N. 18 - Novembre 2006
IL
RUOLO DELLE DONNE NELLA RESISTENZA
Lotta
partigiana
e
inclusione
nei
partiti
di
Tiziana Bagnato
Negli anni del fascismo e dell’occupazione nazista vi
furono donne che lasciarono i focolari, le gonne, i
rosari, i doveri materni e si unirono alla lotta
partigiana. Quella lotta armata combattuta tra i
boschi e le montagne, ma anche quella lotta fatta di
gesti meno eclatanti, ma altrettanto importanti, ai
quali le donne, nascoste proprio dietro la loro
condizione femminile, potevano dedicarsi
sommessamente.
Il
loro apporto fu massiccio sin dai primi momenti della
lotta partigiana arrivando fino agli ultimi giorni
dell’aprile 1945, con la completa liberazione del
Paese. Non è possibile citare cifre che descrivano
esattamente quante donne aderirono e si sacrificarono
per la Resistenza perché molte di loro, appena
conclusa la lotta, ritornarono in pieno alla loro vita
familiare e di lavoro, scegliendo l’anonimato. Stando
però ai calcoli di esperti militari si può affermare
che le donne che furono impegnate in compiti ausiliari
nella Resistenza italiana non furono meno di un
milione, mentre, secondo le statistiche ufficiali, le
cosiddette ‘partigiane combattenti’ furono circa 35
mila.
Un
dato considerevole, secondo il quale ben il venti per
cento dei combattenti furono donne.
I
ruoli che ricoprirono furono molteplici: dalla
partecipazione alle agitazioni nelle piazze, alla
pericolosa attività di spola nell’Italia allora divisa
in due dalla ‘Linea Gotica’, dal rifocillamento dei
feriti, alla raccolta di armi, munizioni e indumenti
e, infine, alla dura e spesso sanguinosa lotta sulle
montagne.
Inoltre, la Resistenza fu anche il metaforico
crogiuolo che vide nascere tesi di emancipazione
femminile che avrebbero costituito il presupposto per
l’inserimento della donna nella società e
l’ampliamento dei suoi diritti civili, politici e
sociali.
Nel
giugno del ’44 il Comitato nazionale dei Gruppi di
Difesa inviò al Comando di Liberazione nazionale
dell’Alta Italia una relazione sulla costituzione e
sull’opera dei gruppi di Difesa in cui si legge: “All’appello
hanno risposto le donne italiane delle fabbriche e
delle case, delle città e delle campagne riunendosi e
lottando. I Gruppi sono sorti e si sono sviluppati nei
grandi come nei piccoli centri. A Milano nelle
fabbriche si contano ventiquattro Gruppi con circa due
mila aderenti; un ugual numero esiste a Torino e a
Genova. […] Sono sorti gruppi di contadine, di
massaie, nelle case e nelle scuole; la loro azione
viene coordinata dai Comitati femminili di città e di
villaggio, regionali e provinciali, attorno alle
direttive indicate dal Comitato nazionale.”
Atti
di sabotaggio, interruzione delle vie di
comunicazione, aiuto ai partigiani, occupazione dei
depositi alimentari tedeschi, approntamento di squadre
di pronto soccorso furono solo alcuni dei compiti
portati avanti con coraggio e tenacia dalle donne, a
cui bisogna però aggiungere anche la loro attività di
propaganda politica e di informazione. Tra i diversi
fogli clandestini, da loro scritti e distribuiti non
bisogna dimenticare la nascita di molti giornali
femminili in varie regioni.
Tra
le migliaia di manifesti che circolavano all’epoca si
poteva, tra l’altro, leggere . “ Anche noi siamo
scese in campo”, oppure, “
Tutte le donne hanno preso il loro
posto di battaglia”.
Il
31 gennaio 1945 il Consiglio dei ministri emanava il
decreto, poi diventato noto come decreto De Gasperi –
Togliatti, con cui veniva riconosciuto il diritto di
voto alle donne che avessero compiuto il ventunesimo
anno di età al 31 dicembre 1944. Concretamente,
l’iniziativa per il voto alle donne era stata presa
dal Pci e dalla Dc nell’estate del 1944, nonostante i
molti dubbi dettati per il Partito Comunista dalla
paura di un contributo femminile a favore della
conservazione e del mondo politico cattolico.
Tuttavia, a luglio, la segreteria del Pci ordinava di
iniziare la campagna per il conferimento del voto alle
donne e a settembre il consiglio nazionale della Dc
approvava una mozione con cui invocava il voto per le
donne a partire dalla prima consultazione elettorale.
Ben presto anche gli altri partiti avrebbero accolto
questa richiesta.
Nel
gennaio del 1945 si arrivava così all’emanazione del
decreto con il sostanziale accordo di tutte le forze
politiche, salvo le riserve del Partito Liberale.
