N. 2 - Luglio 2005
LE RELAZIONI TRANSATLANTICHE E IL NUOVO BALANCE OF
POWER
Stati uniti e partner
transatlantici:
separazione de facto o semplice dichiarazione d'intenti?
di Leila
Tavi
Il
9 giugno scorso si è svolto nella Sala Capitolare del
Senato della Repubblica il seminario internazionale
“Le relazioni transatlantiche e l’agenda politica
internazionale” organizzato dalla Delegazione italiana
presso l’Assemblea parlamentare NATO e moderato da
Giuliano Amato.
Tra i relatori intervenuti Lucio Caracciolo, Direttore di Limes, Rivista italiana di
geopolitica; Thomas M. Countryman, Ministro
Consigliere per gli Affari politici all’Ambasciata
degli Stati Uniti in Roma e Charles Kupchan, Senior
Yellow e Direttore per gli studi europei del Council
on Foreign Relations. Lucio Caracciolo e Thomas
Countryman si erano già incontrati nel mese di
febbraio in occasione di un altro seminario dal titolo
“L’agenda di Bush”, organizzato dalla Fondazione Luigi
Sturzo nella sede dell’Istituto italo-latino americano
di Roma. Con la svolta delle elezioni irachene Bush
venne in Europa all’inizio dell’anno in cerca di
consensi per riallacciare i rapporti con gli Europei
incrinati dal conflitto in Iraq: il vertice NATO a
Bruxelles, la visita di stato in Germania e l’incontro
con Gerard Schröder, il summit di Bratislava
con Vladimir Putin.
In
quella sede L. Caracciolo ricordò come le operazioni
militari americane fossero da tempo finanziate dalla
Cina e dal Giappone con un conseguente indebitamento
degli Stati Uniti verso questi ultimi a conferma del
nuovo Balance of Power. Ben il 60% del debito
estero americano è detenuto infatti dalle due potenze
asiatiche. La crisi energetica e il nuovo Balance
of Power hanno messo a rischio la incontrastata
supremazia americana in politica internazionale dalla
fine della Guerra Fredda. L. Caracciolo dichiarò in
quell’occasione che l’Iran rappresentava il più grave
problema di politica estera per gli Stati Uniti anche
alla luce del progetto russo-iraniano di potenziamento
nucleare firmato proprio nel mese di febbraio. E’
chiaro che gli Stati Uniti avrebbero tollerato o un
Iran fondamentalista ma senza nucleare o un Iran
democratico con il nucleare, ma mai un Iran
fondamentalista con il nucleare.
Nella centrale iraniana di Bushehr lavorano ancora
oggi duemila tecnici russi, attaccarla significherebbe
aprire una crisi internazionale ben più rischiosa per
gli Americani che gli attacchi in Afghanistan, dove i
bombardieri B-25 americani hanno disseminato
indisturbati bombe cluster a volontà, o in
Iraq, dove il palliativo di un governo
pseudo-democratico eletto dal popolo sembra
legittimare agli Americani lo status di occupanti. Il
reattore di Bushehr dovrebbe essere ultimato entro la
fine dell’anno e, naturalmente, le 80 tonnellate di
uranio proverranno dalla Russia.
Il nuovo presidente
eletto, l’ex sindaco di Teheran, Mahmud Ahmadinejad,
si è dichiarato intransigente verso qualsiasi
trattativa sulla questione con gli Americani, mentre
ha lasciato una piccola speranza alla diplomazia
europea, alla trojka franco-inglese-tedesca,
scientemente ingaggiata per scongiurare un’ennesima
crisi internazionale dalle conseguenze devastanti.
Questo cambio di guardia in Iran potrebbe significare
anche un’intromissione iraniana nel conflitto in Iraq
e per gli Stati Uniti si potrebbe riproporre lo stesso
scenario del Libano negli anni ’80.
Nonostante il movimento di riforma di Khatami raccolga
ancora il consenso della maggioranza degli Iraniani
con il ritorno di un governo integralista in Iran gli
Stati Uniti dovranno scontare le intromissioni del
1953 durante il rovesciamento del governo di Mohammad
Mossadeq e del conflitto Iran-Iraq negli anni ’80. E
se il Pakistan e l’Iran vogliono il nucleare a tutti i
costi Bush jr. non si lascia scappare l’occasione per
dimostrare ancora una volta come il protocollo di
Kyoto e la tutela ambientale sono assenti dalla sua
agenda politica: è di pochi giorni fa la notizia che
il presidente americano ha proposto in un discorso
nella centrale di Calvert Cliff, nel Maryland, di
ritornare al nucleare.
Di tutela ambientale non
si è parlato neanche durante il seminario
internazionale nella Sala Capitolare del Senato, dove T. Countryman si è limitato a sdrammatizzare la crisi
europea in corso dopo il no del referendum in Francia
e in Olanda alla carta costituzionale, ribadendo la
posizione neutrale degli Stati Uniti a riguardo. Il
Ministro Consigliere per gli Affari politici americano
ha dichiarato: “We have no position in the European
constitution, but in the European Union”. Alla
provocazione di L. Caracciolo riguardo agli ultimi
approcci della diplomazia americana verso i singoli
governi dei paesi europei e non più verso l’Unione in
quanto tale, T. Countryman ha sviato l’ostacolo
esortando il governo italiano a ricoprire un ruolo di
mediatore all’interno dell’Unione per superare l’impasse.
