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> Storia Contemporanea

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N. 21 - Febbraio 2007

EUROPA ORIENTALE

1945–1970 – Parte I

di Giulio Viggiani

 

La presa del potere

 

La presa del potere da parte dei comunisti nell’Europa Orientale si realizzò con relativa facilità grazie al concorso di diversi fattori, il primo dei quali fu l’impatto della Seconda Guerra Mondiale.

 

Gli anni difficili vissuti sotto l’occupazione nazista prima e sotto la conquista militare dell’Armata Rossa poi, indebolirono la capacità di resistenza di queste popolazioni, che scambiarono i sovietici per dei liberatori ma si accorsero ben presto di essere passati solo dall’oppressione di un regime a quella di un altro, se possibile ancora più totalitario.

 

Anche se il termine dato a questi eventi sia “post-rivoluzionario”, non solo dagli apologisti di quei regimi ma anche da diversi esponenti della cultura occidentale, non si può certo parlare di “rivoluzione” nel senso classico del termine.

Il termine può essere utilizzato in riferimento al 1789 in Francia e al Febbraio 1917 in Russia. E’ dubbio che lo si possa usare con riferimento all’Ottobre 1917 in Russia, visto che in questo caso ci fu una presa del potere da parte dei bolscevichi, con il solo appoggio dei social-rivoluzionari di sinistra, nell’ambito di un sistema istituzionale risultante dalla dissoluzione del regime zarista, realizzatasi sotto la spinta della sollevazione popolare. Ed è certo che non si può parlare di “rivoluzione” né per il colpo di Stato di Mussolini, in seguito alla Marcia su Roma nel 1922 e al delitto Matteotti nel 1924, né per la vittoria militare che portò Franco al potere in Spagna nel 1939, né tantomeno per la nomina di Hitler a cancelliere nel 1933.

 

In tutti questi casi si può parlare di una conquista del potere in uno Stato già conquistato dall’interno, del sostegno di un movimento di massa il cui ruolo si limitava a confermare e a convalidare decisioni prese altrove e dell’utilizzo strumentale e pilotato delle manifestazioni di piazza. Ed è a queste ultime esperienze che bisogna guardare per trovare dei precedenti storici all’avvento del comunismo nell’Europa Orientale.

 

La vittoria dell’Armata Rossa aumentò a dismisura la forza e il successo dei partiti comunisti, sospinti anche da un forte bisogno di cambiamenti politici e sociali che saliva da diversi settori della società. Inoltre i partiti marxisti, in ossequio alla linea dell’Internazionale comunista, offrirono una sorta di “asilo” politico alle minoranze nazionali, molto numerose in queste società, contrastando duramente le tendenze sciovinistiche presenti un una parte non piccola della popolazione.

 

In Ungheria, in Romania e in Polonia diverse minoranze etniche entrarono a far parte del gruppo dirigente del partito e conseguentemente, degli apparati dello Stato. Ciò non fece che rafforzare il potere dei partiti comunisti. Emblematico il caso della Jugoslavia, uno Stato costituito da numerose minoranze, dove il partito comunista era l’unica organizzazione in grado di tenere insieme pacificamente le diverse nazionalità. Allo stesso tempo, i partiti comunisti guadagnarono un certo sostegno della popolazione, annullando molti degli effetti delle politiche “etniche” applicate da Hitler nei territori occupati: dappertutto, dopo il 1945, essi si posero alla guida nelle politiche di espulsione delle minoranze sgradite, applicate soprattutto ai tedeschi, che prima della guerra formavano comunità compatte in Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania.

 

Il “trasferimento” all’estero delle minoranze tedesche era contemplato dalla clausola 13 degli accordi di Potsdam del 1945 e fu approvato da tutti i partiti politici. I principali trasferimenti furono organizzati nel 1946 e riguardarono 5 milioni di tedeschi in Polonia e 2 milioni in Cecoslovacchia. La comunità tedesca dei Sudeti si stabilì nella Germania Orientale, in Slovacchia la minoranza magiara fu espulsa e si diresse in Ungheria e in Bulgaria gli ebrei sopravvissuti alla guerra furono invitati ad andarsene e anche la minoranza turca fu spinta verso la Turchia.

