La storia del nostro
Risorgimento è stata segnata dalla contrapposizione
e l’incontro di due movimenti: il
monarchico-moderato proposto dal Regno di Sardegna e
il democratico-repubblicano ispirato da Mazzini. Se
al primo siamo debitori per le notevoli capacità
diplomatiche, non possiamo dimenticare il secondo
per la tensione morale e la funzione di stimolo
svolta.
Carlo Pisacane: la
vita e gli ideali (1818-1857)
Il patriota
napoletano, dopo gli studi al collegio militare
della Nunziatella, prestò per qualche tempo servizio
nell’esercito borbonico. Idealista e visionario,
mostrò presto insofferenza agli ambienti militari,
tanto che a 30 anni abbandonò Napoli e la carriera
per trasferirsi con la sua amata Enrichetta De
Lorenzo- donna sposata con un uomo anziano e madre
di tre figli- in Inghilterra e poi in Francia.
Arruolatosi nella Legione Straniera francese, alla
notizia dello scoppio della prima guerra
d’indipendenza (1848) tornò in Italia per combattere
contro gli austriaci in Lombardia. Nel 1849 fu
membro della Commissione di guerra e capo di Stato
maggiore nella Repubblica romana, alla cui caduta
prese la via dell’esilio.
Nel 1851 analizzò il
fallimento dei moti nello scritto “Guerra
combattuta in Italia negli anni 1848-‘49”, in
cui criticò la monarchia sabauda ed evidenziò la
necessità di coinvolgere la popolazione nella lotta,
in modo da far coincidere l’unità e l’indipendenza
con l’emancipazione delle masse. Tra il 1851 e il
1856 redasse i “Saggi storici, politici, militari
sull’Italia”, pubblicati postumi, dove teorizzò
il suo socialismo libertario e utopistico permeato
dagli ideali proudhoniani.
La società ideale di Pisacane prevedeva l’abolizione della proprietà,
causa dello sfruttamento e della miseria, ed una
libera associazione d’individui in comuni, a loro
volta liberamente associati in una nazione fondata
sulla sovranità popolare. Per il patriota
napoletano, il progresso industriale dell’epoca
moderna aveva causato un concentramento della
ricchezza nelle mani di pochi, aggravando la miseria
delle masse. La libertà sarebbe rimasta quindi
un’utopia senza l’effettiva uguaglianza politica e
sociale dei cittadini: “…La libertà senza
l’uguaglianza non esiste, e questa e quella sono
condizioni indispensabili alla nazionalità, che a
sua volta le contiene, come il sole la luce e il
calorico”. Teorico della rivoluzione nazionale,
sociale e popolare, Pisacane sosteneva che le masse
dovevano essere educate tramite l’azione, che
equivaleva alla lotta per soddisfare gli interessi
materiali.
I fermenti del
meridione e i progetti insurrezionali
La preparazione di
moti insurrezionali e la volontà di superare
l’attesismo e le trattative diplomatiche del
Piemonte di Cavour, portarono alla riconciliazione
di due patrioti, fino al momento piuttosto distanti
ideologicamente, come Pisacane e Mazzini. Il primo,
forse influenzato dalle teorie di Louis Auguste
Blanqui, rivide la sua precedente convinzione di una
rivoluzione come frutto dell’impegno generale dei
movimenti democratici, contraria al ricorso ai
complotti e alle insurrezioni di carattere
mazziniano.
Gli anni ’50 del 1800
furono particolarmente critici per il movimento
democratico il quale, pur rinnovando la sua volontà
di lotta, era stato frustrato da vari insuccessi tra
i quali la congiura di Mantova, conclusasi con nove
condanne capitali, e l’insurrezione di Milano del
1853, che portò al sequestro dei beni degli esuli in
Piemonte da parte del governo austriaco.
Molti
repubblicani e mazziniani avevano abbandonato il
“maestro” per avvicinarsi alla politica moderata di
Cavour, tanto che nel 1857 anche Manin, La Farina e
Garibaldi si raccolsero nella Società Nazionale, che
si prefiggeva come programma l’unità italiana sotto
la monarchia dei Savoia, al motto “Italia e Vittorio
Emanuele”.
