N. 16 - Settembre 2006
IL MIGLIOR REGISTA MAI ESISTITO
L’incredibile storia di Colin McKenzie
di
Andrea Laruffa
Colin McKenzie nasce a
Geraldine, Nuova Zelanda, nel 1888. All’età di dodici
anni entra in contatto per la prima volta in vita sua
con un cinematografo itinerante che si era fermato in
città. Folgorato dall’esperienza, quel giorno decide
che il suo futuro sarebbe stato legato a quello di una
macchina da presa. Genio precoce della chimica e della
meccanica, nel 1900 il giovane Colin costruisce la sua
prima rudimentale cinepresa e la colloca sul manubrio
della bicicletta, collegando la manovella alla catena
e pedalando per farla funzionare. Così facendo,
inventa per la prima volta nella storia nella storia
del cinema la carrellata.
Ma questa non sarà
l’unica innovazione che il neoregista apporterà alle
future tecniche di ripresa. Nello stesso periodo,
infatti, è capace di costruirsi da solo la pellicola,
utilizzando foglie di lino e una quantità
indescrivibile di albume d’uovo (nel trafiletto di un
giornale dell’epoca si parla dell’atroce furto di
duemila dozzine di uova in un pollaio di Geraldine. Si
narra che questa vicenda fece infuriare il padre di
Colin, che mise al rogo tutto il materiale
cinematografico del figlio, tranne la cinepresa
prontamente nascosta dalla madre).
McKenzie inoltre
progetta, senza tuttavia mai realizzarlo nel concreto,
un prototipo di cinepresa a motore. Nel 1908 realizza
il suo primo lungometraggio, Warrior’s Season ,
nel quale riesce a creare un sistema di
sincronizzazione tra suono e immagini. Il suo lavoro
però non venne apprezzato, sia perché durava 84
minuti, sia perché tutti i protagonisti erano cinesi e
nessuno capiva cosa dicessero.
Nel 1911, grazie
all’ennesima geniale intuizione, crea un composto che
permette alla pellicola di reagire alle diverse
intensità di luce e di catturarne il colore. Uno degli
ingredienti di tale composto tuttavia poteva essere
reperito solo a Tahiti. Il giovane McKenzie decide di
trasferirsi per un periodo nella splendida isola.
Durante il soggiorno, filma con la sua nuova creazione
i variegati colori delle foreste e dei villaggi, oltre
che svariate donne del posto. Tornato in patria,
convinto di aver fatto la scoperta del secolo, viene
arrestato per aver immortalato donne selvagge a seno
scoperto e quindi condannato per oscenità.
Visto dai suoi
contemporanei come un pazzo visionario e perseguitato
da una serie continua di guai economici, McKenzie
decide di abbandonare il cinema. La sua rinuncia dura
poco, esattamente fino al 1920, quando inizia a
lavorare al più grande e ambizioso progetto della sua
carriera: un kolossal ispirato all’episodio biblico di
Salomè e Giovanni Battista. Impegna nel progetto tutto
il suo patrimonio e le sue energie fisiche per
reclutare oltre 1500 comparse e costruire sulle
sperdute alture della costa occidentale della Nuova
Zelanda un mastodontico set (grande come sette campi
di calcio, si narra) raffigurante Gerusalemme. Il
progetto porta via a Colin più di dieci anni, e viene
ripetutamente interrotto per mancanza di fondi (si
dice il film fosse stato finanziato in un momento dai
russi e da una cosca di mafiosi).
Nel 1911 terminano
finalmente le riprese, ma il prezzo da pagare per
McKenzie è troppo alto: May Bell, l’attrice che
interpretava Salomè e che il regista aveva sposato
cinque anni prima, muore durante l’ultimo ciak, troppo
provata dagli sforzi a cui era stata sottoposta
durante le riprese. Moralmente distrutto,
economicamente prosciugato e perseguitato dai
creditori, McKenzie decide di abbandonare la sua
città-set, di seppellire i rulli di Salomè e di
fuggire ad Algeri. Prende successivamente parte alla
Guerra Civile Spagnola in qualità di cineoperatore, ma
durante una battaglia, nel 1937, perde tragicamente la
vita.
