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N. 25 - Giugno 2007

LA CULTURA POLITICA ITALIANA NEL ‘900

Intervista a G.F. Lami

di Giulio Viggiani

 

Parla Gian Franco Lami, professore di Filosofia Politica all’Università “La Sapienza” di Roma,  autore di numerosi saggi e libri sul pensiero politico contemporaneo ed in particolare sul filosofo politico tedesco Eric Voegelin.

 

Professor Lami, il predominio della cultura cattolica e comunista su quella liberalsocialista, manifestatosi per tutto il secolo scorso, era già scritto nel DNA della storia politica italiana? E quali sono state le conseguenze di questo predominio sul nostro panorama politico ed economico-sociale?

 

“In realtà è difficile parlare di un blocco unico liberalsocialista, in quanto il mondo liberale e quello socialista non sono mai andati molto d’accordo, e inoltre il tentativo massimo di questa sintesi attuato dal fascismo non è che abbia dato grandi risultati…

 

Secondo me, si è potuto parlare di un liberalsocialismo come del tentativo di confluenza dei diversi liberalismi e dei diversi socialismi, solo alla fine dell’800, sulla scia di un romanticismo già decadente, perché subito dopo entrambi i filoni avrebbero manifestato la loro natura più peculiare e inconciliabile. L’uno sul piano di un individualismo privatistico, l’altro sul piano di una critica del privilegio in generale e a favore di una impostazione che considera centrale il ruolo della società, intesa come composto di individui. Quel tentativo di confluenza esprimeva dunque a suo modo lo stadio di una democratizzazione progressiva e permanente della società stessa. E lo sforzo coinvolse anche il fascismo. Ma, nel percorso coniugante liberalismo e socialismo fallirono perché, mentre furono svuotati gli strumenti di garanzia dell’uno (il liberalismo), l’altro si rifugiò attraverso il nazionalismo in una concezione statalista che stroncò tra mille contraddizioni tutte le sue tensioni ideali.

 

Infatti, il socialismo, che è di per sé riformatore, in quanto tale è pure statalista, nel senso che, per adeguarsi ai mutamenti vertiginosi della società, mette continuamente in discussione i vincoli e i limiti delle leggi vigenti, essendo sempre alla ricerca di una legittimità che deborda permanentemente dalla legalità della legge. D’altronde, ha bisogno dello Stato per far valere la sua volontà riformatrice e per giovarsene. La tutela statale è la sua croce e la sua condanna, ma allo stesso tempo essa è la delizia dell’idea che tenta di liberare l’individuo attraverso il riconoscimento dei meriti di una partecipazione personale alla cosa pubblica. Oggi, senza dubbio, sono ancora i radicali a interpretare al meglio lo spirito di un movimento liberalsocialista, fino a qualificarsi come  gruppo di pressione, sempre all’avanguardia sui temi istituzionali ed economico-sociali. Ma non ci sono più leaders carismatici in grado di formulare programmi validi e di farsi seguire dalla gente.

 

 Tornando al tema principale della sua domanda, certamente la mentalità dell’italiano medio è permeata da secoli di tradizione filosofica cristiana. In questo consiste il vero DNA della nostra storia politica, nel positivo come nel negativo. Il contesto del pensiero cristiano, come ha sottolineato Augusto Del Noce, impedisce, del resto, nella sua naturale evoluzione, che la concezione totalitarista in genere e comunista in specie possa attecchire in profondità nel nostro Paese. Dopo la seconda guerra mondiale, il cristianesimo ha ricevuto man forte da altre circostanze:  dalla reazione alla tirannia del fascismo e dalla ripugnanza per il trasformismo dei fascisti di sinistra confluiti nel PCI con una chiara continuità ideologica anticapitalista. Certamente il progresso comunista, più che dalla retorica revanchista della resistenza, è stato legittimato dal doppio collegamento che ha avvicinato il PCI al PCUS, dalla conferenza di Yalta fino al crollo del muro di Berlino, come mette bene in evidenza Gianni De Michelis nel suo ultimo libro.

