N. 4 - Settembre 2005
VIAGGIO IN TURCHIA
L'entroterra anatolico - Parte III
di
Antonio Montesanti
Se vogliamo per molti
aspetti, la cultura europea, occidentale, è
soprattutto una cultura un’Europa mediterranea,
differente nelle loro diversità e quindi con tanti
altri mari al suo interno, ma comunque mediterranea.
L’Asia invece, a modo suo, sembra più continentale,
costituita più da un unico blocco omogeneo, almeno
quella più vicina a noi.
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L’Asia che conosciamo è
estremamente arida, rigida nelle forme e dura nei
panorami, in alcuni casi monotona. Vasti altopiani,
circondati da montagne, un terreno sassoso, duro
raramente solcato da valli e ancor meno da fiumi o
laghi che quando s’incontrano riportano ad esperienze
uniche, di quelle che staresti ad osservare il corso
di un grande fiume o ad osservare il turchese degli
secchi d’acqua per ore. Così, in maniera scenografica,
come un cuneo d’acciaio nel tronco di un albero l’Asia
entra in Europa dal di dentro. L’entroterra turco è
una piccola Asia in miniatura, come l’avevano chiamata
i Romani e per come ce la possiamo immaginare.
Il passaggio quasi
improvviso, da una regione fertile e viva, al confine
siriano, solcata dal corso dell’Oronte ed irrigata con
le sue acque, all’esperienza costiera precedente si
contrappone notevolmente quell’idea di colore e
vitalità che solo i campi verdi e il mare azzurro
riescono a trasmettere.
L’ingresso nel cuore
dell’Asia turca, lascia sicuramente interdetti, perché
a differenza del tragitto svolto in precedenza (s.v.
Secondo Itinerario), il paesaggio è piuttosto
monotono, scarno, la terra sassosa, piana con pochi
rilievi e ance piuttosto scontati… il passaggio da
valli ad altopiani, non lascia molto spazio a
resoconti che possono stupire. Quello che però è
necessario capire, da qui in poi è che il piacere di
ciò che si vede è dato da piccole, o grandi, “rose”
nel deserto.
In una sorta di
monotonia, che tra l’altro coincide con alcune delle
zone più povere della Turchia, si passano a rassegna
strade desolate, spesso lunghi rettilinei e città o
paesi che come unico ricordo storico hanno la
consapevolezza, che oggi come un tempo, sono tappe di
un viaggio lunghissimo, lungo le vie carovaniere.
Quello di cui si può e deve godere lungo e all’interno
del paese sono dei momenti, dei luoghi, delle
sensazioni che risaltano fortemente proprio perché
“sorprese”.
Si potrà rimanere
stupiti nel vedere, lungo le strade veri e propri
accampamenti di nomadi, con le loro tende derivate
direttamente dalla tradizione centroasiatica e dalla
cultura che ha generato il suo figlio più occidentale,
quella mongola.
Si rimarrà qualche
minuto ad osservare su un ponte, un fiume più o meno
grande che sia, il suo scorrere, il verde che genera e
che si integra gradualmente con l’arido terreno che lo
circonda; questo naturalmente in contemplazione della
possibilità poco remota, visto il caldo soffocante, di
immergersi, godendo della sua gelida frescura.
Si getterà l’occhio,
ancora, verso le cime dei monti dei quali solo alcuni,
più alti o più particolari degli altri si stagliano
contro lo sfondo del cielo blu, che risalta di una
tonalità più cupa ed affascinante, vista l’ombra di
questi che proiettano dal punto da cui si guarda.
Si farà fatica a
distinguere la cima di un piccolo rilievo scarno dalle
costruzioni disordinate di un centro abitato antico o
di una roccaforte o da un castello…
Tutte queste cose, se
poi riunite in unica area, di poche decine di kmq
conducono davvero al cospetto di un’oasi fuori dal
comune: il Nemrut Daği Milli Parkı.
