartiacque ideale con il
decennio precedente, esasperando oltremodo le
contraddizioni politiche economiche e sociali dei
paesi del blocco comunista. I grandi cambiamenti
nelle relazioni Est-Ovest furono segnati da due
eventi fondamentali: l’elezione di Ronald Reagan a
presidente degli Stati Uniti e la salita al soglio
pontificio di Giovanni Paolo II.
In seguito, l’avvento di Gorbacev sulla scena politica
internazionale avrebbe dato involontariamente il
colpo di grazia alle speranze di un’autoriforma
sostenibile del sistema socialista. Sulla scia di
questi eventi cruciali gli Stati Uniti ripresero la
corsa agli armamenti con il programma delle “guerre
stellari”, che mise in ginocchio la fiaccata
economia sovietica già alle prese con la costosa e
difficile campagna militare in Afghanistan, invaso
improvvisamente nel 1979. Contemporaneamente in
Polonia con la fondazione del sindacato libero di
Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, ripresero gli
scontri che nel giro di un decennio avrebbero
portato alla caduta del regime poliziesco del
generale Jaruzelski.
Questo rovesciamento incredibile della situazione fu reso
possibile anche dagli aiuti britannici e americani
ai movimenti di opposizione democratica e
soprattutto dall’appoggio costante della Chiesa di
Roma al sindacato cattolico Solidarnosc, che
conquistò il potere democraticamente nel 1989-90.
Gli sforzi delle diplomazie di Reagan e di Papa Wojtyla si
concentrarono intelligentemente verso la Polonia
perché il regime comunista era da sempre in
difficoltà e meno radicato nei gangli vitali della
società. Inoltre, data la difficoltà in cui
versavano i regimi al potere negli altri paesi del
blocco comunista, era ampiamente prevedibile ciò che
sarebbe avvenuto in caso di crollo del sistema
socialista polacco: la caduta a catena degli altri
partiti comunisti al potere negli altri paesi
vicini.
In Germania orientale la situazione socio-economica
generale era di gran lunga la migliore di tutto il
blocco comunista grazie ai notevoli sforzi del
regime di Honecker di mantenere un tenore di vita il
più possibile alto e comparabile a quello della
Germania occidentale, che in quegli anni era
definita la “locomotiva d’Europa”, incrementando i
prestiti e i traffici commerciali con la Repubblica
Federale.
In Ungheria invece, si assistette a un fenomeno unico e
irripetibile nel contesto in continua evoluzione
degli anni ’80: il partito e l’élite al potere
intuirono in tempo il vento della storia che stava
per travolgere il sistema socialista e iniziarono
una politica di progressive e continue aperture
all’opposizione democratica che reclamava fortemente
più spazi di libertà personale, economica e un
riconoscimento ufficiale attraverso libere elezioni.
Dal 1985 al 1990, anno in cui il regime abbandonò il
governo pacificamente, l’Ungheria si avvicinò a
tappe forzate alla democrazia liberale ed entrò a
far parte dell’Fmi e della Banca mondiale. In soli
cinque anni si era compiuta quella che sarebbe
passata alla storia come la “rivoluzione di
velluto”, che portò senza versare una sola goccia di
sangue dal totalitarismo alla democrazia e dalla
pianificazione all’economia di mercato un paese che
soltanto trenta anni prima era stato ricondotto da
Chruscev sulla “retta via” del socialismo ortodosso
con l’uso della forza.
In Romania infatti, il “comunismo dinastico” di Nicolae
Ceausescu represse duramente ogni minima forma di
dissenso, finché la pesantissima crisi economica non
spinse la popolazione, fino a quel momento inerme e
remissiva, a ribellarsi con l’aiuto decisivo
dell’esercito e a ucciderlo.
In Yugoslavia la morte di Tito nel 1980, mise in moto una
serie di recrudescenze nazionaliste che nel giro di
undici anni portarono a una fratricida guerra
civile, che sarebbe stata sedata solamente
dall’intervento diplomatico statunitense prima e dai
bombardamenti Nato sulla Serbia poi. I prodromi
della futura disgregazione della federazione
iugoslava furono la sanguinosa repressione degli
indipendentisti del Kosovo nel 1981 e l’elezione del
serbo Slobodan Milosevic a leader della Lega dei
comunisti iugoslavi nel 1987. Il presidente serbo
modificò la Costituzione abolendo l’autonomia del
Kosovo e di Vojdovina, scatenando le rivendicazioni
nazionali e religiose delle repubbliche federali.
Il modello economico comunista si basava sulla
pianificazione statale degli investimenti e
sull’industria pesante e tralasciò colpevolmente di
impostare una produzione di beni di consumo che
contribuissero ad elevare i bassi standard di vita
delle popolazioni dell’Europa orientale e,
soprattutto, impedì la libera formazione di una
classe imprenditoriale, a causa dell’elevata e
dell’iniqua tassazione sul lavoro e
dell’impossibilità pratica di perseguire un profitto
che non fosse a beneficio dello Stato e quindi in
realtà, della nomenklatura al potere.