In realtà il Governo si dimenticò di inserire nel
decreto l’aspetto dell’eleggibilità delle donne che,
infatti, fu aggiunto con una nuova disposizione poco
prima delle elezioni.
L’Italia visse, il primo esperimento di suffragio
femminile il 2 giugno del 1946. Furono chiamati a
votare per l’Assemblea Costituente 13.354.601 uomini e
14.610.845 donne. Contraddicendo chi riteneva che le
donne non avrebbero esercitato il loro nuovo diritto,
a recarsi alle urne furono 12.998.131 contro
11.949.056 elettori. In quella occasione la
percentuale dei votanti raggiunse così l’ 89,1 %.
Ma
se la partecipazione a livello politico delle donne
nasce nel 1945, insieme alla acquisizione dei diritti
politici attivi e passivi, l’adesione della donna alla
politica e il suo intervento all’interno dei partiti è
anteriore.
L’ingresso della donna all’interno dei partiti
avvenne, infatti, con la nascita dei partiti di massa
di cui due sono i principali filoni: quello socialista
e quello cattolico. La differenza tra questi fu che
tra i socialisti le donne entrarono portatevi
prevalentemente dalle lotte sociali ma senza
un’organizzazione propria, mentre, tra i cattolici, le
donne formarono dei gruppi femminili che collaboravano
strettamente con i gruppi maschili ma che avevano
piena autonomia, anche se con coincidenza di
indirizzi. Così quando si ebbe il primo tentativo di
formare un partito di ispirazione cristiana con il
nome di Democrazia Cristiana, vennero fondati alcuni
Fasci democratici cristiani femminili.
Nell’immediato primo dopoguerra fu inserito nel
programma del Partito Popolare Italiano l’obiettivo di
dare il voto alle donne. Non va, inoltre, dimenticato
che nel Consiglio nazionale del partito vi fu fin
dalla sua fondazione, una rappresentante femminile.
In
campo socialista e, dopo la scissione del 1921, in
campo comunista, molte donne parteciparono con il
ruolo di protagoniste alle lotte politiche. A
bloccare questa viva partecipazione quasi sul nascere
fu l’insorgere del partito fascista, l’unico
consentito a partire dal 1926. Ma il fascismo non
relegò le donne in un angolo, anzi, prestò attenzione
a quella forza che sin dall’inizio si rivelava una
poderosa riserva di consensi e cercò di utilizzarla.
Inquadrò, infatti, anche le donne, mise loro la
divisa, le fece oggetto di manifestazioni, diede loro
la tessera del partito.
Quando poi con l’inizio della vita democratica la
donna acquistò, accanto al diritto di voto il diritto
di essere eletta, nei consigli comunali e in quelli
provinciali, nelle assemblee parlamentari, tutti i
partiti accolsero le donne tra i loro iscritti e
furono riservati loro trattamenti diversi da un
partito all’altro.
Il
partito Liberale, ad esempio, non considerava né
iscritti né iscritte in modo diverso, né citava i
problemi femminili come argomento di un particolare
tipo di issue all’interno del partito.
Il
partito Comunista, nella prima carta statuaria del
secondo dopoguerra, parlando della struttura politica
della cellula, all’art.4 affermava: “ Le donne
iscritte al partito possono essere organizzate in
cellule miste o in cellule femminili tanto sul luogo
del lavoro che su quello di abitazione”. Mentre
successivamente lo statuto fu modificato con la
dicitura “solo in casi eccezionali è ammessa la
costituzione di cellule femminili”.
Il
partito Socialista Democratico Italiano prevedeva,
invece, nel suo statuto, in un primo tempo delle
commissioni femminili nella sezione, nella provincia e
negli organi territorialmente più vasti ed era
contemplato un movimento femminile che desse vita a
questi organismi specifici. Successivamente, invece,
non si parlò più di movimento femminile ma solo di
attività femminile che poteva estrinsecarsi attraverso
commissioni provinciali e una commissione nazionale.
Nella Democrazia Cristiana la donna ha sempre avuto,
dalle prime norme statuarie fino allo statuto tuttora
vigente, una posizione tipica, autonoma e privilegiata
nell’assunzione di compiti direttivi del partito a
tutti i livelli. La cosiddetta ‘delegata femminile’
partecipava, infatti, di diritto ai diversi organi
territoriali.
Questo rapido quadro sul ruolo della donna nella
Resistenza e sul suo coinvolgimento nei partiti dà, da
una parte, merito sia al sesso femminile che per i
nostri quadri politici che oltre mezzo secolo fa le
coinvolsero in attività che mal si conciliavano con la
mentalità tradizionale dell’epoca. Allo stesso tempo,
però, un simile spaccato non può che far notare, con
amarezza, quanto poco sia si sia fatto in tutti gli
anni che ci distanziano da allora per proseguire ed
accompagnare con lo stesso ritmo l’inserimento della
donna nella vita politica.
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