La
strada conduce progressivamente tra colline e
depressioni con un andamento sinuoso e strade in parte
sterrate, articolate. La zona sembra avere delle
implicazioni magiche, inavvertibili all’inizio e che
s’iniziano ad intuire quando una collina, più alta
delle altre, non sembra più avere un aspetto
“naturale”. Una indicazione conduce al suo cospetto:
era la tomba della famiglia reale del re di Commagene
Mitridate II (36-20 a.C.), innalzata secondo la più
grande tradizione anatolica: un tumulo pseudoconico.
In basso, alla base della tomba, otto pilastri, a
coppie di due, guardano i punti cardinali, al di sopra
di essi si intravedono quelle decorazioni che
anticamente dovevano essere spettacolari e pregne di
significato: statue e lastre in pietra con
raffigurazioni di animali o uomini, tra ci si
riconoscono alcuni simboli imperiali per antonomasia:
il leone, l’aquila, il toro, alternati a divinità e
membri della famiglia. Tutto si doveva vedere da
lontano e dare un’immagine surreale, divina e cosmica.
Salire sulla cima del tumulo rende il tutto cosmico,
“al di sopra dell’intorno”: da una parte le alture
dell’altopiano anatolico dall’altra il lago
artificiale (Atatürk Barajı) formato dalla chiusura
moderna del letto del fiume Eufrate (Fırat Nehri).
Proseguendo all’interno
dell’oasi, ignari delle sorprese che riserva,
ci si imbatte in gole solcate dagli affluenti del
grande fiume. Questo ha solcato nei millenni la tenera
roccia calcaro-arenosa dell’area che al tramonto
acquista il colore del sole, acquisendo un tono più
caldo della terra di Siena…
L’immagine che ci si
rivela dopo una curva sembra avere qualcosa di
scenograficamente costruito, organizzato… Eppure la
gola nella quale scorre il Kahta Çayi (fiume Nympheos),
sul quale si trova un solidissimo ponte traianeo, con
le montagne che a picco fanno da sfondo a questo
quadro, e le persone che ci si bagnano, con altri che
contemplano, altri che si bagnano e altri ancora che
pregano, lascia pochi dubbi sul fatto che questa parte
della Turchia ha qualche cosa di straordinario. Come
se ogni punto qui fosse irraggiato da un qualcosa di
realmente adimensionale… la tentazione di bagnarsi nel
punto in cui l’affluente s’incontra col “sacro”
Eufrate, questa volta non rimane sopita, e l’acqua
gelida, non sembra neanche fredda, come se il fiume ti
accogliesse nel calore del tempo e della storia; allo
stesso tempo ti ricorda il suo potere e la sua forza
con delle correnti che non lasciano spazio a
distrazioni. Anche se l’obiettivo che fa discoprire si
tanta e tante bellezze è un altro…
Il tramonto è ormai alle
porte ed è necessario salire in fretta per poterlo
osservare dal punto migliore della zona, quello più
alto. La strada s’inerpica e nelle varie gole
s’intravedono monumenti che sfuggono alla
comprensione, vista la loro mimesi con la pietra
stessa che li compone. Da lontano un centro abitato si
confonde con un castello, una roccaforte o un baluardo
e a sua volta con il picco del monte sul quale è
adagiato… Una volta qui sorgeva Arsameia, capitale del
microscopico regno ellenistico della Commagene.
La
scalata al monte Nemrut è vertiginosa eppure è
necessario arrivare in tempo per il tramonto e
rimanerci fino all’alba, per osservare il sole, come
questo in estate tramonti e rinasca agli antipodi
dell’orizzonte, visibile per intero dalla sua sommità,
sulla quale venne fatto erigere un tumulo
tombale di 75 metri (ora ridotto a 45 ca.), con pietre
trasportate da tutta l’area.
Osservare il sole mentre
lancia i suoi strali su i due altari megalitici fatti
costruire ad Est ed Ovest perché il sole, venisse
salutato è un’esperienza unica. Gli altari sono
giganteschi, costituiti da una serie di blocchi
calcarei sovrapposti, raffigurano gli animali sacri,
avi e membri della famiglia reale, a questi si
affiancano lastre su cui sono incise simbologie
stellari e divinità celesti.
