N. 28 - Settembre 2007
Il I Congresso
degli scrittori sovietici
Zdanov, gli scrittori “ingegneri
delle anime”
di
Stefano De Luca
Il I Congresso degli scrittori sovietici,
tenutosi a Mosca dal 17 agosto al 1 settembre 1935,
non fece altro che legittimare una condizione ormai
di fatto, che vedeva il Partito ed il suo vate
Stalin come i soggetti principali della vita
culturale sovietica. La relazione di Gor’kij al
Congresso sminuiva l’importanza avuta dalla
borghesia nel processo della creazione culturale, e
chiedeva che “la direzione della letteratura
esercitata dal partito deve essere esente da
qualsiasi influenza piccolo borghese”.
Questo perché bisognava restare compatti (e
l’Unione degli scrittori serviva proprio a
questo) di fronte all’avanzata della minaccia
fascista, degenerazione del modello capitalistico.
Così il realismo socialista era lo strumento
necessario per convogliare le energie artistiche a
difesa delle conquiste della Rivoluzione. “Dobbiamo
conoscere tutto ciò che è accaduto nel passato, ma
non come ce l’hanno raccontato fino ad oggi, bensì
alla luce dell’insegnamento di Marx, Lenin e Stalin,
e della realtà operante nelle fabbriche e nei
campi”.
Importante il discorso tenuto dal segretario del CC
del PC(b) Andrejj Aleksandrovič Ždanov, che
chiariva il significato della definizione data da
Stalin di scrittori ingegneri delle anime: “Essere
ingegnere di anime significa stare con entrambi i
piedi sul terreno della vita reale”. Egli rompeva
col romanticismo di tipo classico “che raffigurava
una vita inesistente ed eroi inesistenti”,
sostenendo che invece “lo scrittore sovietico
attinge il suo materiale, la sua tematica, le sue
immagini, il suo linguaggio alla vita e
all’esperienza degli uomini del Dneprostroj, del
Magnitostroj. […] I protagonisti delle opere
letterarie sono operai e operaie, colcosiani e
colcosiane, funzionari del partito, organizzatori
dell’economia”.
In sostanza, compito dello scrittore è glorificare
il lavoro, dal quale l’uomo si è emancipato proprio
grazie alla Rivoluzione. Allo scrittore non era più
chiesto di dare fondo a tutte le sue potenzialità
creative, ma di convogliare tali potenzialità
nell’esaltazione della nuova realtà
politico-economico-sociale. Gli ‘ingegneri delle
anime’ dovevano perciò conoscere la ‘tecnica’ del
settore in cui lavoravano, dovevano perfezionarla al
meglio, e dovevano curarsi di essa, visto che i
contenuti erano dati direttamente dal Partito.
“Essere ingegneri delle anime umane” diceva infatti
Ždanov “significa lottare per migliorare il
linguaggio, la qualità delle opere letterarie. La
nostra letteratura non è ancora all’altezza della
nostra epoca”: per migliorarla bisognava così
applicare i nuovi canoni del realismo socialsta. Non
mancarono al Congresso voci di segno diverso, ossia
quelle degli scrittori Ilja Ehrenburg e Boris
Pasternak.
Nel suo intervento Ehrenburg parlava infatti, oltre
che dei successi conseguiti dalla letteratura
sovietica, anche degli ‘errori’ commessi dalla
stessa, in primis quello di non tener conto
dei sentimenti autentici dei nuovi soggetti della
letteratura sovietica, l’operaio e il contadino.
“Noi vediamo continuamente i nostri personaggi
muoversi nel reparto della fabbrica o nella
direzione del colcos.
I ponteggi del cantiere si trasformano in una
ribalta ultra-teatrale e l’uomo vi appare isolato da
tutto il resto della sua vita”. Sosteneva allora che
da un romanzo il lettore voleva “conoscere nei
particolari il dolore di un operaio che ha perso una
figlia, e non la descrizione dei forni, voglio
sapere come egli è riuscito a vincere questo suo
dolore, poiché so che la morte di una figlia vale
più di due semplici righe”.
La critica di Ehrenburg era chiaramente diretta al
cuore del problema, ossia al fatto che uno scrittore
era obbligato ad attingere alle conquiste ed agli
sforzi lavorativi dei nuovi operai, senza parlare
invece dei problemi e delle difficoltà degli stessi.
Tale costrizione a descrivere in modo ottimistico la
realtà dei lavoratori secondo lui avrebbe prodotto
“tonnellate di ghisa, non dei romanzi”, in quanto lo
scrittore necessita della massima libertà di poter
descrivere quelle situazioni e quei sentimenti da
lui realmente percepiti attraverso i soggetti che lo
ispirano. Ciò però era incompatibile con le finalità
dell’Unione degli scrittori nascente.
Anche Pasternak si espresse in termini non conformi
con la linea del Partito, affermando, rivolto agli
scrittori presenti, “non vi staccate dalle masse -
dice il partito. Non sacrificate voi stessi in nome
della carriera - vi dico io. Immersi nel grande
calore di cui ci circondano il popolo e lo Stato,
troppo grave è il pericolo di diventare dei
dignitari della letteratura. Teniamoci lontani da
una simile lusinga, in nome delle stesse fonti da
cui essa proviene”.
Ma il processo in atto non era modificabile, e
leggendo lo Statuto dell’Unione degli scrittori
sovietici risulta evidente come esso fosse il frutto
della linea tracciata al Congresso da Gor’kij e da
Ždanov, che poi era quella del PCUS. Lo Statuto
definiva il ‘realismo socialista’ quale “metodo
fondamentale della letteratura e della critica
letteraria sovietica, che esige dallo scrittore la
descrizione veritiera, storicamente concreta, della
realtà vista nel suo sviluppo rivoluzionario, e la
veridicità e la correttezza storica della
raffigurazione artistica della realtà si devono
accompagnare al compito di una trasformazione ideale
e dell’educazione dei lavoratori nello spirito del
socialismo”.
Chiariva anche i fini e i mezzi dell’Unione stessa:
“Partecipare attivamente con i propri mezzi
artistici alla costruzione del socialismo […],
mediante l’educazione di vaste masse lavoratrici
nello spirito del socialismo”; era prevista
l’espulsione dall’Unione qualora il membro entri in
contrasto con “gli interessi della costruzione del
socialismo o le finalità dell’Unione” o anche a
causa di “azioni di carattere antisovietico o
antisociale”.
L’espulsione per uno scrittore era molto più di un
atto formale, in quanto nessuno in Unione Sovietica
ne avrebbe mai più stampato le opere, e questo fatto
è alla radice del successivo sviluppo del
samizdat, ossia delle autoedizioni clandestine,
e della pratica di pubblicare in Occidente ciò che
in patria non era permesso. A sottolineare
emblematicamente la nuova funzione dello scrittore,
il Congresso si concluse al grido: “Viva l’esercito
rosso dei letterati”. Come i soldati erano muniti di
armi per difendere l’Unione Sovietica da ogni
nemico, così gli scrittori lo erano della loro
penna, la quale era abilmente condotta sui ‘giusti’
versi da un’altra mano, invisibile ma soverchiante,
quella dei burocrati del PCUS. |