Cinquantasette anni più
tardi, esattamente nel 1994, il noto regista
neozelandese Peter Jackson (maestro del genere
splatter capace di stregare Hollywood con la versione
cinematografica de Il Signore degli Anelli di
Tolkien), entra in possesso di alcune pellicole che
una tale Hanna McKenzie, vicina di casa della madre,
dice di aver trovato in una dimenticata soffitta del
suo defunto marito. Visionandole, Jackson e il suo
amico Costa Bates si rendono conto di trovarsi di
fronte a qualcosa di sbalorditivo. Decidono di
ricostruire, insieme alla donna, la vita di Colin
McKenzie. Si lanciano in una vera e propria spedizione
nella foresta vergine neozelandese alla ricerca della
famigerata “città perduta”. Ne esce fuori un
documentario dal titolo Forgotten Silver, nel
quale viene mostrato il viaggio di Jackson, la
scoperta dei resti del set perduto e il ritrovamento
delle pellicole di Salomè, ancora
miracolosamente intatte. Affidato lo stesso anno alla
New Zeland Film Commission, il film di McKenzie viene
montato (ben settant’anni dopo la sua realizzazione!)
e proiettato nelle sale cinematografiche: è il
biglietto da visita che permette a Colin McKenzie di
entrare a pieno titolo nell’Olimpo dei primi grandi
maestri del cinema, quali i fratelli Lumière, Meliès e
Griffith.
Nel 1995 il documentario
di Jackson e Bates và in onda sulla televisione
neozelandese, destabilizzando l’intero paese, che si
trovava improvvisamente ad essere la patria della
nascita del cinema. Il lavoro di Jackson, infatti,
rappresentava un documento di straordinaria
importanza, capace di spodestare dagli archivi
storiografici i già citati fratelli Lumière e di
costringere a riconsiderare le posizioni di rilievo
occupate dai primi cineasti quali Orson Welles e David
Griffith. Un documento che riempiva di orgoglio una
nazione nota ai più per gli splendidi scenari dei
paesaggi naturali che ospita, e un po’ meno per il
contributo apportato all’industria culturale moderna.
Ma se chi legge non sa
niente di questo leggendario personaggio, un motivo
c’è: Colin McKenzie nella realtà non è mai esistito e
Forgotten Silver altro non è che una colossale
bufala. O, se si preferisce, un astuto e
raffinatissimo gioco sospeso tra il meta-cinema e lo
scherzo alla Orson Welles. Per i cinefili, un
irriverente strizzata d’occhio, una riflessione
sull’archeologia del cinema che non c’è mai stato. Per
i “profani”, un racconto romanzato spacciato per
verità storica e documentato con diversi spezzoni
d’epoca (alcuni “reali”, altri abilmente ricostruiti
in studio dal duo Jackson-Bates). Forgotten Silver
è un racconto appassionante che si finge cronaca,
percorso da invenzioni strabilianti e personaggi
bislacchi (Brook, il fratello di Colin, morto durante
la prima guerra mondiale; Richard Pierce, l’uomo che
volò otto mesi prima dei fratelli Wright; Stan Wilson,
l’inventore della candid camera; Rex Solomon, un
venditore di bibbie diventato poi produttore
cinematografico). Un film che diverte, stupisce,
appassiona e commuove. In poche parole: una geniale
farsa con la quale Peter Jackson ha voluto festeggiare
il centenario del cinema.
Sono parecchi i motivi
che hanno permesso al documentario di ingannare così
tante persone. Innanzitutto l’uso di interviste con
attori, produttori e critici “reali” del mondo di
Hollywood quali Harvey Weinstein, Leonard Martin a Sam
Neil, che sono intervenuti nel documentario
commentando spassionatamente l’importanza di McKenzie
nella storia del cinema, ha garantito la necessaria
attendibilità al documento; una sorta di marchio di
garanzia dato dalla notorietà degli intervistati,
complici del gioco di Jackson. In secondo luogo, le
tecniche utilizzate dai due registi per dare un senso
di realtà al loro lavoro sono semplicemente
impeccabili dal punto di vista formale. Bates e
Jackson sono stati infatti capaci di ricreare con
straordinaria verosimiglianza l’aspetto delle
pellicole datate. Grazie alla loro conoscenza
cinematografica, hanno fedelmente imitato lo stile dei
primi film muti e riprodotto accuratamente la forma
documentaristica così come la conosciamo. Infine, gli
attori che hanno preso la parte dei protagonisti della
storia erano tutti sconosciuti ma allo stesso tempo
bravissimi nell’interpretare il proprio ruolo.
L’eco che questo falso
documentario creò in Nuova Zelanda rese la beffa
ancora più efficace. I neozelandesi, infatti, non
digerirono la presa in giro e accusarono la New Zeland
Film Commision di sperperare i fondi pubblici per
“soddisfare i capricci di un sintetico intellettuale
come Peter Jackson”. Furono numerose anche le lettere
di protesta che arrivarono all’emittente televisiva.
La beffa aveva finalmente raggiunto il suo scopo:
Jackson e Bates, come da loro intenzione, erano
riusciti a creare dal nulla “il miglior regista mai
esistito”. |