Antioco I di Commagene
(69-31 a.C.) aveva fatto erigere su questa terrazza
naturale, la sua tomba costituita secondo il costume
anatolico e secondo le sue esigenze, e due giganteschi
altari litici, dietro dei quali si leggono le sue
intenzioni di un tale monumento:
"...Così giustifico
le mie intenzioni nell'erigere,
vicino al trono
celeste ed in un luogo inattaccabile allo scorrere del
tempo,
questo mausoleo dove
il mio corpo,
dopo essere stato
purificato,
dormirà separato dal
pio spirito
volato in alto nelle
regioni celesti governate da Zeus Oromasdes..."
Ancor più emozionante
del tramonto è l’alba che si attende al freddo, dopo
aver passato una notte in una tenda tra gelo e asini
raglianti. L’alba è più emozionante, forse perché
l’attesa è lunghissima, forse perché i colori sono più
pacati e quindi risplendono di più col sole o forse
perché lo stacco tra ombra e luce è ancora più
eclatante…
Con quest’ultima
immagine nel cuore si riparte verso il centro
dell’Anatolia, passando per luoghi abbandonati ed
impervi, semidesertici, dove ancora una volta la
temperatura sale notevolmente e per questo è
necessario fermarsi molte volte per prendere un ottimo
caffè turco o un the caldo, che, al contrario delle
aspettative, sembra aiutare molto. In questo paese,
come tutti i paesi extraeuropei è necessario stare
attenti a bere l’acqua non minerale o comunque mai
quella che non viene servita in bottiglia e, a volte
si possono commettere errori fatali anche con il solo
lavare o sciacquare un qualcosa che poi va ingerita,
come frutta o un bicchiere nel quale poi si versa
un’altra bibita…Le conseguenze sono devastanti e
sopraggiungono a distanza di poche ore: debolezza,
febbre e dissenteria vi accompagneranno almeno dalle
48 alle 72 se non avrete l’accortezza di portarvi
dietro un antimicrobico!
A fatica si raggiunge la
regione che ancora oggi come nei tempi antichi porta
lo stesso nome: la Cappadocia. Questa in realtà non
conserva evidenti vestigia antiche, ma veri e propri
monumenti naturali che nel corso dei millenni hanno
interagito con l’uomo o viceversa. Quella che viene
oggi chiamata “Kappadokia” è solo una parte
minuscola dell’antica regione greco-ellenistica o
della provincia romana.
Questa regione è
fortemente caratterizzata da una landa realmente
desertica e presenta delle conformazioni litiche che,
forse per la posizione o per la roccia dalla quale
sono formate, tufi vulcanici facilmente lavorabili,
duttili, “morbidi” al taglio e all’azione erosiva
eolica, hanno conferito all’area un aspetto unico.
Inoltre, il fenomeno erosivo, unito all’interazione
umana ha prodotto nel tempo dei picchi di roccia viva
priva di vegetazione che hanno dato modo agli abitanti
della zona di lavorarli a piacimento per farne,
stalle, ripari, abitazioni, tombe, templi, in base
alle loro esigenze. Spesso queste parti sospese su
tutta la valle circostante, anzi su ogni valle che
spesso dominano, formano dei veri e propri villaggi.
La composizione di
questi abitati è proprio per la sua particolare
caratteristica, complessa e totalmente disordinata,
formando il classico “paessaggio lunare”, come per i
villaggi di Göreme, Ürgüp e Ücisar. Tra le gole di
questi tre paesi si incontreranno le gole di Göreme,
strette e profonde gole dove i monaci brasiliani
intagliarono i loro primi eremi dipingendoli e
affrescandoli, alla maniera bizantina, con opere di
straordinario valore, oggi patrimonio dell’UNESCO.
