Arsenij Borisovic Roginskij
ha incontrato il 16 ottobre gli studenti della
Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli
studi Roma Tre.
Lo storico russo è stato tra i fondatori dell’associazione
Memorial, nata negli anni 1988-1989 in
ricordo delle vittime dello stalinismo e di cui è
dal 1998 direttore.
A. Roginskij ha voluto raccontare agli studenti raccolti
nell’aula magna della Facoltà l’orrore e la paura
che i Russi hanno vissuto durante il periodo del
cosiddetto “Grande Terrore”,che in Russia è
indicato con il termine Ežovščina, era di
Ežov e che ha rappresentato uno dei momenti più bui
della storia russa tra il 1936 e il 1938.
In quegli anni Nikolaj Ivanovič Ežov
(Николай́ Ива́нович Ежов) era a capo del NKVD,
il Ministero dell’Interno sovietico (in russo
НКВД, Народный комиссариат внутренних дел;
Commissariato del Popolo per gli Affari Interni);
egli fu un fedele di Stalin e l’ideologo
dell’eliminazione degli oppositori politici,
considerati “nemici del popolo”.
Lo storico russo ha usato una metafora per descrivere la
storia del suo paese; ha detto che in certi periodi
i Russi hanno assistito a forme acute e violente di
repressione, definite da A Roginskij “cannibaliche”,
come quelle del Grande Terrore, e altre “vegetariane”,
come la destalinizzazione che ha seguito il XX
Congresso del PCUS.
Se è vero che lo storico deve lavorare con la stessa
precisione e con lo stesso distacco di un chirurgo,
il direttore di Memorial ha confessato agli studenti
che è riuscito a capire la tragedia di più di dodici
milioni e mezzo di morti solo nell’isolamento della
sua cella quando, nel 1981, fu condannato a quattro
anni di lager.
Tra il 1937 e il 1938 furono arrestate circa 1.725.000
persone, di cui 720.000 furono condannate a morte.
I capi d’accusa erano inventati, si trattava di accuse
formali, che i condannati finivano per firmare a
causa dei massacranti interrogatori a cui erano
sottoposti.
Gli imputati riconoscevano colpe non commesse; subivano
percosse e minacce, erano costretti a stare intere
giornate senza potersi sedere.
Erano sottoposti a interrogatori massacranti, fatti di
domande formulate a raffica per ore e ore, ripetute
giorno dopo giorno, fino al cedimento.
Ogni volta che un accusato crollava a terra era picchiato a
sangue e costretto a rimettersi in piedi per ore,
per giorni, fino a che non capitolava e si
dichiarava colpevole di reati mai commessi.
Le vittime prescelte da Stalin e dalla sua
nomenklatura erano i politici della vecchia
guardia bolschevica (100.000 membri del partito
comunista furono condannati), altri 1.600.000 erano
persone comuni: operai e contadini.
Tra i politici, ha ricordato A. Roginskij, che fu
dichiarata colpevole durante gli anni delle
persecuzioni staliniane, la metà dei membri di
governo, nonché la metà del membri del
politburo e migliaia di funzionari di
partito a livello locale.
Secondo la storico russo l’effetto 1937 fu quello di una
palla di neve che, rotolando giù per il pendio,
divenne sempre più grande e sempre più minacciosa,
fino a formare una valanga difficile da arginare.
Negli anni successivi il terrore in Russia fu sempre
pianificato e controllato.
L’operazione delle deportazioni e degli arresti di massa fu
autorizzata dal politburo il 31 luglio del
1937 e nessuna categoria fu risparmiata: politici,
religiosi, artisti, contadini, operai, stranieri.
Le persecuzioni avvenivano sia a livello nazionale che
regionale; tra i responsabili locali del
procedimento A. Roginskij ha ricordato le
trojke, organi speciali di condanna formati
da un presidente, da un giudice e da un segretario.
Le trojke condannavano i sospetti senza neanche
mettere in scena un processo, si era condannati in
contumacia e immediatamente spediti nel lager.
Le “operazioni nazionali”, invece, erano riservate
ai “traditori della patria” e agli “spioni”; molti
dei perseguitati provenivano dalle comunità di
stranieri al confine dell’Unione sovietica.
Nei documenti rinvenuti dopo l’apertura degli archivi nel
1992 gli studiosi hanno trovato i capi d’accusa di
340.000 persone, di cui 240.000 furono fucilate.
Nelle schede personale degli accusati erano indicati solo
il nome, il cognome, l’anno di nascita, la
professione e l’accusa.
Il 51-52% degli accusati a livello locale fu fucilato, a
fronte del 70-75% a livello nazionale.
Dopo il XX Congresso del PCUS Nikita Chruscëv (Ники́та
Серге́евич Хрущёв) ha reso
pubbliche 383 liste custodite nell’archivio
personale di Stalin, a sua firma, per condanne a
morte.
Delle 40.000 persone sottoposte a processo presso il
Tribunale supremo del Collegio militare il 90% fu
fucilato.
Quanti ricordano nella Russia di oggi le stragi del Grande
Terrore?
A. Roginskij nasconde una piega all’angolo della bocca,
nasconde il dolore della perdita del padre quando
era solo un bambino e la rabbia di vedersi
recapitare a casa un documento che certificava la
morte del padre con una data precedente
all’effettiva morte.
Gli anni duri del lager e la coscienza lo hanno
portato a diventare uno storico: è la professione
che ha scelto A. Roginskij e non il contrario; anche
se ricorda che i più bel periodo della sua vita è
stato quello da insegnante di scuola, tra i ragazzi.
Lo storico russo descrive con disappunto la Russia di oggi,
adulatrice del culto di Stalin come mito di ordine e
grandezza, quel mito che Putin sta usando
astutamente, a fini demagogici, per ricreare dalle
ceneri dell’Unione sovietica e dalla Realpolitik
di Stalin una cultura nazionalpopolare che sia il
sostrato per il mantenimento del suo potere.
I Russi hanno nascosto nella periferia del cervello il
ricordo del dolore, la memoria del terrore, di
quando si fucilava alle spalle con un colpo alla
nuca.
I parenti delle vittime ancora oggi non riescono a nominare
gli autori delle persecuzioni, dicono “loro”, oppure
“quando hanno portato mio padre là” invece di “gli
agenti della Cheka”, poi del KGB, o “lager”.
Questa è la filosofia del silenzio che professano i Russi
di oggi; il silenzio di uno Stato che difende i suoi
criminali di ieri e di oggi.
Alla mia domanda, perché la testimonianza di quel terrore a
nulla serve nei confronti del terrore adesso nel
Caucaso, A. Roginskij ha risposto sconfortato che
gli studiosi russi hanno fallito, ancora una volta,
nel tentativo di fare della storia una coscienza
civile.