 

Tra il 1939 e il 1945 i partiti comunisti dell’Europa Orientale avevano subito una profonda trasformazione: da piccoli gruppi clandestini all’inizio della guerra, erano diventati imponenti organizzazioni di massa che presero trionfalmente il potere, assorbendo i gruppi socialdemocratici. Al riguardo c’è da dire che in questa prima fase del dopoguerra la politica del partito fu quella della porta aperta, mentre negli anni ’50 ci fu una maggiore selezione a causa della pratica diffusa delle purghe.

 

Malgrado il sostegno e il consenso diffuso che si erano conquistati, nella presa del potere i partiti comunisti dovettero contare sul ruolo decisivo giocato dall’Armata Rossa e dall’intervento diretto sovietico. Le uniche eccezioni furono costituite dall’Albania, dalla Cecoslovacchia e dalla Jugoslavia. In Albania e in Jugoslavia i movimenti partigiani comunisti giunsero al potere autonomamente; in Cecoslovacchia i comunisti occuparono una posizione dominante sin dall’inizio e l’Armata Rossa potette ritirarsi dal paese nel novembre 1945.

 

Le tre nazioni nemiche sconfitte, Ungheria, Romania e Bulgaria, non furono considerate in grado di governarsi con piena indipendenza. Le commissioni di controllo alleate (CCA), composte da rappresentanti sovietici, statunitensi e britannici cercarono di gestire le situazioni dietro le quinte ma, al loro interno i sovietici ebbero da subito un ruolo predominante, fino al punto da esautorare i membri occidentali spingendoli a uscire dagli organi direttivi.

 

Tutto ciò fu reso possibile grazie all’appoggio diretto dei militari sovietici e dei referenti politici del Pcus, che prendevano ordini direttamente da Stalin. Il dittatore sovietico considerò “l’accordo sulle percentuali” con Churchill nell’ottobre 1944 molto seriamente. Era convinto, infatti, che avrebbe dovuto soltanto contenere la voglia di potere dei comunisti greci, mentre le potenze occidentali non avrebbero ficcato il naso più di tanto in ciò che stava accadendo in Romania e in Bulgaria.

 

Alla conferenza di Mosca del dicembre 1945 i ministri degli Esteri di Usa, Gran Bretagna e Unione Sovietica auspicarono un allargamento dei governi rumeno e bulgaro a due leader dell’opposizione non comunista e libere elezioni in Romania. In realtà queste erano le condizioni per la firma dei trattati di pace. La situazione sembrava bloccata, ma Stalin riuscì a ribaltarla abilmente: in Bulgaria, dopo un’estenuante trattativa, l’ambasciatore sovietico riuscì a far saltare l’accordo tra i comunisti e l’opposizione su un governo condiviso e l’indizione di libere elezioni.

 

In Romania, due rappresentanti delle opposizioni entrarono nell’esecutivo ma furono immediatamente privati di ogni reale potere di indirizzo politico.

 

In Cecoslovacchia, invece, dopo più di due anni di tensioni, nel febbraio 1948 i comunisti andarono al potere con un colpo di Stato, ma senza un aiuto diretto da parte di Mosca.

 

Le tecniche utilizzate dai comunisti per conquistare il potere non variarono molto da paese a paese. La prima tappa consisteva nell’assumere il controllo della polizia, del ministero degli Interni e della Difesa. Un’altra tecnica molto efficace fu quella del maquillage: l’uso strumentale delle masse come mezzo di pressione, mentre le decisioni venivano prese altrove, perlopiù al Cremino.

 

L’indebolimento dei partiti non comunisti fu un altro metodo per assicurarsi una transizione indolore al potere esclusivo. All’interno di questi partiti gli esponenti favorevoli alla nuova situazione venivano sostenuti economicamente, ma veniva impedito loro di entrare nel partito comunista e di agire in base alle proprie convinzioni.

 

L’eliminazione degli oppositori presenti negli altri partiti fu possibile anche dall’esterno mediante la cosiddetta “tattica del salame”: il partito in questione veniva considerato come una salsiccia e la sua estremità destra tagliata; quando la successiva fetta diventava l’elemento più a destra, essa a sua volta veniva tagliata.

