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N. 31 - Dicembre 2007

ACHILLE, PRIMO EROE
"... a te che un Dio somigli..."

di Antonio Montesanti

 

I Greci, soprattutto quelli più antichi che per la prima volta misero per iscritto quelle nenie e quelle litanie orali tramandate da secoli di padre in figlio, proprio loro, i primi poeti, che in maniera così candida riuscivano a descrivere le immagini del reale con formule meravigliose  che poi diverranno parte integrante dell’immaginario collettivo, usavano una parola per indicare un essere umano fuori del comune e che si distingueva dagli altri: theophanos - simile a un dio.

 

Le immagini divine, con cui i Greci identificavano l'essere esemplare, erano due: una propriamente divina, essenza simbolica del modello delle virtù terrene, identificata con Apollo, e la seconda, che rappresenta l’anello di congiunzione tra umano e divino è quella di Eracle, che ascende al cielo, divenendo anch’egli essere il tredicesimo dio olimpico.

 

Quando però il personaggio è protagonista di un’opera assoluta, la prima opera epica occidentale scritta, rappresentato come essere umano dalle caratteristiche divine, non solo in base alle sue origini ma proprio per l’essenza propria che lo avvicina ad un essere supremo, allora questo assume le sembianze di Eroe e di Mito allo stesso tempo. Questo lo relega in una sfera divina ed umana allo stesso tempo, poiché, mentre i miti, come dice il termine greco, erano delle narrazioni di tipo favolistico, al pari di racconti o leggende prive di fondamento storico, come quella di Eracle che lo pongono tutt'oggi in un ambito prettamente ed esclusivamente extraterreno, Achille, in base è la prova di un uomo divenuto non dio, ma divino.

 

E a te pur anco, Achille,
a te che un Dio somigli, è destinato
il perir sotto le dardanie mura
.

(Il. XXIII, 103)

 

La giovinezza e il coinvolgimento nella guerra

 

Figlio di Peleo, re di Ftia in Tessassaglia, e quindi diretto discendente di Zeus e di Teti, figlia di Oceano, era l’ultimo di sette fratelli avuti dalla coppia, poiché la madre, immortale, desiderando che i figli divenissero anon potessero giungere alla morte, ne bruciò le parti mortali, conducendoli all’Olimpo. Ma Peleo, saputo il fatto, le strappò dalle mani Achille quando quasi tutto il corpo era stato reso invincibile.

 

Le pratiche per rendere tale il corpo, sono due basate sull'uso degli elementi opposti fuoco e acqua: la prima, la stessa utilizzata in epoca micenea per cremare i morti, consisteva nel bruciare i corpi dei caduti e poi “annaffiarli” con l’ambrosia, nella priva versione Peleo intervanne quando la madre aveva bruciato le parti mortali del figlio il cui tallone, ancora fumante, non era stato cosparso d’ambrosia. Teti si allontanò dal marito ritornando nella sua dimora marina e chiamò il figlio “a-chilleos” (privo di labbra) poiché non aveva poggiato le labbra sul suo seno. Allora Peleo diede un tallone novo al figlio abbandonato, strappato al gigante Damiso, famoso per la sua velocità (Ptol. Aeph. IV, in Fotius, 487; Apollod. III 13 6; Lic. Cass., 178 sgg., Scol. ad Hom., Il., XVI 37). Mentre la seconda narrazione, quella a noi più famosa, diceva che egli era stato reso immortale dalla madre attraverso il bagno sacro nelle acque dello Stige, e che solo il tallone fosse attaccabile poiché era l’unica parte da cui era stato tenuto e che quindi non si era bagnata (Ptol. Aeph. VI; Apollod. III 13 8; Scol. ad Aristoph., Nuvole 1068).

