N. 21 - Febbraio 2007
EUROPA ORIENTALE
1945–1970 – Parte I
di
Giulio Viggiani
La presa del potere
La presa del potere da parte dei comunisti nell’Europa
Orientale si realizzò con relativa facilità grazie al
concorso di diversi fattori, il primo dei quali fu
l’impatto della Seconda Guerra Mondiale.
Gli anni difficili vissuti sotto l’occupazione nazista
prima e sotto la conquista militare dell’Armata Rossa
poi, indebolirono la capacità di resistenza di queste
popolazioni, che scambiarono i sovietici per dei
liberatori ma si accorsero ben presto di essere
passati solo dall’oppressione di un regime a quella di
un altro, se possibile ancora più totalitario.
Anche se il termine dato a questi eventi sia
“post-rivoluzionario”, non solo dagli apologisti
di quei regimi ma anche da diversi esponenti della
cultura occidentale, non si può certo parlare di
“rivoluzione” nel senso classico del termine.
Il termine può essere utilizzato in riferimento al 1789
in Francia e al Febbraio 1917 in Russia. E’ dubbio
che lo si possa usare con riferimento all’Ottobre
1917 in Russia, visto che in questo caso ci fu una
presa del potere da parte dei bolscevichi, con il
solo appoggio dei social-rivoluzionari di
sinistra, nell’ambito di un sistema istituzionale
risultante dalla dissoluzione del regime zarista,
realizzatasi sotto la spinta della sollevazione
popolare. Ed è certo che non si può parlare di
“rivoluzione” né per il colpo di Stato di
Mussolini, in seguito alla Marcia su Roma nel 1922
e al delitto Matteotti nel 1924, né per la
vittoria militare che portò Franco al potere in
Spagna nel 1939, né tantomeno per la nomina di
Hitler a cancelliere nel 1933. |
In tutti questi casi si può parlare di una conquista del
potere in uno Stato già conquistato dall’interno, del
sostegno di un movimento di massa il cui ruolo si
limitava a confermare e a convalidare decisioni prese
altrove e dell’utilizzo strumentale e pilotato delle
manifestazioni di piazza. Ed è a queste ultime
esperienze che bisogna guardare per trovare dei
precedenti storici all’avvento del comunismo
nell’Europa Orientale.
La
vittoria dell’Armata Rossa aumentò a dismisura la
forza e il successo dei partiti comunisti, sospinti
anche da un forte bisogno di cambiamenti politici e
sociali che saliva da diversi settori della società.
Inoltre i partiti marxisti, in ossequio alla linea
dell’Internazionale comunista, offrirono una sorta di
“asilo” politico alle minoranze nazionali, molto
numerose in queste società, contrastando duramente le
tendenze sciovinistiche presenti un una parte non
piccola della popolazione.
In
Ungheria, in Romania e in Polonia diverse minoranze
etniche entrarono a far parte del gruppo dirigente del
partito e conseguentemente, degli apparati dello
Stato. Ciò non fece che rafforzare il potere dei
partiti comunisti. Emblematico il caso della
Jugoslavia, uno Stato costituito da numerose
minoranze, dove il partito comunista era l’unica
organizzazione in grado di tenere insieme
pacificamente le diverse nazionalità. Allo stesso
tempo, i partiti comunisti guadagnarono un certo
sostegno della popolazione, annullando molti degli
effetti delle politiche “etniche” applicate da Hitler
nei territori occupati: dappertutto, dopo il 1945,
essi si posero alla guida nelle politiche di
espulsione delle minoranze sgradite, applicate
soprattutto ai tedeschi, che prima della guerra
formavano comunità compatte in Polonia,
Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania.
Il
“trasferimento” all’estero delle minoranze tedesche
era contemplato dalla clausola 13 degli accordi di
Potsdam del 1945 e fu approvato da tutti i partiti
politici. I principali trasferimenti furono
organizzati nel 1946 e riguardarono 5 milioni di
tedeschi in Polonia e 2 milioni in Cecoslovacchia. La
comunità tedesca dei Sudeti si stabilì nella Germania
Orientale, in Slovacchia la minoranza magiara fu
espulsa e si diresse in Ungheria e in Bulgaria gli
ebrei sopravvissuti alla guerra furono invitati ad
andarsene e anche la minoranza turca fu spinta verso
la Turchia.