Alcuni fatti
sembrarono convincere i democratici sulla
possibilità di guidare un’insurrezione popolare nel
meridione: i moti scoppiati nel Cilento, le rivolte
all’assolutismo borbonico in Sicilia e l’attentato
compiuto da un soldato calabrese, Agesilao Milano,
contro Ferdinando II di Borbone (l’attentatore fu
impiccato il 13 dicembre 1856 a Napoli).
In seguito alle forti
sollecitazioni del Pisacane, Mazzini iniziò a
progettare una spedizione armata a sud di Napoli,
collegandosi coi gruppi clandestini democratici
presenti nella città partenopea, nel salernitano e
nel cilento, convinto che una rivolta al sud avrebbe
incontrato maggiori possibilità di successo se
contemporaneamente si fossero sollevate due città
quali Genova e Livorno.
Il testamento politico
Pisacane si dedicò anima e corpo alla
preparazione del moto insurrezionale, allacciando i
contatti con altri patrioti meridionali-citiamo tra
gli altri Nicola Fabrizi, Giuseppe Fanelli, Giovanni
Nicotera e Giovan Battista Falcone- e confidando
nelle possibilità di successo, tanto che era solito
dire: “L’Italia trionferà
quando il contadino cambierà spontaneamente la marra
con il fucile”...
Poco prima di avventurarsi nella
spedizione, il patriota napoletano consegnò il suo
Testamento politico alla giornalista inglese Jesse
White, un testo suggestivo, profondamente umano e
venato da un certo pessimismo, in cui Pisacane
ribadì i principi politici professati nel corso di
tutta la sua esistenza: “…Io
credo al socialismo, ma ad un socialismo diverso dai
sistemi francesi, tutti più o meno fondati sull’idea
monarchica e dispotica, che prevale nella nazione.
(…) Il socialismo di cui parlo può definirsi in
queste due parole-libertà e associazione”.
L’autore del Testamento dichiarò
esplicitamente il suo disdegno per il moderatismo e
il programma minimo della monarchia sabauda,
reclamando la necessità di procedere all’azione: “…Io
sono convinto che l’Italia sarà grande per la
libertà o sarà schiava. (…) Per quanto mi riguarda,
io non farei il più piccolo sacrificio per cambiare
un ministero e per ottenere una costituzione,
neppure per scacciare gli austriaci dalla Lombardia
e riunire questa provincia al Regno di Sardegna. Per
mio avviso la dominazione della casa di Savoia e la
dominazione della casa d’Austria sono precisamente
la stessa cosa. (…) Io credo fermamente che se il
Piemonte fosse stato governato nello stesso modo che
lo furono gli altri Stati italiani, la rivoluzione
d’Italia sarebbe a quest’ora compiuta. (…) Le idee
nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il
popolo non sarà libero perchè istrutto, ma sarà ben
tosto istrutto quando sarà libero. La sola cosa che
può fare un cittadino per essere utile al suo paese,
è di attendere pazientemente il giorno in cui potrà
cooperare ad una rivoluzione materiale-le
cospirazioni, i complotti, i tentativi
d’insurrezione sono, secondo me, la serie dei fatti
per mezzo dei quali l’Italia s’incammina verso il
suo scopo, l’unità. L’intervento della baionetta di
Milano ha prodotto una propaganda molto più efficace
che mille volumi scritti dai dottrinari”.
Con parole tristemente profetiche,
Pisacane motivò la sua scelta d’azione nel sud,
professando la vocazione al sacrificio del
rivoluzionario, la sottomissione dell’egoismo
individuale all’utile collettivo, portata fino alle
estreme conseguenze: “…Io
sono convinto che nel mezzogiorno dell’Italia la
rivoluzione morale esiste; che un impulso energico
può spingere la popolazione a tentare un movimento
decisivo, ed è perciò che i miei sforzi si sono
diretti al compimento di una cospirazione che deve
dare quell’impulso. Se giungo sul luogo dello
sbarco, che sarà Sapri, nel principato citeriore, io
crederò aver ottenuto un grande successo personale,
dovessi pure lasciare la vita sul palco. Semplice
individuo, quantunque sia sostenuto da un numero
assai grande di uomini generosi, io non posso che
ciò fare, e lo faccio. Il resto dipende dal paese, e
non da me. Io non ho che la mia vita da sacrificare
per quello scopo ed in questo sacrificio non esito
punto”.