 

Gli oppositori politici meno arrendevoli venivano neutralizzati in altri modi: erano incarcerati a vita o giustiziati in seguito a processi pilotati o fatti sparire dalla polizia segreta con l’accusa di fantomatiche cospirazioni contro il potere costituito.

 

La Jugoslavia costituiva già un’eccezione nel panorama politico dell’Europa Orientale di quegli anni. Il partito comunista jugoslavo (KPJ) fu l’unico gruppo che riuscì a porre un freno all’odio etnico che aveva dilaniato il paese durante la seconda guerra mondiale. Oppose la resistenza più efficace nei confronti delle truppe dell’Asse e fin dall’inizio fu indipendente da Mosca.

 

La capacità del partito di fare da punto di incontro e di equilibrio tra le diverse etnie derivò dalla sua composizione multietnica a tutti i livelli, dal rifiuto durante la guerra di una politica di vendetta nazionale e dalla convinzione che la soluzione ai problemi jugoslavi fosse un assetto di tipo federale.

 

Le ragioni dell’indipendenza jugoslava dall’Urss sono da rintracciare nel modo in cui i partigiani riuscirono a liberarsi dei tedeschi. In realtà i nazisti si ritirarono dal paese nel 1944 per spostarsi sugli altri fronti aperti dall’Armata Rossa, perciò l’apporto delle truppe sovietiche fu comunque decisivo anche se non direttamente.

 

D’altra parte fin dall’1943 la linea politica di Tito si era mostrata allergica alle pressioni provenienti da Mosca. L’impostazione federale del governo, infatti, andava contro le direttive staliniane di formare governi di coalizione in collaborazione con le potenze occidentali e di mantenere uno stretto legame tra i movimenti di resistenza e i rappresentanti in esilio. Tuttavia Stalin non reagì alle prime intemperanze di Tito e gli concesse il ritiro dell’Armata Rossa dai confini jugoslavi e la piena autonomia delle istituzioni della federazione.

 

A parte la forte autonomia dal Cremlino che aveva saputo abilmente conquistarsi, l’unica differenza tra il regime di Tito e le altre democrazie popolari fu nel radicalismo con cui vennero applicati dal dittatore slavo i principi del marxismo-leninismo: dal 1945 al 1950 fu attuata una violentissima repressione nei confronti degli oppositori politici e dei collaborazionisti, fu vietato candidarsi alle elezioni contro gli esponenti del partito comunista. La devozione al partito unico divenne l’unico salvacondotto per la popolazione che non si era ancora piegata alle politiche del regime.

 

A livello economico fu rapidamente avviato un piano quinquennale di industrializzazione forzata basata sull’esproprio della proprietà privata a vantaggio della formazione di fattorie locali e collettive.

 

L’iniziativa di Tito di una federazione con la Bulgaria e l’Albania per risolvere il problema della Macedonia e del Kosovo, allarmò Stalin, che temeva l’imporsi della Jugoslavia come potenza rivale al centro dei Balcani. Tito, però decise di rinunciare all’idea della federazione, sospettando che la Bulgaria, eterodiretta da Mosca, potesse divenire il “cavallo di Troia” sovietico all’interno del suo paese.

 

Dopo mesi di tensioni, la Jugoslavia rifiutò l’invito a partecipare a una riunione del Cominform e sancì ufficialmente lo strappo da Mosca, riuscendo a debellare facilmente la minoritaria opposizione interna filo-staliniana.

 

L’imposizione dello stalinismo

 

La politica comunista del dopoguerra in Europa Orientale attraversò due fasi: quella “moderata” finalizzata alla ricostruzione, nel biennio 1947-48, e quella socialista, improntata alla trasformazione radicale della società, dal 1949 al 1953.

 

In seguito all’avvio dei programmi di ricostruzione, i dirigenti dei partiti comunisti locali attuarono una politica di epurazione nei confronti degli esponenti degli altri partiti nella logica della costruzione del partito unico. Nel campo economico il primo passo fu quello di nazionalizzare le industrie e di liquidare l’impresa privata. Contemporaneamente furono drasticamente ridimensionati i poteri dei consigli di fabbrica, che erano sorti spontaneamente dopo la fine della guerra.