Tra
il 1939 e il 1945 i partiti comunisti dell’Europa
Orientale avevano subito una profonda trasformazione:
da piccoli gruppi clandestini all’inizio della guerra,
erano diventati imponenti organizzazioni di massa che
presero trionfalmente il potere, assorbendo i gruppi
socialdemocratici. Al riguardo c’è da dire che in
questa prima fase del dopoguerra la politica del
partito fu quella della porta aperta, mentre negli
anni ’50 ci fu una maggiore selezione a causa della
pratica diffusa delle purghe.
Malgrado il sostegno e il consenso diffuso che si
erano conquistati, nella presa del potere i partiti
comunisti dovettero contare sul ruolo decisivo giocato
dall’Armata Rossa e dall’intervento diretto sovietico.
Le uniche eccezioni furono costituite dall’Albania,
dalla Cecoslovacchia e dalla Jugoslavia. In Albania e
in Jugoslavia i movimenti partigiani comunisti
giunsero al potere autonomamente; in Cecoslovacchia i
comunisti occuparono una posizione dominante sin
dall’inizio e l’Armata Rossa potette ritirarsi dal
paese nel novembre 1945.
Le
tre nazioni nemiche sconfitte, Ungheria, Romania e
Bulgaria, non furono considerate in grado di
governarsi con piena indipendenza. Le commissioni di
controllo alleate (CCA), composte da rappresentanti
sovietici, statunitensi e britannici cercarono di
gestire le situazioni dietro le quinte ma, al loro
interno i sovietici ebbero da subito un ruolo
predominante, fino al punto da esautorare i membri
occidentali spingendoli a uscire dagli organi
direttivi.
Tutto ciò fu reso possibile grazie all’appoggio
diretto dei militari sovietici e dei referenti
politici del Pcus, che prendevano ordini direttamente
da Stalin. Il dittatore sovietico considerò “l’accordo
sulle percentuali” con Churchill nell’ottobre 1944
molto seriamente. Era convinto, infatti, che avrebbe
dovuto soltanto contenere la voglia di potere dei
comunisti greci, mentre le potenze occidentali non
avrebbero ficcato il naso più di tanto in ciò che
stava accadendo in Romania e in Bulgaria.
Alla conferenza di Mosca del dicembre 1945 i ministri
degli Esteri di Usa, Gran Bretagna e Unione Sovietica
auspicarono un allargamento dei governi rumeno e
bulgaro a due leader dell’opposizione non comunista e
libere elezioni in Romania. In realtà queste erano le
condizioni per la firma dei trattati di pace. La
situazione sembrava bloccata, ma Stalin riuscì a
ribaltarla abilmente: in Bulgaria, dopo un’estenuante
trattativa, l’ambasciatore sovietico riuscì a far
saltare l’accordo tra i comunisti e l’opposizione su
un governo condiviso e l’indizione di libere elezioni.
In
Romania, due rappresentanti delle opposizioni
entrarono nell’esecutivo ma furono immediatamente
privati di ogni reale potere di indirizzo politico.
In
Cecoslovacchia, invece, dopo più di due anni di
tensioni, nel febbraio 1948 i comunisti andarono al
potere con un colpo di Stato, ma senza un aiuto
diretto da parte di Mosca.
Le
tecniche utilizzate dai comunisti per conquistare il
potere non variarono molto da paese a paese. La prima
tappa consisteva nell’assumere il controllo della
polizia, del ministero degli Interni e della Difesa.
Un’altra tecnica molto efficace fu quella del
maquillage: l’uso strumentale delle masse come
mezzo di pressione, mentre le decisioni venivano prese
altrove, perlopiù al Cremino.
L’indebolimento dei partiti non comunisti fu un altro
metodo per assicurarsi una transizione indolore al
potere esclusivo. All’interno di questi partiti gli
esponenti favorevoli alla nuova situazione venivano
sostenuti economicamente, ma veniva impedito loro di
entrare nel partito comunista e di agire in base alle
proprie convinzioni.
L’eliminazione degli oppositori presenti negli altri
partiti fu possibile anche dall’esterno mediante la
cosiddetta “tattica del salame”: il partito in
questione veniva considerato come una salsiccia e la
sua estremità destra tagliata; quando la successiva
fetta diventava l’elemento più a destra, essa a sua
volta veniva tagliata.