Il neostalinismo che dominò in pressoché tutti gli Stati
del blocco comunista dal 1970 al 1985 fu messo in
discussione dalle popolazioni soprattutto per il
generale declino economico che li colpì
indistintamente dal 1975, fino ad aggravarsi di pari
passo con l’aumentare del peso del debito estero dai
primi anni ’80. Dalla seconda metà del 1983,
allorquando nel mondo occidentale si aprì una lunga
congiuntura economica positiva che sarebbe durata
fino al 1992, la situazione si fece insostenibile
ovunque e le timide riforme messe in atto non
riuscirono a impedire ai regimi di essere abbattuti
più o meno pacificamente nel giro di pochi mesi.
Negli anni ’70 iniziò la spirale negativa dell’aumento dei
prezzi per tentare di riequilibrare la bilancia
commerciale che innescò le proteste e saldo dei
movimenti di opposizioni democratica con le masse
che chiedevano solo più benessere. L’altissima
inflazione fece fiorire un immenso mercato nero che
si ingrossava sostenendo i dissidenti e
intercettando i finanziamenti occidentali.
Il crollo del sistema socialista nel suo complesso fu
improvviso e relativamente veloce e colpì a catena
tutti i paesi del blocco sovietico. Il fallimento
economico dello statalismo e del centralismo fu
totale e può essere considerato senza dubbio la
causa principale della caduta rovinosa di quei
regimi. Nel giro di appena tre lustri sorsero una
molteplicità di imprese legali e illegali che
minarono dall’interno il sistema fino alla
disintegrazione, ma la causa di lungo periodo del
crollo del comunismo fu la progressiva integrazione
dell’Europa orientale con il sistema economico
mondiale capitalista sia tramite il commercio che
l’indebitamento con l’estero, che alla fine degli
anni ’80 divenne impossibile da rinegoziare e da
saldare.
Con l’aggravarsi della crisi economica in
tutta l’area venne meno la residua base di
legittimazione dei partiti comunisti al potere: dato
che ogni decisione veniva presa dall’alto, le
popolazioni identificarono i governanti come gli
unici responsabili dell’erosione del potere
d’acquisto e riversarono tutta la rabbia repressa
verso un sistema che aveva cancellato tutte le
tradizioni nazionali e aveva impedito che l’economia
liberasse le proprie forze creando benessere e
ricchezza da ridistribuire con senso sociale, come
avveniva nei paesi a capitalismo avanzato. Inoltre,
le scelte dei paesi del blocco sovietico per
inserirsi nell’economia mondiale misero a nudo le
contraddizioni insanabili del sistema socialista.
Nel 1985, quando Gorbacev fu eletto segretario del Pcus
volle rafforzare il ruolo del partito e provare a
riformare un sistema marcio dalle fondamenta:
purtroppo però il tentativo accelerò soltanto il
processo inesorabile di caduta dei regimi comunisti
al potere, compreso quello sovietico, perché il
tempo per un’autoriforma era passato da almeno
trenta anni. La decentralizzazione e l’apertura al
mercato, infatti, non erano possibili senza minare
il sistema alle radici e il progetto di un comunismo
riformista si rivelò impossibile. Gorbacev, dunque,
contrariamente alla vulgata ufficiale, fu l’artefice
involontario del crollo dei regimi comunisti
attraverso i due pilastri della sua politica di
quegli anni: la perestrojka e la glasnost,
cioè la ricostruzione e la trasparenza. La
ricostruzione abbinata alla trasparenza era però
chiaramente insostenibile per un mostro burocratico
e ingessato da una grave crisi economica come il
moloch sovietico e il blocco orientale.
Nel
frattempo la corsa agli armamenti ricominciata con
la fine della distensione internazionale e
inaugurata da Reagan con l’ambizioso programma delle
guerre stellari, prosciugò le risorse del paese,
come se non bastasse la guerra in Afghanistan era in
pieno stallo, anche per i consistenti aiuti
economici e militari che gli Stati Uniti fornivano
alla resistenza. La politica di glasnost
permise più libertà di espressione e di accesso
all’informazione mentre la perestrojka
rappresentò un tardivo tentativo di democratizzare
il sistema politico sovietico. Gorbacev poi
incoraggiò relazioni più strette, anche commerciali,
con i paesi occidentali e nel 1987 firmò con Reagan
l’accordo su un primo smantellamento dei missili
nucleari.
A questo importante risultato si arrivò
grazie alla tenacia del presidente Reagan e alle
misure prese dai paesi della Nato per installare i
missili Cruise e Pershing in risposta a quelli del
Patto di Varsavia, resistendo alle forti pressioni
dei movimenti pacifisti guidati dalla sinistra
comunista. Le riforme avviate da Gorbacev in Unione
Sovietica non riuscirono a salvare il sistema ma
aprirono la strada a un profondo rinnovamento di
leadership nell’Europa orientale. Gorbacev aveva
capito perfettamente che l’U.R.S.S. era ormai troppo
debole per mantenere nella sua morsa di ferro quella
regione: alla “dottrina Breznev” si sostituì
infatti, la “dottrina Sinatra”, secondo la quale i
paesi del blocco orientale erano liberi di agire
autonomamente e di scegliere le loro diverse “vie al
socialismo”. Per questo motivo Gorbacev diede il suo
appoggio ai comunisti riformatori di quei paesi,
nella speranza che riuscissero a salvare i loro
regimi sempre più assediati dalle popolazioni
stremate dalla fame e dall’indigenza crescenti.