 

 Affidato dal padre, dopo l’abbandono della madre, a Chirone, il centauro maestro di Eracle, fu cresciuto sul monte Pelio, dove fu nutrito con midollo di leone e di cinghiale e grasso d’orso per la forza fisica e midollo di cerbiatto e miele affinché fosse più agile e veloce. Fu istruito in ogni ambito dell’arte della guerra ed inoltre nel suonare il flauto e nel curare le ferite, la musa Calliope lo istruì nel canto. A sei anni uccise il suo primo cinghiale e da allora portò in continuazione nell’antro del centauro un continuo di prede abbattute. I suoi biondi capelli splendevano al sole durante le corse, quando braccava, raggiungeva ed abbatteva i cervi senza l’aiuto dei cani (Serv., ad Virg., En. VI 57; Fulg., Mit. III 7; Apollod., 111 13 6; Filostratus, Er. XX 2 e XIX 2; Arg. Or. 392 sgg.; Statius, Ach. I 269 sgg.; Il. XI 83-132; Pin., Nem. III 43 sgg.).

 

Teti conosceva bene il destino del figlio: il destino aveva preservato a lui il bivio che almeno una volta nella vita un uomo incontra: morire giovane ma con la gloria eterna oppure vivere a lungo nell’ombra. Infatti se avesse partecipato alla guerra che i Greci si preparavano a combattere contro Troia sarebbe morto in terra straniera. Per evitare che ciò accadesse lo inviò a Sciro, alla corte del re Licomede, al quale lo affidò travestendolo e facendolo vivere sotto le mentite spoglie della fanciulla Pirra (Essa o Cercisera, a seconda delle versioni). Qui si unì con la figlia del re, Deidamia, che lo fece padre di Pirro, in seguito chiamato Neottolemo (Il. IX 410 sgg.; Ptol. Aeph., I; Tzetze, ad Lyc. 183.).

 

Calcante, l’indovino al seguito dell’esercito acheo, aveva predetto che Troia non sarebbe mai caduta senza la presenza di Achille, tra le loro schiere. Per averlo al loro fianco furono inviati Odisseo, Nestore e Aiace a Sciro. I tre lo cercarono accanitamente nella reggia di Licomede e solo l’astuzia di Odisseo permise di svelare l'identità del fanciullo: tra i doni portati dagli ospiti, Ulisse, inserì anche delle armi di splendida fattura, lasciando che le figlie scegliessero per prime, quindi diede l’ordine di simulare all’esterno del palazzo uno scontro armato. Achille, sentendo il frastuono, immediatamente si strappò le vesti femminili, si rivestì del bronzo guerriero ed uscì pronto a combattere. La sua indole, che lo condannava, lo portò a guidare le sue truppe scelte, i Mirmidoni verso la vittoria ellena. (Apollod., 111 13 8; Scol. ad Om., Il. XIX 332; Ov., Met. XIII 162 sgg.; Ig., Fab. 96.).

 

Una versione meno colorita narrava che Nestore e Odisseo nel giro per reclutare truppe in tutti i paesi dell’Ellade, si recarono da Peleo, che li accolse nella sua reggia a Ftia, troppo vecchio per prendere parte alla guerra concesse volentieri agli Achei il giovane figlio, allora quindicenne, per l’impresa. a lui regalò la sua armatura d’oro, la lancia di Frassino ed i due cavalli, Balio e Xanto ricevuti per le nozze (Il. XVIII 434; XVI 149; Eurip., Troiane 1128; Andromaca 1253 sgg.). Fu affidato alla la tutela del saggio Fenice, in seguito considerato secondo padre di Achille; Teti, per la cura donò all’anziano acheo un magnifico baule scolpito, pieno di tuniche, mantelli e drappi di meravigliosa fattura perché avesse cura del figlio.(Il. IX 769 e sgg., 438 e sgg. e XVI 298. Tzetze, ad Lyc. 421; Il. IX 447 e sgg. e 485).

 

Achille condusse con se il compagno inseparabile, suo cugino Patroclo, che, pur essendo più anziano, non era al suo pari neanche lontanamente.

 

L’armata alla volta di Troia era suddivisa in un esercito guidato da Agamennone e dai suoi luogotenenti Odisseo, Palamede e Diomede e dalla flotta al cui comando venne posto Achille, affiancato da Aiace Telamonio e Fenice (Dyct. Cret., I 16).