Gli
oppositori politici meno arrendevoli venivano
neutralizzati in altri modi: erano incarcerati a vita
o giustiziati in seguito a processi pilotati o fatti
sparire dalla polizia segreta con l’accusa di
fantomatiche cospirazioni contro il potere costituito.
La
Jugoslavia costituiva già un’eccezione nel panorama
politico dell’Europa Orientale di quegli anni. Il
partito comunista jugoslavo (KPJ) fu l’unico gruppo
che riuscì a porre un freno all’odio etnico che aveva
dilaniato il paese durante la seconda guerra mondiale.
Oppose la resistenza più efficace nei confronti delle
truppe dell’Asse e fin dall’inizio fu indipendente da
Mosca.
La
capacità del partito di fare da punto di incontro e di
equilibrio tra le diverse etnie derivò dalla sua
composizione multietnica a tutti i livelli, dal
rifiuto durante la guerra di una politica di vendetta
nazionale e dalla convinzione che la soluzione ai
problemi jugoslavi fosse un assetto di tipo federale.
Le
ragioni dell’indipendenza jugoslava dall’Urss sono da
rintracciare nel modo in cui i partigiani riuscirono a
liberarsi dei tedeschi. In realtà i nazisti si
ritirarono dal paese nel 1944 per spostarsi sugli
altri fronti aperti dall’Armata Rossa, perciò
l’apporto delle truppe sovietiche fu comunque decisivo
anche se non direttamente.
D’altra parte fin dall’1943 la linea politica di Tito
si era mostrata allergica alle pressioni provenienti
da Mosca. L’impostazione federale del governo,
infatti, andava contro le direttive staliniane di
formare governi di coalizione in collaborazione con le
potenze occidentali e di mantenere uno stretto legame
tra i movimenti di resistenza e i rappresentanti in
esilio. Tuttavia Stalin non reagì alle prime
intemperanze di Tito e gli concesse il ritiro
dell’Armata Rossa dai confini jugoslavi e la piena
autonomia delle istituzioni della federazione.
A
parte la forte autonomia dal Cremlino che aveva saputo
abilmente conquistarsi, l’unica differenza tra il
regime di Tito e le altre democrazie popolari fu nel
radicalismo con cui vennero applicati dal dittatore
slavo i principi del marxismo-leninismo: dal 1945 al
1950 fu attuata una violentissima repressione nei
confronti degli oppositori politici e dei
collaborazionisti, fu vietato candidarsi alle elezioni
contro gli esponenti del partito comunista. La
devozione al partito unico divenne l’unico
salvacondotto per la popolazione che non si era ancora
piegata alle politiche del regime.
A
livello economico fu rapidamente avviato un piano
quinquennale di industrializzazione forzata basata
sull’esproprio della proprietà privata a vantaggio
della formazione di fattorie locali e collettive.
L’iniziativa di Tito di una federazione con la
Bulgaria e l’Albania per risolvere il problema della
Macedonia e del Kosovo, allarmò Stalin, che temeva
l’imporsi della Jugoslavia come potenza rivale al
centro dei Balcani. Tito, però decise di rinunciare
all’idea della federazione, sospettando che la
Bulgaria, eterodiretta da Mosca, potesse divenire il
“cavallo di Troia” sovietico all’interno del suo
paese.
Dopo mesi di tensioni, la Jugoslavia rifiutò l’invito
a partecipare a una riunione del Cominform e sancì
ufficialmente lo strappo da Mosca, riuscendo a
debellare facilmente la minoritaria opposizione
interna filo-staliniana.
L’imposizione dello stalinismo
La
politica comunista del dopoguerra in Europa Orientale
attraversò due fasi: quella “moderata” finalizzata
alla ricostruzione, nel biennio 1947-48, e quella
socialista, improntata alla trasformazione radicale
della società, dal 1949 al 1953.
In
seguito all’avvio dei programmi di ricostruzione, i
dirigenti dei partiti comunisti locali attuarono una
politica di epurazione nei confronti degli esponenti
degli altri partiti nella logica della costruzione del
partito unico. Nel campo economico il primo passo fu
quello di nazionalizzare le industrie e di liquidare
l’impresa privata. Contemporaneamente furono
drasticamente ridimensionati i poteri dei consigli di
fabbrica, che erano sorti spontaneamente dopo la fine
della guerra.