 

Nei paesi ex nemici, Bulgaria, Ungheria e Romania, le nazionalizzazioni furono ritardate per favorire la ricostruzione economica. In tutti gli altri paesi intanto, si verificarono forti resistenze alle collettivizzazioni e all’esproprio delle aziende agricole private, in attuazione dei piani quinquennali ordinati da Stalin in Russia negli anni ’30. I terreni espropriati però, non furono divisi tra i contadini poveri ma restarono di proprietà dello Stato.

 

Il capo del Cremlino era consapevole della differenza sostanziale tra la “dittatura del proletariato” instauratasi in U.R.S.S. all’indomani dell’Ottobre 1917, e le democrazie popolari e pluraliste che governavano i paesi dell’Europa Orientale dal 1945 e decise che il sistema socialista “puro” doveva essere imposto anche con la forza se necessario, uniformando tutti i sistemi politici ed economici dei paesi satellite.

 

Nel 1947, contestualmente allo scoppio della guerra fredda, Stalin decise che era giunta l’ora di invertire la rotta e proibì ai capi di stato e di governo dell’Europa Orientale di partecipare alla Conferenza di Parigi sul Piano Marshall. Oltre ai chiari motivi politici, l’ostilità di Stalin al Piano Marshall era dovuta a motivi economici: dal 1946 la presenza sovietica aveva cominciato ad assottigliarsi e l’apertura dell’Europa Orientale al commercio internazionale con i paesi occidentali avrebbe messo in ginocchio l’economia sovietica e avrebbe pericolosamente messo in discussione la leadership geopolitica dell’U.R.S.S. in tutta l’area.

 

Alla fine del 1948 nei paesi della regione tutte le attività economiche erano ormai passate sotto il controllo diretto o indiretto dello Stato e sul fronte più strettamente politico i partiti socialdemocratici erano stati assorbiti all’interno del partito comunista, “depurati” della componente di destra che si era opposta fin dall’inizio alla collaborazione con i comunisti.

 

L’apogeo del sistema staliniano

 

Il periodo compreso tra il 1949 e il 1953 fu caratterizzato dalla massima uniformità nel perseguire gli obiettivi dello stalinismo in tutti i paesi dell’Europa Orientale in politica, in economia, nella cultura e nella società civile.

 

Fu ribadito il ruolo guida del partito unico che deteneva il monopolio del potere in nome della classe operaia. I referenti di Stalin svilupparono a modello del dittatore supremo un culto della personalità nei paesi da loro guidati con il pugno di ferro.

 

Sul piano economico fu impressa una forte accelerazione alla collettivizzazione delle campagne e furono piegate le resistenze dei kulaki (i contadini ricchi) spingendoli nelle fattorie statali. Nel 1950 lo scoppio della guerra di Corea rese necessario aumentare la produzione dell’industria pesante, a scapito dei beni di consumo di cui la popolazione avrebbe avuto bisogno per migliorare il proprio tenore di vita.

 

Nei primi anni della guerra fredda, in cui la tensione internazionale era altissima, l’Unione Sovietica aumentò sensibilmente lo sfruttamento economico dei paesi satellite dell’Europa Orientale, privandoli delle materie prime di erano ricchi e decise di aumentare a dismisura la produttività della forza lavoro disponibile.

 

La propaganda esaltava ossessivamente le figure degli operai più efficienti (stacanovismo), che battevano i precedenti record di produttività, incoraggiando in tal modo la sopraffazione dei migliori a danno dei più deboli. Fu introdotto il lavoro a cottimo e gli straordinari non venivano pagati. Anzi il tasso di crescita dei salari reali restò a un livello scandalosamente basso se rapportato alle ore di lavoro.

 

Dunque, la crescita economica dei primi anni ’50 fu garantita a spese degli operai e dei contadini, le componenti di quella classe sociale proletaria che, secondo i dettami marxisti, avrebbe dovuto dominare incontrastata la società. Soltanto una minoranza riuscì a salire la scala sociale andando per lo più a formare la classe privilegiata e potente dei burocrati statali, nota come nomenklatura. L’industrializzazione e la collettivizzazione forzata diminuirono notevolmente la percentuale di popolazione impiegata nell’agricoltura e di conseguenza, produsse una forte urbanizzazione.