Dopo lo svolgimento delle elezioni nella Germania
orientale, in Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria,
Gorbacev autorizzò il ritiro delle truppe da quei
paesi e acconsentì alla riunificazione delle due
Germanie. Con le sue politiche innovatrici il
segretario del Pcus minò l’autorità del partito
unico senza però offrire un’alternativa credibile
per rendere la transizione verso la democrazia più
accettabile per le popolazioni.
La rapida disgregazione dell’Europa orientale iniziò dalla
Polonia, l’anello più debole della catena, e come un
fiume in piena si propagò in breve tempo negli altri
paesi.
In Polonia il regime era da mesi prossimo al collasso a
causa del malcontento crescente che serpeggiava tra
la popolazione, stremata da una crisi economica
ormai irreversibile. Inoltre il partito non riusciva
più a opporsi con efficacia agli scioperi che da
dieci anni si susseguivano a un ritmo impressionante
e l’entrata in vigore della legge marziale nel 1981
non era stata in grado di mettere un freno alla
situazione, dal momento che fino al 1988, quando il
generale Jaruzelski decise di negoziare con
Solidarnosc che ormai rappresentava chiaramente la
maggioranza del paese, il dissenso crebbe nell’ombra
e scoppiò con fragore alla fine del decennio
portando via con sé il regime e tutto ciò che
rappresentava. Nelle elezioni del 1989 il sindacato
di Lech Walesa fece il pieno dei seggi e divenne
l’unico paese facente parte del Patto di Varsavia
con un governo non comunista.
In Ungheria la “rivoluzione di velluto” fu il frutto della
intelligente politica di compromessi e di riforme
portata avanti dal 1980 che sfociò nella fine
naturale e pacifica del regime nell’indizione di
libere elezioni nel 1989.
In politica estera l’Ungheria ebbe il merito di rimuovere
per prima il “filo spinato” della “cortina di ferro”
al confine con l’Austria, permettendo ai tedeschi
dell’Est di passare per il proprio territorio e di
raggiungere così l’Austria e da lì l’Europa
occidentale. In Romania invece, il crollo del regime
comunista fu violento a causa delle resistenze del
sanguinario Ceausescu e la transizione verso la
democrazia fu più lenta e complessa che in Polonia,
in Ungheria e in Cecoslovacchia.
La sollevazione decisiva fu scatenata dalla repressione
ordinata dal dittatore rumeno sulla minoranza
ungherese presente in Transilvania, ma l’esercito
appoggiò la popolazione e riuscì a sopraffare la
Securitate. In Cecoslovacchia, di gran lunga il
paese più moderno e vicino all’Occidente di tutto il
blocco comunista, la rivoluzione fu condotta
abilmente dall’intellettuale Vaclav Havel, che fu
eletto capo dello Stato. All’anziano leader
riformatore, Dubcek, l’ideatore della “primavera di
Praga”, fu ricompensato delle sofferenze di una vita
con l’elezione a presidente dell’Assemblea federale.
Negli altri paesi i regimi furono abbattuti velocemente ma
il passaggio alla democrazia liberale fu più
difficoltoso a causa della mancanza di tradizioni
democratiche di quei popoli e tuttora il rischio del
ritorno al potere di governi autocratici è sempre
pericolosamente presente.
Negli ultimi anni che precedettero il crollo a catena dei
regimi comunisti il nazionalismo, quasi ad
anticipare lo scoppio dei conflitti interetnici che
sarebbero scoppiati nei primi anni ’90, il
nazionalismo divenne un mezzo disperato di
legittimazione per i partiti al potere ma non servì
a evitare la perdita del potere bensì anticipò ciò
che avrebbe caratterizzato la politica
internazionale negli a venire, prima dell’avvento
del terrorismo internazionale.
Dopo i primi anni di euforia per la fine di odiose
dittature, anche per il mancato sostegno finanziario
da parte degli Stati Uniti, le popolazioni dei paesi
postcomunisti dovettero affrontare enormi difficoltà
di adattamento all’economia di mercato e alle
opportunità ma anche alle minori tutele offerte da
uno Stato liberale. I cittadini di quei paesi stanno
imparando a vivere non sottomettendo più i diritti
inviolabili della persona al volere dello Stato,
come erano costretti a fare nel sistema socialista.
Negli ultimi anni un senso diffuso di insicurezza si
è impadronito di tutta l’area per la mancanza di
strumenti regionali in grado di mantenere la
sicurezza collettiva e prevenire i conflitti locali
che potrebbero scoppiare per le risorse naturali
come il petrolio, di cui l’Europa orientale e l’Asia
centrale sono ricche.
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