Nei
paesi ex nemici, Bulgaria, Ungheria e Romania, le
nazionalizzazioni furono ritardate per favorire la
ricostruzione economica. In tutti gli altri paesi
intanto, si verificarono forti resistenze alle
collettivizzazioni e all’esproprio delle aziende
agricole private, in attuazione dei piani quinquennali
ordinati da Stalin in Russia negli anni ’30. I terreni
espropriati però, non furono divisi tra i contadini
poveri ma restarono di proprietà dello Stato.
Il
capo del Cremlino era consapevole della differenza
sostanziale tra la “dittatura del proletariato”
instauratasi in U.R.S.S. all’indomani dell’Ottobre
1917, e le democrazie popolari e pluraliste che
governavano i paesi dell’Europa Orientale dal 1945 e
decise che il sistema socialista “puro” doveva essere
imposto anche con la forza se necessario, uniformando
tutti i sistemi politici ed economici dei paesi
satellite.
Nel
1947, contestualmente allo scoppio della guerra
fredda, Stalin decise che era giunta l’ora di
invertire la rotta e proibì ai capi di stato e di
governo dell’Europa Orientale di partecipare alla
Conferenza di Parigi sul Piano Marshall. Oltre ai
chiari motivi politici, l’ostilità di Stalin al Piano
Marshall era dovuta a motivi economici: dal 1946 la
presenza sovietica aveva cominciato ad assottigliarsi
e l’apertura dell’Europa Orientale al commercio
internazionale con i paesi occidentali avrebbe messo
in ginocchio l’economia sovietica e avrebbe
pericolosamente messo in discussione la leadership
geopolitica dell’U.R.S.S. in tutta l’area.
Alla fine del 1948 nei paesi della regione tutte le
attività economiche erano ormai passate sotto il
controllo diretto o indiretto dello Stato e sul fronte
più strettamente politico i partiti socialdemocratici
erano stati assorbiti all’interno del partito
comunista, “depurati” della componente di destra che
si era opposta fin dall’inizio alla collaborazione con
i comunisti.
L’apogeo del sistema staliniano
Il
periodo compreso tra il 1949 e il 1953 fu
caratterizzato dalla massima uniformità nel perseguire
gli obiettivi dello stalinismo in tutti i paesi
dell’Europa Orientale in politica, in economia, nella
cultura e nella società civile.
Fu
ribadito il ruolo guida del partito unico che deteneva
il monopolio del potere in nome della classe operaia.
I referenti di Stalin svilupparono a modello del
dittatore supremo un culto della personalità nei paesi
da loro guidati con il pugno di ferro.
Sul
piano economico fu impressa una forte accelerazione
alla collettivizzazione delle campagne e furono
piegate le resistenze dei kulaki (i contadini ricchi)
spingendoli nelle fattorie statali. Nel 1950 lo
scoppio della guerra di Corea rese necessario
aumentare la produzione dell’industria pesante, a
scapito dei beni di consumo di cui la popolazione
avrebbe avuto bisogno per migliorare il proprio tenore
di vita.
Nei
primi anni della guerra fredda, in cui la tensione
internazionale era altissima, l’Unione Sovietica
aumentò sensibilmente lo sfruttamento economico dei
paesi satellite dell’Europa Orientale, privandoli
delle materie prime di erano ricchi e decise di
aumentare a dismisura la produttività della forza
lavoro disponibile.
La
propaganda esaltava ossessivamente le figure degli
operai più efficienti (stacanovismo), che battevano i
precedenti record di produttività, incoraggiando in
tal modo la sopraffazione dei migliori a danno dei più
deboli. Fu introdotto il lavoro a cottimo e gli
straordinari non venivano pagati. Anzi il tasso di
crescita dei salari reali restò a un livello
scandalosamente basso se rapportato alle ore di
lavoro.
Dunque, la crescita economica dei primi anni ’50 fu
garantita a spese degli operai e dei contadini, le
componenti di quella classe sociale proletaria che,
secondo i dettami marxisti, avrebbe dovuto dominare
incontrastata la società. Soltanto una minoranza
riuscì a salire la scala sociale andando per lo più a
formare la classe privilegiata e potente dei burocrati
statali, nota come nomenklatura.
L’industrializzazione e la collettivizzazione forzata
diminuirono notevolmente la percentuale di popolazione
impiegata nell’agricoltura e di conseguenza, produsse
una forte urbanizzazione.