 

Lo stalinismo perseguiva la subordinazione totale della società allo Stato e la creazione di una società quanto più possibile omogenea e uniforme. Le parole d’ordine in quegli anni furono: soppressione, assorbimento e neutralizzazione delle organizzazioni sociali alternative, non direttamente controllate dal partito, come gli scout e i movimenti cristiani, che erano un ostacolo al processo di omogeneizzazione voluto da Stalin. Nel giro di pochi anni la Chiesa ortodossa si piegò ai voleri dei regimi, mentre la Chiesa cattolica riuscì a resistere alla dura repressione e, nonostante le enormi difficoltà affrontate, riuscì a rimanere viva nel tessuto sociale della popolazione, specialmente in quei paesi come la Polonia in cui la tradizione cattolica era più forte.

 

Contemporaneamente iniziarono in tutti i paesi dell’area delle violente campagne per sradicare le culture tradizionali e sostituirle: dopo il 1948 la dottrina del “realismo socialista” fu imposta dappertutto, fu severamente vietato lo sperimentalismo artistico e letterario e tutti coloro che volevano produrre cultura furono costretti ad entrare in associazioni controllate dallo Stato.

 

Nel frattempo fu rafforzato il ruolo della vigilanza pervasiva delle forze preposte alla sicurezza statale e si moltiplicarono le epurazioni della polizia segreta. Le “purghe”, termine rievocativo delle repressioni violentissime attuate da Stalin negli anni ’30, furono una pratica molto diffusa nei primi anni di assestamento dei nuovi regimi comunisti, per eliminare o ridurre al silenzio gli oppositori politici, le persone socialmente sgradite o i capri espiatori, soddisfacendo la vigilanza richiesta da Stalin.

 

Lo strumento si rivelò molto efficace e fu utilizzato dopo ogni ondata riformatrice per ridurre all’obbedienza attraverso il terrore chi smarriva la via maestra del socialismo. Le purghe ebbero però anche una motivazione economica: fornirono masse di manodopera forzata in un periodo di rapido sviluppo economico e di carenza di lavoratori. Nel giro di pochi mesi tutti i paesi dell’Europa Orientale si riempirono di campi di lavoro funzionali al raggiungimento dei sempre più ambiziosi livelli di produttività fissati dai regimi comunisti.

 

Stalin impose un sistema economico autarchico che non riuscì nel lungo periodo a garantire uno sviluppo economico pari a quello dei paesi dell’Europa Occidentale e fu la causa principale del crollo dei regimi comunisti, incapaci di autoriformarsi dall’interno senza uscire dal sistema socialista.

 

La destalinizzazione e il 1956

 

La morte di Stalin si fece sentire in tutta l’Europa Orientale e favorì il rifiorire dei movimenti liberali repressi duramente negli anni precedenti. Nel febbraio 1956, quando Chruscev tenne il suo rapporto segreto contro Stalin al XX congresso del PCUS, l’inizio della destalinizzazione ufficiale diede nuove speranze agli intellettuali che speravano di riformare il sistema socialista senza metterne in discussione le basi ideologiche.

 

L’intento si rivelò impossibile da realizzare ed ebbe in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968 due casi esemplari di impossibilità del sistema di autoriformarsi con successo in profondità, senza aprirsi all’economia di mercato e al pluralismo culturale. A Budapest, intorno al Circolo Petofi si coagularono le forze liberali del paese che chiedevano più libertà economiche e culturali e man mano si diffusero in tutta la società gruppi di pressione che pretendevano dal regime un serio cambiamento di rotta che allentasse i controlli sui settori produttivi e intellettuali più vivaci.

 

Il Cremlino, per timore che la situazione sfuggisse di mano completamente decise di invadere l’Ungheria e di ristabilire l’ordine. La repressione della rivolta durò solo otto giorni a causa della sproporzione delle forze in campo e il nuovo governo che salì al potere era alle dipendenze dirette di Mosca.

 

Alla base della rivolta ungherese c’era la convinzione che l’attuazione dell’ideologia di una sorta di “terza via” tra capitalismo e socialismo fosse possibile ma, tutto ciò che deviava dall’ortodossia socialista era considerato da Mosca come un precedente pericolosissimo che poteva avere un effetto domino sui suoi paesi satelliti e mettere seriamente a rischio il predominio geopolitico raggiunto con la vittoria nella seconda guerra mondiale.