Peccato che due settimane dopo Silvio Berlusconi abbia
riconfermato, con le sue esternazioni sul presidente
finlandese Tarja Halonen, a suon di culatello e di
slogan da vitelloni, l’Italia come partner
inaffidabile e incapace di proporre una qualsivoglia
soluzione al gap istituzionale dell’Europa.
Come già in passato ci siamo accodati alla Gran
Bretagna e abbiamo fatto del nuovo egualitarismo di
Tony Blair un credo. Per T. Countryman l’Europa e gli
Stati Uniti “are increasingly speaking a different
language”, mentre il consenso reciproco tra i due
partner translatlantici rappresenta per il diplomatico
americano l’unica via di uscita.
Egli ha toccato poi
temi come i diritti umani, ha menzionato la Peacebuilding Commision (e come non farlo dopo
Guantanamo) e la riforma delle Nazioni Unite (Un’ONU
dove Robert Mugabe, dittatore da più di vent’anni in
Zimbabwe, è stato rieletto membro della Commissione
per i Diritti umani). L’editoriale del Corriere della
Sera del 21.06.2005 di Angelo Panebianco sembrerebbe
però non confutare le tesi di L. Caracciolo
riproponendo, a scapito di organizzazioni
sovranazionali e internazionali, gli Stati nazionali
come unici attori sulla scena mondiale.
Ma
poi perché questo improvviso interessamento della Gran
Bretagna al destino dell’Unione? La tesi portata
avanti da William Wallace, professore di Relazioni
internazionali della London School of Economics, è
quella della perdita di influenza britannica sugli
Stati Uniti dopo il conflitto iracheno. Proprio l’idea
di una comunità atlantica basata sui valori condivisi,
così come ci è stata descritta da T. Countryman, fa
parte ormai della storia.
La NATO e l’Europa non
rappresentano più priorità per il governo americano,
non è più il consenso che gli Stati Uniti cercano, ma
un appoggio alle operazioni militari. Appoggio che la
Gran Bretagna non ha negato e che l’ha relegata ai
margini dell’Europa. E la frattura tra le due sponde
dell’Atlantico c’è, come confermano le stesse parole
di T. Countryman “EU and US are increasingly speaking
a different language”. Il riavvicinamento della Gran
Bretagna ai partner europei sembrerebbe allora
plausibile e l’articolo di W. Wallace pubblicato nel
numero di gennaio di International Affairs
anticipa di qualche mese quello che è l’attuale
progetto di integrazione inglese per salvare l’Unione:
un’Unione meno presente nelle politiche interne e più
incisiva sulla politica economica ed estera.
Un
altro dei punti toccati da T. Countryman è stato, come
nella conferenza di febbraio della Fondazione Luigi
Sturzo, l’embargo d’armi alla Cina. Anche in quell’occasione
emerse il disaccordo tra Europei e Americani in
proposito; oggi, nonostante non ci sia il “consenso”
del partner oltreoceano, l’Unione va verso la revoca
dell’embargo (tanto gli Stati Uniti forniscono in ogni
caso armi sottobanco ai Cinesi). Nel frattempo la Cina
si avvia a una epocale privatizzazione delle aziende
di Stato per un totale di duecento miliardi di dollari
in azioni e va a caccia di petrolio americano; il
governo cinese ammonisce addirittura Bush jr. perché
non interferisca sul libero mercato e non impedisca
l’acquisto del gigante energetico UNOCAL da parte
della China National Offshore Oil Corporation con un
offerta di ben 18,5 miliardi di dollari.
L’UNOCAL,
acquistata un paio di mesi fa dalla Chevron per 2
miliardi di dollari in meno, è stata materia di
discussione per il Congresso che, a seguito della
proposta d’acquisto della società cinese del
23.06.2005, ha giudicato la manovra lesiva
dell’interesse nazionale; il governo americano dal
canto suo non si è espresso: non si possono cambiare
le regole del capitalismo globale solo perché a
entrare in gioco è uno stato comunista.
Come se non
bastasse i rapporti diplomatici della nuova Cina con
l’Iran sono ottimi; la Cina considera l’Iran un
partner più affidabile della Russia: Pechino intende
infatti affiancarlo a quest’ultima come fornitore di
greggio. L’Iran da parte sua ha preferito rivolgersi
alla Cina e non più alla Russia per
l’approvvigionamento di armi e presto entrerà a far
parte dell’Organizzazione per la cooperazione di
Shanghai. Un politica diplomatica azzardata americana
nei confronti dell’Iran innescherebbe quindi una
reazione a catena che pregiudicherebbe una volta per
tutte il già precario ordine mondiale.
Riferimenti bibliografici:
Angelo Panebianco, “Ripartire senza Chirac”, in
Corriere della Sera, 21.06.2005
Kenneth M. Pollack, “L’America studia la storia del
nemico per la pelle”, in Corriere della Sera,
23.06.2005
Uwe Schmitt, “Amerika fürchtet die gelbe Gefahr“ in
Die Welt, 29.06.2005, url:
http://www.welt.de/data/2005/06/29/738507.html?prx=1
Frederick Stakelbeck, “The growing Teheran-Beijing
axis”, in In the national interest, url:
http://www.inthenationalinterest.com/Articles/January%202005/January2005stakelbeck.html
William Wallace, “The collapse of British foreign
policy”, in International Affairs, vol. 81, n.
1, gennaio 2005 |