Un’altra tipologia di
modellamenti particolari è data da singolari
“strutture” tufacee, che hanno conservato un aspetto
del tutto peculiare: degli alti pilastri di forma
conica, con un’appendice sulla sommità, di
diametro più lungo della base sulla quale poggiano ed
anch’essi di forma conica, conferiscono a questi
singolari elementi delle sembianze falliche o vicine a
degli enormi funghi. Questi giochi della natura, dove
spesso gli abitanti del luogo hanno ricavato delle
abitazioni, sono isolati o a gruppi e hanno in molti
casi sviluppato strane fantasie paranormali tra coloro
che ci si trovano davanti. Singoli o a gruppi,
formando in alcuni casi delle vere e proprie foreste,
creano uno spettacolo al quale non è difficile
rimanere attratti, congiunti, persi ad osservare…
Il tutto è estremamente
rilassante, basta porsi su uno dei picchi che dominano
la valle, come quello
di
Ürgüp per poter godere di quei posti
sconfinati,
dove non si vedono abitazioni costruite per
chilometri, dove si osservano i colori cangianti ed
ondulati della terra che a seconda degli strati cambia
la tonalità, dando al suolo un’idea lontana di mare
increspato.
Il silenzio è un’altra
arma di questo luogo che usa per poter rapire i cuori
di coloro che si perdono nella terra.
E in questa
stessa terra ci si perdevano gli abitanti, quando
scavavano il sottosuolo per renderlo una città
perdendosi per decine di metri nelle profondità della
stessa. Sembra che gli abitanti della zona abbiano
intrapreso questa consuetudine già dal 1200 a.C.
quando gli Ittiti si rifugiarono dalla controffensiva
dei Frigi e sia perdurata fino all’attacco arabo e poi
ottomano. A
Kaymakli, Derinkuyu e soprattutto
Ataman si trovano, non centri abitati, ma vere e
proprie città, scavate nelle profondità della terra.
Al suo interno, vi è ogni tipologia abitativa e
strutturale, chiaramente ricavata, con lo scavo, in
negativo. Il tutto è estremamente affascinante, ma
l’assenza di una forma più o meno definita di
datazione o di corrispondenza cronologica, lascia
pensare da una parte, alla possibilità che questa
città fosse abitata sin da tempi remoti, ma dall’altra
lascia intendere la possibilità di una astoricità del
complesso, che comunque di per se rimane affascinante.
Il viaggio riprende
verso il cuore dell’Anatolia raggiungendo i luoghi
della capitale Ittita: Hattuşas, a 200 km ad Est
dell’attuale capitale turca: Ankara.
Il primo impatto con una
civiltà totalmente sconosciuta ai canoni occidentali
avviene con la località di Yazılıkaya. Questo incontro
di monoliti calcarei naturali è un santuario ittita
che lascia il visitatore colpito dalla presenza delle
sue rocce grigie verticali che s’incuneano
nella montagna a mo’ di labirinto… Per questo,
entrando, ci si guarda intorno stupiti e lentamente si
rimane affascinati, quasi spaventandosi di colpo,
quando, una volta entrati all’interno delle stesse
gole, ci si rende conto che su una di esse si trovano
delle linee incise, queste riconducono ad un disegno
in bassorilievo e le linee si scoprono poi, se
osservate con attenzione, perfette e fantastiche.
Solo adesso si
interpretano le grandi figure osservate sul monte
Nemrut, quelle immagini scolpite nella roccia che
riportavano dei, monarchi, eroi e guerrieri. Qui
s’incontrano gli stessi costumi, le stesse simbologie,
le stesse modalità di adorazione, benché tra Ittiti e
regni ellenistici vi sia uno stacco cronologico di
almeno mille anni, ma che comunque i sovrani
ellenistici di quei luoghi, sembrano non aver mai
dimenticato.