 

In quegli stessi anni in Polonia si sviluppò una crisi per molti versi analoga a quella ungherese ma i risultati furono profondamente diversi. La fazione staliniana più conservatrice era in minoranza all’interno del partito comunista polacco a differenza di quello ungherese e per questo non riuscì ad opporsi alle timide riforme avviate in quei mesi, come la decollettivizzazione e la libera crescita dei consigli operai. Tuttavia nel giro di un anno l’ala revisionista del partito fu esautorata e restaurato un rigido controllo dello Stato sulle attività economiche e culturali. Comunque l’indipendenza dei contadini e la forza della Chiesa cattolica resero impossibile l’instaurazione piena del socialismo reale come negli altri paesi dell’Europa Orientale.

Un decennio di consolidamento

Il periodo che va dalla seconda metà degli anni ’50 al 1970 fu caratterizzato da un processo di consolidamento del sistema post-staliniano nella sua versione parzialmente riformata e nella diversità crescente all’interno della regione.

 

A cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60 il fatto più rilevante a livello internazionale fu la crisi continua intorno a Berlino che si concluse nel 1961 con la costruzione del muro, che bloccò il flusso migratorio continuo verso l’Occidente.

 

Dopo la repressione della rivolta ungherese i leader sovietici ridussero l’autonomia e lo spazio di manovra di tutti i paesi del blocco comunista. Lo sviluppo economico fu quasi ininterrotto, se si esclude la crisi dei primi anni ’60 ma, fu “drogato” dall’aiuto considerevole dei sovietici che rifornirono continuativamente di sussidi tutti i paesi della regione. L’allentamento della morsa dei controlli dei diversi regimi lasciò un’ampia autonomia dei cittadini nella sfera privata che rese più sopportabile l’assenza di libertà e di democrazia in un periodo storico in cui l’Occidente godeva di ritmi di crescita impetuosi.

 

Le timide, parziali e simboliche riforme avviate tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 vennero presto spazzate via dai leader dei partiti comunisti locali, per paura delle reazioni di Chruscev, prima, e di Breznev, poi. Ma nuovi gruppi di dissidenti stavano crescendo in clandestinità e sarebbero prepotentemente saliti alla ribalta di lì a poco.

 

La “Primavera di Praga”, che scoppiò in Cecoslovacchia nel 1968, rappresentò l’ultima possibilità di riforma del sistema dal suo interno, ma fu stroncata brutalmente da Breznev per il timore che il crollo del sistema socialista cecoslovacco avrebbe prodotto un effetto domino sugli altri paesi dell’area. Dubcek, il leader comunista slovacco che era salito alla guida del partito pochi mesi prima, si illuse che la promozione di riforme liberali in tutti i settori della società attraversati dal malcontento crescente avrebbe prodotto un socialismo più umano senza intaccare il sistema alle sue radici, ma così non fu.

 

La situazione gli sfuggì di mano e le rivolte ispirate dagli intellettuali investirono tutti i settori più vivi nel campo culturale ed economico. L’intervento sovietico fu sollecitato come in Ungheria dodici anni prima, dall’ala conservatrice del partito, che vedeva sottrarsi progressivamente quote di potere man mano che la società cecoslovacca conquistava autonomia politica, economica e intellettuale. La minaccia della “controrivoluzione” fu così scongiurata e nel giro di un anno la “normalizzazione” della situazione fu portata a termine revocando tutte le liberalizzazioni messe in atto da Dubcek l’anno precedente.

 

La repressione della “Primavera di Praga” favorì all’inizio degli anni ’70 la nascita e lo sviluppo di movimenti di protesta completamente nuovi rispetto al passato. Per la prima volta si metteva in discussione la base ideologica del sistema socialista e l’obiettivo che ci si proponeva di conseguire non era più un’autoriforma dall’interno, nella cornice del regime, ma un rovesciamento dell’intero sistema politico sociale ed economico che aveva governato i paesi dell’Europa Orientale per più di quarant’anni. L’obiettivo sarebbe stato raggiunto alla fine degli anni ’80, con la fine della guerra fredda e la conclusione di un intero periodo storico, il “secolo breve”.

 



 

 

 

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