Lo
stalinismo perseguiva la subordinazione totale della
società allo Stato e la creazione di una società
quanto più possibile omogenea e uniforme. Le parole
d’ordine in quegli anni furono: soppressione,
assorbimento e neutralizzazione delle organizzazioni
sociali alternative, non direttamente controllate dal
partito, come gli scout e i movimenti cristiani, che
erano un ostacolo al processo di omogeneizzazione
voluto da Stalin. Nel giro di pochi anni la Chiesa
ortodossa si piegò ai voleri dei regimi, mentre la
Chiesa cattolica riuscì a resistere alla dura
repressione e, nonostante le enormi difficoltà
affrontate, riuscì a rimanere viva nel tessuto sociale
della popolazione, specialmente in quei paesi come la
Polonia in cui la tradizione cattolica era più forte.
Contemporaneamente iniziarono in tutti i paesi
dell’area delle violente campagne per sradicare le
culture tradizionali e sostituirle: dopo il 1948 la
dottrina del “realismo socialista” fu imposta
dappertutto, fu severamente vietato lo sperimentalismo
artistico e letterario e tutti coloro che volevano
produrre cultura furono costretti ad entrare in
associazioni controllate dallo Stato.
Nel
frattempo fu rafforzato il ruolo della vigilanza
pervasiva delle forze preposte alla sicurezza statale
e si moltiplicarono le epurazioni della polizia
segreta. Le “purghe”, termine rievocativo delle
repressioni violentissime attuate da Stalin negli anni
’30, furono una pratica molto diffusa nei primi anni
di assestamento dei nuovi regimi comunisti, per
eliminare o ridurre al silenzio gli oppositori
politici, le persone socialmente sgradite o i capri
espiatori, soddisfacendo la vigilanza richiesta da
Stalin.
Lo
strumento si rivelò molto efficace e fu utilizzato
dopo ogni ondata riformatrice per ridurre
all’obbedienza attraverso il terrore chi smarriva la
via maestra del socialismo. Le purghe ebbero però
anche una motivazione economica: fornirono masse di
manodopera forzata in un periodo di rapido sviluppo
economico e di carenza di lavoratori. Nel giro di
pochi mesi tutti i paesi dell’Europa Orientale si
riempirono di campi di lavoro funzionali al
raggiungimento dei sempre più ambiziosi livelli di
produttività fissati dai regimi comunisti.
Stalin impose un sistema economico autarchico che non
riuscì nel lungo periodo a garantire uno sviluppo
economico pari a quello dei paesi dell’Europa
Occidentale e fu la causa principale del crollo dei
regimi comunisti, incapaci di autoriformarsi
dall’interno senza uscire dal sistema socialista.
La destalinizzazione e il 1956
La
morte di Stalin si fece sentire in tutta l’Europa
Orientale e favorì il rifiorire dei movimenti liberali
repressi duramente negli anni precedenti. Nel febbraio
1956, quando Chruscev tenne il suo rapporto segreto
contro Stalin al XX congresso del PCUS, l’inizio della
destalinizzazione ufficiale diede nuove speranze agli
intellettuali che speravano di riformare il sistema
socialista senza metterne in discussione le basi
ideologiche.
L’intento si rivelò impossibile da realizzare ed ebbe
in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968 due
casi esemplari di impossibilità del sistema di
autoriformarsi con successo in profondità, senza
aprirsi all’economia di mercato e al pluralismo
culturale. A Budapest, intorno al Circolo Petofi si
coagularono le forze liberali del paese che chiedevano
più libertà economiche e culturali e man mano si
diffusero in tutta la società gruppi di pressione che
pretendevano dal regime un serio cambiamento di rotta
che allentasse i controlli sui settori produttivi e
intellettuali più vivaci.
Il
Cremlino, per timore che la situazione sfuggisse di
mano completamente decise di invadere l’Ungheria e di
ristabilire l’ordine. La repressione della rivolta
durò solo otto giorni a causa della sproporzione delle
forze in campo e il nuovo governo che salì al potere
era alle dipendenze dirette di Mosca.
Alla base della rivolta ungherese c’era la convinzione che
l’attuazione dell’ideologia di una sorta di “terza
via” tra capitalismo e socialismo fosse possibile ma,
tutto ciò che deviava dall’ortodossia socialista era
considerato da Mosca come un precedente
pericolosissimo che poteva avere un effetto domino sui
suoi paesi satelliti e mettere seriamente a rischio il
predominio geopolitico raggiunto con la vittoria nella
seconda guerra mondiale.