Una
volontà inflessibile e un grande coraggio animarono
questo affascinante personaggio sorretto dalla forza
degli ideali, un uomo deciso a sfidare il destino,
non per mania di protagonismo, ma per mutare le
sorti di un paese in preda alla decadenza. Un
ingenuo, un testardo, un perdente? Forse, ma anche
uno dannatamente coerente: “Io
sono persuaso che se l’impresa riesce, otterrò gli
applausi generali; se soccombo, il pubblico mi
trascinerà. Sarò detto pazzo, ambizioso, turbolento,
e quelli che nulla mai facendo passano la vita nel
criticare gli altri, esamineranno minuziosamente il
tentativo, metteranno a scoperto i miei errori, mi
accuseranno di non esser riuscito per mancanza di
spirito, di cuore e di energia…Tutti questi
detrattori, lo sappiano bene, io li considero non
solo incapaci di fare ciò che si è da me tentato, ma
anche di concepirne l’idea. A quelli che diranno che
l’impresa era d’impossibile riuscita io rispondo che
se prima di combinare di tali imprese si dovesse
ottenerne l’approvazione del mondo bisognerebbe
rinunziarvi. (…) Tutti i dolori e tutte le miserie
d’Italia combattono con me (…). Tutta la mia
ricompensa la troverò nel fondo della mia coscienza,
e nell’animo dei cari e generosi amici, che mi hanno
prestato il loro concorso, e che hanno diviso i miei
palpiti e le mie speranze. Che se il nostro
sacrificio non porterà nulla di buono all’Italia,
sarà per essa almeno una gloria l’aver generato
figli, che volenterosi s’immolarono pel suo
avvenire”.
Il fallimento della
spedizione di Sapri (25 giugno 1857)
Le premesse per
l’efficacia del moto insurrezionale non erano molto
positive, il movimento democratico viveva infatti
una situazione di grande difficoltà e gli oppositori
politici erano esuli o languivano nelle tristemente
famose carceri di Santo Stefano e della Favignana.
Lo stesso Pisacane andò personalmente a tastare il
terreno prima della partenza, in cerca di armi e
aderenti, rimanendo fortemente deluso (il 13 giugno
scrisse al patriota siciliano Rosolino Pilo che le
speranze erano debolissime) senza per questo
desistere dai suoi propositi. Come meta della
spedizione fu scelto l’estremo lembo del Cilento, il
più arretrato dal punto di vista economico e
politico per la forte oppressione borbonica, nella
speranza che le masse contadine si sarebbero destate
al grido di rivolta. La realtà era invece ben
diversa.
Il 25 giugno 1857 Pisacane s’imbarcò
a Genova sul piroscafo Cagliari diretto a
Tunisi; ad accompagnarlo c’erano 24 patrioti.
Impossessatisi della nave e di un carico di fucili e
munizioni presenti a bordo, e dopo aver mancato
l’incrocio con altre barche che dovevano fornirli di
altre armi, i patrioti fecero rotta verso l’isola di
Ponza allo scopo di liberare i detenuti politici
presenti nel carcere borbonico. L’azione fu condotta
velocemente in quanto la guarnigione si arrese senza
reagire; Pisacane e i suoi requisirono altre armi e
liberarono 323 detenuti, gran parte dei quali
delinquenti comuni poco interessati alla spedizione,
solo una trentina erano infatti gli oppositori
politici. Il piroscafo dei “trecento” giunse a Sapri
solo la sera del 28 giugno, quando le autorità di
Gaeta erano già state avvertite dei fatti di Ponza.
Lo sbarco causò grande confusione fra le autorità
locali, fino a quando prese in mano la situazione il
giudice regio di Sanza, Vincenzo Leoncavallo.