 

Dato che uno dei principali artefici della sconfitta del comunismo europeo è stato il pontefice Giovanni Paolo II bisogna perciò andarci cauti nel ritenere la Chiesa cattolica responsabile di aver compromesso la sua dottrina sociale con il marxismo, e lo dico da filosofo che ama fare i conti con i fatti. Dunque, anche alla luce di queste poche considerazioni noi non possiamo definirci, e né potremmo mai essere stati definiti comunisti, neanche in pectore. Al contrario, la nostra tradizione è tradizione di marca cristiana, con accentuate venature di tipo democratico e forti, anzi, fortissime simpatie per l’ideale socialista, più che per quello liberale (alla maniera anglosassone).

 

Per il resto, gli epiteti che i due schieramenti politici si affibbiano pressochè quotidianamente, rientrano nel gioco delle parti, e soprattutto, rispondono al criterio tutto italiano che vede la coesistenza politica come contrasto, come conflittualità, in alcuni casi estrema – vedi il terrorismo – e in altri più temperata.

 

Per concludere la questione del liberalsocialismo, sarebbe davvero straordinario se si riuscissero a conciliare questi due mondi. L’uomo potrebbe realizzare al massimo la sua individualità e la sua capacità creativa in un contesto sociale che, in assenza di condizionamenti eccessivamente rigorosi, gli darebbe forte sicurezza senza farlo sentire parte di un tutto che lo comprende e vorrebbe ordinarlo dalla culla alla tomba”. 

         

Le difficoltà dei riformisti a prevalere nella lotta a sinistra con i massimalisti sembra che,in qualche modo, si riscontrino ancora oggi. Perché, secondo lei, non si riescono a superare questi vecchi contrasti ideologici che impediscono tuttora la formazione di un compatto polo progressista e socialdemocratico di stampo europeo?

  

“I contrasti ideologici, come ho già detto, sono in qualche modo insiti anch’essi nel nostro DNA, e devo aggiungere che purtroppo, molto spesso, sono il prodotto artificioso di chi dal contrasto stesso ha molto da guadagnare. Un caso esemplare è quello della reintroduzione del sistema elettorale maggioritario che, invece di condurre alla formazione di un bipolarismo compiuto, ha prodotto il moltiplicarsi delle fazioni all’interno dei due schieramenti. Ciò fa capire chiaramente che la cultura liberale del nostro Paese ha subito, non so se a causa di una certa distrazione a sinistra, fors’anche procuratale dalla convivenza con il socialismo, il massimo dell’involuzione in senso individualistico e privatistico. Quello strumento che doveva servire al cittadino semplicemente per individuare il rappresentante più adatto alla sua vita politica si è trasformato in una forma di rifiuto della pervasività statale, ma poi del pubblico, della politica e infine dell’esercizio del diritto di voto. La cultura liberale, ridottasi in una sorta di atomismo-atomizzazione delle forze sociali, ha indotto gran parte della comunità a estraniarsi dal gioco elettorale, dopo essersi ritirata anche dai margini dell’arena politica.

 

La ragione vera e autentica della diserzione sempre più generalizzata delle urne non è da ricercarsi tanto nella protesta per il risultato elettorale, quanto nel radicarsi del convincimento progrediente che non ci sia nulla da cambiare, e che, tutto sommato, quello che accade a livello decisionale non ci riguarda più. Comunque, questa è pura cultura liberale, che lo si voglia o meno. Quella cultura che manda in eccellenza il privato sul pubblico”.

  

Per quanto riguarda la destra, come vede il momento critico di Alleanza Nazionale? Sembra che il partito sia sempre alla ricerca di nuovi valori e punti di riferimento, tanto che si ipotizza un suo futuro ingresso nel PPE, ma al contempo rischia di perdere il consenso del suo elettorato tradizionale. Che ne pensa?

