N. 8 - Gennaio 2006
LA
PRIMAVERA DI PRAGA
Per
un socialismo dal volto umano
di
Stefano de Luca
La
Cecoslovacchia di Novotny, pienamente allineata a
Mosca, nel 1963 vide l’avanzata di Aleksandr Dubček
alla carica di Primo segretario del PC di Slovacchia,
sintomatica della nuova libertà di espressione seguita
al III Congresso degli scrittori (nel corso del quale
venne anche riabilitato Kafka). Furono però gli
economisti i primi a canalizzare un buon margine di
consensi attorno ad alcuni progetti di riforma. Nel
1962 Ota Šik criticò, nel corso del XII Congresso del
PCCs, la situazione economica del Paese, mentre nel
1963 Radoslav Selucky attaccò, dalle pagine della
rivista culturale del Partito Kulturní tvorba,
quello che definiva il «culto del piano».
Durante il IV Congresso degli scrittori cecoslovacchi
tenutosi a Praga dal 27 al 29 giugno del 1967, la
corrente degli intransigenti del ‘realismo socialista’
subì duri attacchi dai riformisti. Il discorso
pronunciato al Congresso da Ludvík Vaculík, scrittore
iscritto al Partito da quando aveva vent’anni,
sintetizza le aspirazioni dei riformisti. “Questo
congresso”, sosteneva Vaculík, “non si è tenuto
quando lo hanno deciso i membri di questa
organizzazione, ma quando il «padrone» ha amabilmente
concesso la sua approvazione. In compenso egli si
aspetta che renderemo omaggio alla sua dinastia.
Propongo di non rendergli omaggio”. Il malessere dello
scrittore, era quello di un popolo: “ogni volta che ci
si trova in tre o in quattro, cominciamo a
lamentarci”. Le motivazioni erano chiare: “da noi
ottengono il massimo risultato coloro che oppongono
minore resistenza al regime […]. La gente che si fa
degli scrupoli, non trova appoggio”. La sua non era
una critica al socialismo, in quanto non identificava
l’evoluzione che il regime aveva avuto in
Cecoslovacchia con il socialismo stesso, “con cui
invece esso pretenderebbe di identificarsi”.
Fondamentale per l’efficacia dell’azione dei
riformisti fu l’appoggio popolare di cui godettero, in
primo luogo tra gli operai delle fabbriche
cecoslovacche. Aleksandr Dubček affermava che nel
1967-68 il protagonista principale fu “il popolo alla
cui testa si pose, con un programma capace di ottenere
il consenso, il PCCs. Fu questo a scegliere me, io
sono stato uno fra tanti”. Anche il ‘Programma
d’azione’ dell’aprile del 1968 fu, sostiene l’allora
Primo Segretario, il frutto di “un’opera collettiva
cui parteciparono quadri di partito di tutti i settori
chiave della vita sociale […]. Concentrammo
l’intelligenza collettiva di coloro che avevano
consacrato il proprio lavoro alla nostra rivoluzione”.
Il
fattore determinante per l’affermazione progressista
fu quindi l’appoggio politico di cui la base
riformista ebbe la possibilità di godere: un appoggio
che i dissidenti dell’Unione Sovietica avrebbero
trovato solamente nella seconda metà degli anni
Ottanta. Nel PCCs gli slovacchi, guidati dal
riformista Dubček, ottennero la maggioranza nel
gennaio del 1968, e fu così possibile dare vita a dei
progetti di riforma.
Nel
discorso al Plenum del Cc del PCCs dell’aprile del
1968, Dubček dava finalmente voce alle aspirazioni dei
cittadini: “la funzione del Partito può affermarsi
solo quando si appoggia sugli interessi e sulla
diretta conoscenza delle esperienze delle masse
popolari. Anche nei recenti avvenimenti questa tesi ha
trovato la sua conferma: è stata la critica dal basso
a portare il processo in atto”. Il Partito, che nella
concezione leninista era l’avanguardia della classe
operaia e per questo ne rappresentava ‘fedelmente’ gli
interessi, trovava ora in Cecoslovacchia una nuova ‘dimensione’,
che lo portava ad essere molto più vicino alle masse
di quanto non lo fosse mai stato prima d’ora.
Dal
discorso del Primo Segretario si evince come fossero
le istanze provenienti dal sociale ad orientare la
condotta politica del Partito. Questa era la vera
‘democrazia socialista’, che per Dubček avrebbe preso
forma aumentando “la reale indipendenza delle
organizzazioni sociali, la rappresentanza dei diversi
interessi”, e creando degli “organi rappresentativi
dello Stato, fino all’Assemblea nazionale, la sede
dove le decisioni politiche dello Stato effettivamente
si formano”.