In quegli stessi anni in Polonia si sviluppò una crisi per
molti versi analoga a quella ungherese ma i risultati
furono profondamente diversi. La fazione staliniana
più conservatrice era in minoranza all’interno del
partito comunista polacco a differenza di quello
ungherese e per questo non riuscì ad opporsi alle
timide riforme avviate in quei mesi, come la
decollettivizzazione e la libera crescita dei consigli
operai. Tuttavia nel giro di un anno l’ala
revisionista del partito fu esautorata e restaurato un
rigido controllo dello Stato sulle attività economiche
e culturali. Comunque l’indipendenza dei contadini e
la forza della Chiesa cattolica resero impossibile
l’instaurazione piena del socialismo reale come negli
altri paesi dell’Europa Orientale.
Un decennio di consolidamento
Il
periodo che va dalla seconda metà degli anni ’50 al
1970 fu caratterizzato da un processo di
consolidamento del sistema post-staliniano nella sua
versione parzialmente riformata e nella diversità
crescente all’interno della regione.
A cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60 il fatto più
rilevante a livello internazionale fu la crisi
continua intorno a Berlino che si concluse nel 1961
con la costruzione del muro, che bloccò il flusso
migratorio continuo verso l’Occidente.
Dopo la repressione della rivolta ungherese i leader
sovietici ridussero l’autonomia e lo spazio di manovra
di tutti i paesi del blocco comunista. Lo sviluppo
economico fu quasi ininterrotto, se si esclude la
crisi dei primi anni ’60 ma, fu “drogato” dall’aiuto
considerevole dei sovietici che rifornirono
continuativamente di sussidi tutti i paesi della
regione. L’allentamento della morsa dei controlli dei
diversi regimi lasciò un’ampia autonomia dei cittadini
nella sfera privata che rese più sopportabile
l’assenza di libertà e di democrazia in un periodo
storico in cui l’Occidente godeva di ritmi di crescita
impetuosi.
Le timide, parziali e simboliche riforme avviate tra la
fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 vennero presto
spazzate via dai leader dei partiti comunisti locali,
per paura delle reazioni di Chruscev, prima, e di
Breznev, poi. Ma nuovi gruppi di dissidenti stavano
crescendo in clandestinità e sarebbero prepotentemente
saliti alla ribalta di lì a poco.
La “Primavera di Praga”, che scoppiò in Cecoslovacchia nel
1968, rappresentò l’ultima possibilità di riforma del
sistema dal suo interno, ma fu stroncata brutalmente
da Breznev per il timore che il crollo del sistema
socialista cecoslovacco avrebbe prodotto un effetto
domino sugli altri paesi dell’area. Dubcek, il leader
comunista slovacco che era salito alla guida del
partito pochi mesi prima, si illuse che la promozione
di riforme liberali in tutti i settori della società
attraversati dal malcontento crescente avrebbe
prodotto un socialismo più umano senza intaccare il
sistema alle sue radici, ma così non fu.
La situazione gli sfuggì di mano e le rivolte ispirate
dagli intellettuali investirono tutti i settori più
vivi nel campo culturale ed economico. L’intervento
sovietico fu sollecitato come in Ungheria dodici anni
prima, dall’ala conservatrice del partito, che vedeva
sottrarsi progressivamente quote di potere man mano
che la società cecoslovacca conquistava autonomia
politica, economica e intellettuale. La minaccia della
“controrivoluzione” fu così scongiurata e nel giro di
un anno la “normalizzazione” della situazione fu
portata a termine revocando tutte le liberalizzazioni
messe in atto da Dubcek l’anno precedente.
La repressione della “Primavera di Praga” favorì
all’inizio degli anni ’70 la nascita e lo sviluppo di
movimenti di protesta completamente nuovi rispetto al
passato. Per la prima volta si metteva in discussione
la base ideologica del sistema socialista e
l’obiettivo che ci si proponeva di conseguire non era
più un’autoriforma dall’interno, nella cornice del
regime, ma un rovesciamento dell’intero sistema
politico sociale ed economico che aveva governato i
paesi dell’Europa Orientale per più di quarant’anni.
L’obiettivo sarebbe stato raggiunto alla fine degli
anni ’80, con la fine della guerra fredda e la
conclusione di un intero periodo storico, il “secolo
breve”.
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