  

“ Dunque, devo premettere che ho una grande ammirazione per Alleanza Nazionale e per il suo leader. AN è sicuramente un partito che ha avuto la forza e il coraggio di superare stadi critici che tutti ritenevano difficilmente superabili, sia dagli uomini di partito, sia da coloro che li hanno sostenuti e che tuttora li sostengono. Il loro sforzo è stato sicuramente maggiore e più apprezzabile di quello compiuto dai loro antagonisti, sul lato opposto del panorama politico, e impegnati nell’analogo processo di democratizzazione d’istituzioni e simboli ordinanti. Questo, non perché meno avvezzi, gli uni degli altri, all’abito democratico, ma perché naturalmente più diffidenti nei confronti di chi aveva detenuto il potere per 50 anni e, rispetto al quale si vedevano per la prima volta legittimati anch’essi in una gara di tipo governativo.

 

Quello che ha intenzione di fare Alleanza Nazionale non riesco neppure ad immaginarlo. Secondo me, non ha bisogno di chiedere l’ingresso nel Partito Popolare Europeo e di contribuire a smantellare quindi l’idea di una “destra” europea, perché in sostanza già si identifica con molti valori di quello che è ormai un contenitore politico esclusivamente alternativo alla socialdemocrazia continentale. Intendo dire che può tranquillamente smettere di correre al “centro”, per acquisire maggiore credibilità democratica di quanta ne abbia già.

 

Per quel che riguarda il suo elettorato tradizionale, dubito persino che questa sia una formula in qualche modo accettabile. Se per elettorato tradizionale s’intende il veterofascismo e il neofascismo, credo che An lo abbia perso ormai da tempo, d’altra parte non è un caso che le memorie più radicate del periodo mussoliniano – oggi decisamente in via d’estinzione – abbiano già trovato altri punti di riferimento in movimenti di estrema destra, che si richiamano esplicitamente al periodo della Repubblica Sociale e ai suoi dintorni di eccessi ideologici.

 

Probabilmente Alleanza Nazionale ha oggi un elettorato che si sente molto vicino al settore più  sinistrorso del partito, alla “destra sociale”. Fermo restando che l’altra corrente, quella liberal ha pari legittimità di convivere con la prima, nell’eterno ripetersi di quel tentativo di conciliazione dell’area liberale con quella socialista che contraddistingue ogni ex-missino che si rispetti.

 

Non c’è quindi da stupirsi che Storace e Alemanno battano i pugni sul tavolo per indirizzare diversamente la politica economica del governo, in quanto sono portatori di un’esigenza avvertita come reale dalla base di AN. Io stesso vivo questo momento di Alleanza Nazionale con grande attenzione, e a volte esso mi ricorda tanto i momenti in cui l’allora MSI, con Almirante, si accostava sempre più decisamente a Bettino Craxi. Oggi, probabilmente il partito di Fini e quello di Berlusconi sono anche il prodotto e il prolungamento delle loro intuizioni”.

 

     

Secondo lei, la proposta di legge costituzionale del vicepremier Fini sul diritto di voto amministrativo agli immigrati regolari risponde ad un convincimento profondo dello stesso leader, o è dettata piuttosto dall’esigenza di un definitivo “sdoganamento” internazionale, di una maggiore visibilità, e di un sostanziale riequilibrio del peso politico di Alleanza Nazionale all’interno della maggioranza di governo?           

 

 

“Probabilmente il gioco è cominciato per rispondere alle battutacce di Bossi, che sono però comprensibili considerando il pubblico a cui egli si rivolge. Il leader leghista infatti è esattamente il riflesso di quello che è il suo elettorato e la sua circostanza politica. Il suo atteggiamento sopra le righe è voluto. Se Fini è quel sottile politico che sembra essere, la sua proposta di legge sugli immigrati assume una triplice valenza. E’, per così dire, una carta che egli può giocare su tre tavoli: ostentatamente con la Lega, privatamente e internamente con la sua destra sociale e intelligentemente, dal punto di vista tattico, nei confronti della sinistra alternativa al governo.