Le figure rappresentate
lasciano poco spazio all’immaginazione e alla
fantasia, tranne quelle più consunte. Sono immagini di
cortei di guerrieri con i loro copricapo immutati per
mille anni, che parlano di sacerdoti sacrificanti, di
sposalizi sacri e divini, di animali fantastici, che
necessitano solo di essere scoperti seguendo le linee
con lo sguardo fino a ricomporre prima un tratto e poi
l’intera figura. Tra le tante meravigliose sculture in
rilievo si noterà anche la prima raffigurazione
dell’aquila bifronte simbolo di imperi e nazioni del
periodo moderno e contemporaneo. Al di fuori del sito
di trovano degli intagliatori di pietra, che con dei
coltellini riescono a riprodurre i più piccoli
particolari in miniature identiche.
La sera non sarà
difficile essere invitati a bere un the dagli abitanti
del piccolo centro moderno, Bogazkale, che come
obbiettivo hanno quello di vendere tappeti, come nel
resto del paese, con la differenza che qui si trovano
dei tessuti meravigliosi che superano di gran lunga
tutte le altre manifatture.
Il giorno dopo sarà
necessario dedicarsi in toto alla visita della
capitale Hittita. Hattuşas era una città molto
particolare, perché costruita su un altopiano di
vastissime dimensioni, fatto a forma di corona, con i
margini più elevati rispetto al centro, dove si
trovavano tutte le strutture urbiche principali, che
risultò in seguito agli scavi tedeschi del 1906,
essere già complesso e dotato di un archivio nel quale
vennero rinvenute circa 10.000 tavolette inscritte. Se
dunque Hattuşas l’immaginiamo come una corona, i bordi
sono costituiti dalle mura che la circondano, mentre
le gemme e i raggi della corona sono costituite dalle
porte di accesso al centro urbano, tutte poste in alto
e ben difese da mura, spesso sono costituite da grandi
blocchi monolitici disposti ad architrave. La
particolarità di ognuna è la loro diversità, forse
funzionale, ma soprattutto decorativa: gli stipiti
spesso sono scolpiti con figure mitiche o fantastiche,
forse per dare un riconoscimento ed una
diversificazione distinguibile.
Lungo il perimetro ed in
alcuni luoghi ritenuti sacri, il centro presenta
qualche struttura riportata alla luce ma la cosa che
lascia esterrefatti è la presenza di antri rocciosi
costruiti e naturali comunque lavorati e di un fascino
misterico profondo: agli occhi del visitatori si
stagliano pareti verticali scolpite con file di
ideogrammi ancora indecifrati come se fossero un
monito ed accanto ad esse figure mitiche di notevole
spessore artistico, guardiane forse di quegli stessi
messaggi.
Lasciata
l’antica capitale anatolica, la curiosità e la
possibilità che la Turchia offre di vedere un
villaggio Ottomano ancora intatto così com’era nel
momento migliore dell’impero turco. I turchi stessi
indicano questa singolare località come un tipico
villaggio conservatosi in perfette condizioni, così
com’era ancora nel XVII secolo. In realtà Saframbolu,
ci lascia esterrefatti per la presenza di
un’anticamera al villaggio non proprio gradevole: la
città moderna distrugge anche quelle poche abitazioni,
simili a baite e costruite con la tecnica antichissima
del graticcio, che si stagliano sui pendii dove
sorgeva il borgo vecchio. Le attese vengono
decisamente deluse, con l’abbandono quasi immediato
della località, che presenta difficoltà di ogni tipo,
finanche al raggiungimento delle abitazioni.
Prima di rientrare ad Istanbul per riprendere la via
del ritorno, si potranno andare a vedere le rive del
Mar Nero seguendo la strada per Zonguldak, anche se
questo porta ad attraversare strade di alta montagna,
che nella complicazione della guida, si aprono a
paesaggi naturali di rara bellezza, pari a quella
delle coste dell’antica Bitinia così amata dagli
imperatori romani, laddove città antica come l’attuale
Ereğli (Eraclea), trasformata in una raffineria. Il
colore delle spiagge e del fondo marino non lascia
dubbi, sul suo nome del mare, laddove località più
piccole offrono un soggiorno sereno, l’ultimo in terra
turca prima di rientrare in Grecia e poi in Italia,
che rispecchia forse la calma apparente di un mare per
millenni centro di scontro e d’incontro di civiltà.
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