Pisacane e i suoi, contrariamente alle previsioni,
si trovarono di fronte non masse esultanti pronte a
seguire la rivolta, ma una popolazione ignara che
credette alle prime versioni dei fatti astutamente
fornite dalle autorità borboniche, ossia la presenza
di una banda di ergastolani senza scrupoli e
briganti nemici di Dio, pronti a rubare, violentare
le donne e distruggere ogni bene, dai quali
bisognava assolutamente difendersi. La situazione
volse al peggio: la subdola propaganda, i mancati
collegamenti coi democratici meridionali e l’assenza
nella zona di molti braccianti, in passato molto
attivi nella lotta contro le usurpazioni di terre
demaniali, ma in quel periodo emigrati per il
raccolto, furono fattori che permisero all’esercito
borbonico di sopraffare in breve la rivolta.
Il
grido “Viva l’Italia, Viva la Repubblica” lanciato
dai patrioti non riuscì a fare proseliti. Pisacane
decise di puntare su Padula dove il 1° luglio vi fu
un primo scontro con le guardie e i soldati di
stanza presenti nel luogo; più di 50 patrioti
rimasero uccisi, mentre gli altri decisero di
ripiegare su Sanza, luogo in cui finirono
accerchiati dalle masse inferocite armate di forconi
e ogni genere di arma, che aiutarono i soldati
borbonici nella repressione. Molti patrioti furono
massacrati senza reagire di fronte all’aggressione
di quelli che credevano avrebbero combattuto dalla
loro parte; Pisacane, inorridito dalla situazione
paradossale e ormai consapevole della sconfitta,
compì il gesto estremo rivoltando la pistola su se
stesso, imitato dal patriota Falcone.
Il suo sogno
di una trascinante insurrezione contadina che
sarebbe giunta fino alla liberazione di Napoli,
svanì miseramente nel sangue versato dai
patrioti. Scriveva il Giornale ufficiale del
Regno delle Due Sicilie: “…Pisacane,
Nicotera e Falcone con alquanti di loro fuggirono
verso Sanza; ma furono assaliti la mattina dopo
dagli abitanti di vari paesi, che non volevano
saperne della loro pretesa libertà, dopo qualche ora
di combattimento, ventisette di loro caddero sul
campo, mentre ventinove venivano arrestati. Pisacane
e Falcone morti; Nicotera prigioniero. Molti altri
individui furono arrestati successivamente, e la
Corte criminale di Salerno ebbe a procedere contro
284 rei di lesa maestà. Ai 19 di luglio, 7 ne
condannava a morte, 30 all’ergastolo, 2 a trent’anni
di ferri, 52 a venticinque anni, 137 a pene minori;
56 vennero rilasciati in libertà provvisoria. Dei
sette condannati a morte, il “crudele” Re Ferdinando
commutò a tutti la pena”.
Alla sconfitta di Pisacane si unirono
i fallimenti dei moti mazziniani di Genova e
Livorno; il movimento democratico segnava il passo,
Cavour e la sua via diplomatica e moderata
sembravano ormai l’unica speranza per raggiungere
l’agognata indipendenza e unità italiana. Mazzini
continuò però a difendere strenuamente i suoi metodi
di lotta dalle critiche che piovvero da gran parte
della democrazia italiana ed europea; celebre il suo
articolo “Sovra ogni cosa preparare l’azione”
: “Ogni rivoluzione
nazionale fu e sarà sempre preceduta da una serie di
tentativi falliti, di sommosse represse; gli animi
s’educano, su quella via provata inevitabile dalla
storia, alle virtù della lotta, s’affratellano nei
patimenti comuni, si purificano a poco a poco nel
sagrifizio delle colpe e dell’egoismo inseparabili
da ogni servaggio. Nessuno sa il numero dei
tentativi che precederanno la vittoria; ma la storia
c’insegna che quel numero si fa minore in ragione
della loro energia e della loro frequenza. Quando la
protesta è continua, Dio e i popoli decretano la
vittoria”.
La triste vicenda del Pisacane resta
ancora oggi immortalata nei delicati e semplici
versi de “La spigolatrice di Sapri” del poeta
patriottico Luigi Mercantini: “…Eran
trecento e non vollero fuggire, parean tre mila e
vollero morire; ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a loro correa sangue il piano: fin che
pugna vid’io per lor pregai, ma un tratto venni men,
né più guardai: io non vedea più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro. Eran
trecento, eran giovani e forti, e sono morti!”.