 

Certamente anche la stampa estera non aspettava altro e il vicepremier sapeva che la sua mossa avrebbe riscosso grandi elogi anche da chi guarda ancora con diffidenza il suo percorso politico. In questo quadro si inserisce il suo sostegno all’ingresso di Israele nell’Unione Europea, vecchio pallino di politici come Craxi, De Michelis e Pannella. A ogni modo, dato che uno degli obiettivi di questa destra al governo è di allargare la comunità, fino alle estreme propaggini mediorientali – di qui il sostegno ad inserire nel preambolo della Convenzione il riconoscimento delle sue origini giudaico-cristiane – la proposta di legge di Fini è coerente con una certa impostazione che mira ad una futura distensione dei rapporti tra israeliani e palestinesi promuovendo anche il famoso “piano Marshall” per la Palestina.

 

Questa strategia può essere definita senza timori un colonialismo alla rovescia. Si tratta di portare a compimento quello che l’imperialismo di altri tempi aveva iniziato, e gli stessi Stati Uniti d’America stanno facendo con l’Europa dalla fine della seconda guerra mondiale in poi.

In questo senso, secondo me, Fini apre al mondo degli extraeuropei ”.

     

Pochi mesi fa sono iniziate le ricorrenze per il cinquantenario della morte del grande statista Alcide De Gasperi. Oggi, alla luce delle sue grandi scelte e delle sue staordinarie intuizioni, foriere di sviluppo per l’Italia, chi può raccogliere la sua eredità politica? 

 

“Di De Gasperi si può dire davvero che sia stato l’ultimo esempio di statista nel senso più proprio della parola. Non è un caso che su di lui si siano trovati a convergere i benestare di tutte le autorità politiche e spirituali, in un momento in cui la guerra non aveva lasciato niente di intatto, e ritengo quindi che egli appartenga a quel livello di personalità sul quale si può costruire il mito dell’uomo. I miti sono una cosa seria e possono essere pensati, creati e resi durevoli soltanto se c’è una sostanza che sia in grado di sostenerli. Essi si aggregano intorno a una figura e si coprono di una forma che è destinata a lasciare il segno indelebile della sua presenza negli anni a venire. De Gasperi è un mito anche perché del mito conserva proprio tutte le caratteristiche, come un modello da ammirare e imitare per andare avanti nei momenti difficili. Resta il fatto che quello in cui visse era un momento storico particolare e richiedeva quel genere di persone, che oggi, per lo stile schivo e semplice, non avrebbero probabilmente lo stesso successo. Ora viviamo altre esperienze e anche i miti assumono da noi forme e atteggiamenti diversi. Ovviamente continueranno a durare finchè noi ci riconosceremo in quelle forme e in quegli atteggiamenti.

 

E’ indiscutibile che oggi Silvio Berlusconi sia un mito, ma non lo è perchè ha la forza del danaro, delle televisioni, o il sostegno degli imprenditori intorno a lui, lo è perché noi lo vogliamo. E lo vogliamo perché vorremmo essere proprio come lui. Io credo che Berlusconi, a prescindere da come uno la pensi sui suoi atti di governo, potrà sempre contare su milioni di elettori, dal momento che c’è sempre una maggioranza che è disposta a dire: purché lui riesca dove io vorrei riuscire, a me sta bene. In questo momento egli è l’unico che rappresenti l’aspirazione di tutti. Quella di essere un vincente, un uomo di successo. In questo sentimento non c’è nulla di innaturale, e nulla che possa dirsi indipendente dalle nostre scelte effettive e dalla nostra volontà responsabile. Da un lato, fa comodo anche agli avversari politici che certe decisioni indifferibili e ineludibili siano prese da lui perché decisamente impopolari, assumendo il ruolo non facile di “capro espiatorio” della nostra generazione. Dall’altro, egli gode di una popolarità riservata solo ai sovrani di altri tempi.

 

Torniamo però a De Gasperi. Ancora oggi lo si può definire l’artefice principale della nostra miracolosa ripresa economica, quella che trasformò l’Italia da un paese agricolo ad una potenza industriale di caratura mondiale. In questo momento invece è un miracolo se riusciremo a mantenere il livello di competitività internazionale che abbiamo raggiunto nel corso di questi ultimi decenni…”

 



 

 

 

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