Oltre che un ‘rinnovamento’ del socialismo, le istanze
dei cecoslovacchi erano in egual misura volte a
liberare il loro Paese dall’influenza degli uomini del
Cremlino. Il cambiamento proposto non era di lieve
entità, e Mosca non lo avrebbe mai accettato, sia per
non perdere la propria influenza in Cecoslovacchia,
sia per la pressione dei vertici degli altri PC dei
Paesi socialisti del blocco, che temevano al loro
interno effetti destabilizzanti.
Nello stesso mese di aprile 1968, il PCCs approvò il
‘Programma d’azione’, che avrebbe costituito la
piattaforma politica del ‘nuovo corso’. Per quanto
riguardo la funzione dirigente del Partito, il
‘Programma d’azione’ sosteneva che questa fosse stata
intesa nel passato come “una concentrazione
monopolistica del potere negli organismi di Partito.
Ciò corrispondeva alla falsa tesi secondo cui il
partito sarebbe lo strumento della dittatura del
proletariato”. Bisognava invece che il Partito
stimolasse l’iniziativa socialista “mediante una
sistematica attività di persuasione, e l’esempio
personale dei comunisti”.
Il
fine del ‘Programma d’azione’ era quello di ricomporre
la frattura creatasi in venti anni di socialismo tra
gli organi dirigenti del Paese, ed il popolo che gli
stessi pretendevano di rappresentare. Per questo, “i
comunisti debbono adoperarsi, nel quadro della
democrazia socialista, per ottenere il sostegno
volontario della maggioranza del popolo alla linea del
Partito”. Andava ripristinata la facoltà per i
cittadini di “esprimere le proprie opinioni”,
cambiando la pratica per la quale “le obiezioni e le
critiche dal basso altro non significano che una
«predica nel deserto»”.
A
livello economico, il socialismo non doveva più
trascurare lo spirito imprenditoriale, e quindi era
necessario creare delle “imprese indipendenti, o che
dipendano in scarsa misura dagli organismi statali”.
Il ‘culto’ della pianificazione imposto dall’Unione
Sovietica, veniva così rigettato, mentre veniva fatto
proprio il concetto ‘capitalistico’ della
produttività: “la riforma economica tenderà sempre più
a porre i collettivi di lavoro delle imprese nelle
condizioni di risentire direttamente degli effetti di
una buona o cattiva gestione della propria impresa”.
Inoltre il ‘Programma d’azione’ considerava “urgente”
la creazione delle “condizioni materiali ed
organizzative necessarie per le attività culturali”,
al fine di “permettere la formazione di differenti
associazioni culturali, e dar loro la possibilità di
raggrupparsi a livello nazionale e regionale”.
La linea del Partito, le istanze degli
intellettuali e quelle del popolo indussero Brežnev ed il Cc del PCUS ad intervenire con maggior
incisività nelle complesse vicende cecoslovacche.
Consapevole del fatto che difficilmente da Mosca
avrebbe ottenuto un nulla osta alle iniziative
del ‘nuovo corso’ Dubček, che mai avrebbe tradito
il proprio popolo, tentò di appellarsi all’unità
nazionale: “la direzione del Partito si rende conto
che, senza la classe operaia, non sarebbe possibile
difendere le basi del socialismo, nel caso che le
forze di destra anti-comuniste decidessero di svolgere
un’azione diretta”.
Il
27 giugno del 1968, la Literarní
listy
pubblicò il testo dell’articolo di Ludvík Vaculík
intitolato Duemila parole, che avrebbe
suscitato vaste critiche da parte dei sovietici.
Rivolto “agli operai, ai contadini, agli impiegati,
agli scienziati, agli artisti, a tutti”, il testo era
firmato da 70 tra accademici, registi, olimpionici e
campioni di sport cecoslovacchi, e trovò unanime
adesione nel Paese. “Il legame con lo Stato”,
sosteneva Vaculík, “ha fatto si che il Partito
perdesse il vantaggio della separazione dal potere
esecutivo. Non c’era la critica per l’attività dello
Stato e delle organizzazioni economiche”. A tal punto,
“decadevano l’onore personale e quello collettivo. Con
la lealtà non si otteneva nulla ed è vano parlare di
qualche apprezzamento secondo capacità”. “L’inganno
maggiore” era stato che mentre “molti operai credevano
di governare”, in realtà “governava in loro nome uno
strato particolarmente istruito di funzionari di
partito e statali”. Questi funzionari “avevano preso
il posto della classe rovesciata, diventando i nuovi
signori”. Questa situazione poteva essere trasformata,
portando a termine “il disegno di umanizzare il
regime”. Vaculík e gli altri firmatari, si rivolgevano
“in particolare a coloro i quali sinora si sono
limitati ad aspettare: i giorni che verranno saranno
decisivi per molti anni”.
Il 1
giugno del 1968 il Cc del PCCs decise di convocare per
il 9 settembre il XIV Congresso (straordinario) che
avrebbe dovuto approvare lo Statuto del ‘nuovo corso’.
