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N. 30 - Novembre 2007

arsenij roginskij RACCONTA IL GULAG

Il silenzio della memoria

di Leila Tavi

 

Arsenij Borisovic Roginskij ha incontrato il 16 ottobre gli studenti della Facoltà di Scienze politiche dell’Università degli studi Roma Tre.

 

Lo storico russo è stato tra i fondatori dell’associazione Memorial, nata negli anni 1988-1989 in ricordo delle vittime dello stalinismo e di cui è dal 1998 direttore.

 

A. Roginskij ha voluto raccontare agli studenti raccolti nell’aula magna della Facoltà l’orrore e la paura che i Russi hanno vissuto durante il periodo del cosiddetto “Grande Terrore”,che in Russia è indicato con il termine Ežovščina, era di Ežov e che ha rappresentato uno dei momenti più bui della storia russa tra il 1936 e il 1938.

 

In quegli anni Nikolaj Ivanovič Ežov (Николай́ Ива́нович Ежов) era a capo del NKVD, il Ministero dell’Interno sovietico (in russo НКВД, Народный комиссариат внутренних дел; Commissariato del Popolo per gli Affari Interni); egli fu un fedele di Stalin e l’ideologo dell’eliminazione degli oppositori politici, considerati “nemici del popolo”.

 

Lo storico russo ha usato una metafora per descrivere la storia del suo paese; ha detto che in certi periodi i Russi hanno assistito a forme acute e violente di repressione, definite da A Roginskij “cannibaliche”, come quelle del Grande Terrore, e altre “vegetariane”, come la destalinizzazione che ha seguito il XX Congresso del PCUS.

 

Se è vero che lo storico deve lavorare con la stessa precisione e con lo stesso distacco di un chirurgo, il direttore di Memorial ha confessato agli studenti che è riuscito a capire la tragedia di più di dodici milioni e mezzo di morti solo nell’isolamento della sua cella quando, nel 1981, fu condannato a quattro anni di lager.

 

Tra il 1937 e il 1938 furono arrestate circa 1.725.000 persone, di cui 720.000 furono condannate a morte.

 

I capi d’accusa erano inventati, si trattava di accuse formali, che i condannati finivano per firmare a causa dei massacranti interrogatori a cui erano sottoposti.

 

Gli imputati riconoscevano colpe non commesse; subivano percosse e minacce, erano costretti a stare intere giornate senza potersi sedere.

 

Erano sottoposti a interrogatori massacranti, fatti di domande formulate a raffica per ore e ore, ripetute giorno dopo giorno, fino al cedimento.

 

Ogni volta che un accusato crollava a terra era picchiato a sangue e costretto a rimettersi in piedi per ore, per giorni, fino a che non capitolava e si dichiarava colpevole di reati mai commessi.

 

Le vittime prescelte da Stalin e dalla sua nomenklatura erano i politici della vecchia guardia bolschevica (100.000 membri del partito comunista furono condannati), altri 1.600.000 erano persone comuni: operai e contadini.

 

Tra i politici, ha ricordato A. Roginskij, che fu dichiarata colpevole durante gli anni delle persecuzioni staliniane, la metà dei membri di governo, nonché la metà del membri del politburo e migliaia di funzionari di partito a livello locale.

 

Secondo la storico russo l’effetto 1937 fu quello di una palla di neve che, rotolando giù per il pendio, divenne sempre più grande e sempre più minacciosa, fino a formare una valanga difficile da arginare.

 

Negli anni successivi il terrore in Russia fu sempre pianificato e controllato.

 

L’operazione delle deportazioni e degli arresti di massa fu autorizzata dal politburo il 31 luglio del 1937 e nessuna categoria fu risparmiata: politici, religiosi, artisti, contadini, operai, stranieri.

 

Le persecuzioni avvenivano sia a livello nazionale che regionale; tra i responsabili locali del procedimento A. Roginskij ha ricordato le trojke, organi speciali di condanna formati da un presidente, da un giudice e da un segretario.

 

Le trojke condannavano i sospetti senza neanche mettere in scena un processo, si era condannati in contumacia e immediatamente spediti nel lager.

 

Le “operazioni nazionali”, invece, erano riservate ai “traditori della patria” e agli “spioni”; molti dei perseguitati provenivano dalle comunità di stranieri al confine dell’Unione sovietica.

 

Nei documenti rinvenuti dopo l’apertura degli archivi nel 1992 gli studiosi hanno trovato i capi d’accusa di 340.000 persone, di cui 240.000 furono fucilate.

 

Nelle schede personale degli accusati erano indicati solo il nome, il cognome, l’anno di nascita, la professione e l’accusa.

 

Il 51-52% degli accusati a livello locale fu fucilato, a fronte del 70-75% a livello nazionale.

 

Dopo il XX Congresso del PCUS Nikita Chruscëv (Ники́та Серге́евич Хрущёв) ha reso pubbliche 383 liste custodite nell’archivio personale di Stalin, a sua firma, per condanne a morte.

 

Delle 40.000 persone sottoposte a processo presso il Tribunale supremo del Collegio militare il 90% fu fucilato.

 

Quanti ricordano nella Russia di oggi le stragi del Grande Terrore?

 

A. Roginskij nasconde una piega all’angolo della bocca, nasconde il dolore della perdita del padre quando era solo un bambino e la rabbia di vedersi recapitare a casa un documento che certificava la morte del padre con una data precedente all’effettiva morte.

 

Gli anni duri del lager e la coscienza lo hanno portato a diventare uno storico: è la professione che ha scelto A. Roginskij e non il contrario; anche se ricorda che i più bel periodo della sua vita è stato quello da insegnante di scuola, tra i ragazzi.

 

Lo storico russo descrive con disappunto la Russia di oggi, adulatrice del culto di Stalin come mito di ordine e grandezza, quel mito che Putin sta usando astutamente, a fini demagogici, per ricreare dalle ceneri dell’Unione sovietica e dalla Realpolitik di Stalin una cultura nazionalpopolare che sia il sostrato per il mantenimento del suo potere.

 

I Russi hanno nascosto nella periferia del cervello il ricordo del dolore, la memoria del terrore, di quando si fucilava alle spalle con un colpo alla nuca.

 

I parenti delle vittime ancora oggi non riescono a nominare gli autori delle persecuzioni, dicono “loro”, oppure “quando hanno portato mio padre là” invece di “gli agenti della Cheka”, poi del KGB, o “lager”.

 

Questa è la filosofia del silenzio che professano i Russi di oggi; il silenzio di uno Stato che difende i suoi criminali di ieri e di oggi.

 

Alla mia domanda, perché la testimonianza di quel terrore a nulla serve nei confronti del terrore adesso nel Caucaso, A. Roginskij ha risposto sconfortato che gli studiosi russi hanno fallito, ancora una volta, nel tentativo di fare della storia una coscienza civile.

 



 

 

 

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