Tra
il 14 ed il 15 di luglio si tenne a Varsavia una
riunione tra i rappresentanti dei PC di Unione
Sovietica, DDR, Polonia, Ungheria e Bulgaria. Il PCCs
rifiutò di partecipare, in quanto l’intento della
riunione era chiarissimo: porre fine alla via
cecoslovacca al socialismo. A Praga, preferirono
percorrere la strada dei negoziati bilaterali per non
essere messi in minoranza, ma tale tattica non servì a
mutare un destino già scritto. Le visite a Praga di
Tito (9-11 agosto) e di Ceauşescu (15-17 agosto),
davano l’esatta portata dello strappo creatosi tra la
Cecoslovacchia e gli altri Paesi del Patto di
Varsavia.
Il
19 agosto Dubček ricevette una lettera da Brežnev
nella quale il Segretario Generale del PCUS dichiarava
tutta la propria insoddisfazione per gli sviluppi
della situazione cecoslovacca. Il valore della
lettera, era pari ad una dichiarazione di guerra.
Alle
ore 23 del 20 agosto, truppe di Unione Sovietica, DDR,
Polonia, Ungheria e Bulgaria varcarono il confine
cecoslovacco, puntando sulla capitale. Il Presidium
del Cc del PCCs si riunì in tutta fretta e diede
ordine alle truppe di non opporre resistenza. Un
comunicato della TASS giustificava l’intervento con la
richiesta di aiuto rivolta all’Unione Sovietica da un
gruppo di personalità del Partito e dello Stato
cecoslovacco. Da Mosca, in contatto telefonico con tre
membri del Presidium cecoslovacco, Brežnev cercava
infatti in tutti i modi di rovesciare Dubček in modo
da far approvare l’imminente occupazione. Questo
tentativo fallì, tanto che alle quattro del mattino
le truppe sovietiche irruppero nella sede del Cc ed
arrestano Dubček, Cernik e Smrkovsky. Il presidente
Svoboda, per non dare nessun tipo di legittimazione
all’invasione del proprio Paese, rifiutò di nominare
un nuovo governo Indra di loro gradimento.
Il
‘nuovo corso’ era ormai giunto alle battute
conclusive, ed a nulla valse la convocazione
precipitosa del XIV Congresso del PCCs per il 22
agosto in uno stabilimento di Praga-Visočany. Il 24
agosto il ministro degli Esteri cecoslovacco Jiří
Hájek chiese al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite l’immediato ritiro delle truppe straniere dal
suo Paese, ma anche questo appello cadde nel vuoto.
Lo
stesso giorno Dubček raggiunse a Mosca il presidente
Svoboda ed altri dirigenti del PCCs, per trattare con
i sovietici. I dirigenti del PCUS, “non essendo
riusciti a legittimare l’occupazione militare con un
colpo di mano in seno al Presidium del Cc del PCCs”,
cercarono ora di farlo “aprendo una trattativa con i
dirigenti del ‘nuovo corso’ dopo averli deportati a
Mosca”. Più che di un negoziato, si trattò
dell’imposizione da parte sovietica di un Protocollo
segreto, che invalidava il XIV Congresso del PCCs, e
confermava la permanenza sul suolo cecoslovacco delle
truppe straniere fino ad una ‘normalizzazione’
effettiva e completa.
Brežnev, per giustificare il colpo di mano, elaborò la
«dottrina della sovranità limitata»: i sacrifici fatti
dall’Unione Sovietica durante
la
Seconda
guerra mondiale per liberare l’Europa dal nazismo
giustificavano una tutela permanente su di essa, da
esercitarsi all’interno della propria ‘zona’ di
influenza. Era un segno di debolezza dell’Unione
Sovietica, effetto diretto del non essere riuscita a
mettere stabili radici nei Paesi ‘satellite’.
Sulla scia di questa dottrina fu proprio l’Unione
Sovietica a cercare di promuovere un dialogo con
l’Occidente che garantisse l’integrità delle frontiere
in Europa. In sostanza, che garantisse lo status
quo del 1945. Nel 1969, ad Helsinki, prese inizio
il negoziato per la sicurezza e cooperazione in Europa
(CSCE), ed il prezzo che i Sovietici dovettero pagare,
almeno formalmente, fu l’apertura di un tavolo
negoziale sulla garanzia dei diritti umani in Europa:
i dissidenti cominciarono a seguire con interesse
l’evolversi della trattativa.
Se
in Cecoslovacchia gradualmente fu raggiunta una ‘normalizzazione’,
lo sdegno internazionale per i metodi sovietici fu
comunque di proporzioni elevatissime. Uno sdegno che
raggiunse l’apice il 16 gennaio del 1969, quando lo
studente
Jan Palach si diede
fuoco in Piazza Venceslao, a Praga, in segno di
protesta contro l’occupazione sovietica del proprio
Paese. Palach sarebbe deceduto tre giorni dopo a causa
della gravità delle ustioni riportate.
Riferimenti
bibliografici:
Renzo Foa, Intervista ad Aleksandr Dubček,
L’Unità, 10 gennaio 1988 |