Prima della partenza fu necessario il sacrificio di Ifigenia, figlia del generale supremo delle forze elleniche, che Achille, guidato dall’amore, credette di dover difendere anche se la fanciulla scelse di morire per la Grecia. Un’altra versione dice che Neottolemo / Pirro fosse figlio di Ifigenia anziché di Deidamia. (Eurip., Ifigenia in Aulide; Sof., Elettra 574; Apollod., Epit. III 6; Dyct. Cret., I 19; Tzetze, ad Lyc. 183.)

 

Prima della partenza la madre lo aveva messo in guardia sul fatto che se avesse ucciso un qualsiasi figlio di Apollo, sarebbe morto per vendetta divina. Per questo gli aveva posto al fianco Mnemone (Colui che ricorda), con il solo compito di rammentargli, prima di ogni scontro questa clausola.

 

Ancor prima di giungere sulla sponda anatolica dell’Egeo, Achille faceva sfoggio delle sue capacità. In realtà il furore lo guidava al combattimento, voleva essere il primo a mettere piede sul suolo troiano. Giunto a distanza dell’isola che si trova di fronte Troia, si buttò in acqua scagliandosi contro il signore dell’isola omonima, Tenedo, figlio di Apollo, uccidendolo in un lampo, trapassandogli il cuore. Nell’immediato si voltò contro il suo "vademecum" e lo condannò a morte poiché non gli aveva rammentato le parole di Teti (Apollod., Epit. III 25; Paus., X 14 2; Plut., Graec., 28.).

 

Non riuscì a sbarcare per primo sul suolo troiano, anche se l'isola era considerata già tale, ma seguì Protesilao che fu massacrato appena messo piede sulla banchina, qui (o ancora a Tenedo), seguito dai suoi Mirmidoni, si scagliò contro Cicno, figlio di Poseidone, con tale forza che atterrando dopo un balzo fenomenale, sulla terra ferma, fece sgorgare una sorgente. Cicno, ritenuto immortale dai Troiani, avrebbe facilmente ributtato a mare i Greci se non fosse stato “puntato” dal Pelìde ed ucciso, mettendo in fuga, quasi da solo le intere schiere troiane. Poco dopo, qui (o ancora a Tenedo) avvenne il primo litigio con Agamennone, con l’accusa al generale ellenico, che egli stesso fosse solo un ripiego!

 

I Greci tirarono le navi in secco, le misero al riparo dietro una palizzata, cinsero Troia d'assedio, che sarebbe durato dieci lunghissimi anni e di cui noi conosciamo solamente i 51 giorni, cruciali, ma non finali, dell’ultimo anno (Apollod., Epit. 111 31; Tzetze, ad Lyc. 245; Ov., Met. XII 70-145).

 

Le profezie guidano la vita del divino eroe. Un’altra diceva che Ilio non sarebbe caduta prima che uno dei figli di Priamo, Troilo avesse compiuto i vent'anni. Fu per questo che, appena conosciutane l’età del nemico, il “piè veloce” gli tese un agguato. Troilo fuggì e cercò asilo nel tempio di Apollo Timbro dove lo decapitò dinanzi all'altare, provocando l’ulteriore ira divina, a cui i commentatori postumi vollero attribuire, per la veemenza dell’uccisione, accuse di pederastia all’eroe nei riguardi del Teucro (Prim. Mit. Vat. 210; Tzetze, ad Lyc. 307, Eust., ad Hom. Il. XXIV 251, p. 1348; Ser., ad Virg., En. 1 478; Dyct. Cret., V 9).

 

L’ira

 

Nel tempio sembra che Achille prese come “bottino” la bellissima sacerdotessa Briseide (Apollod., Epit. II 32; Il. II 690-693, XX 89 e sgg.). Achille, intanto proseguiva a saccheggiare i dintorni di Troia come una furia. Sul monte Ida incontrò Enea il Dardano, che si dimostrò tale valoroso guerriero, tanto da tenergli testa (Igin., Fab. 115; Il. XIII 460 e sgg. e XX 181 e sgg.; Haes., Theog. 1007.)

Secondo altri l’incontro non fu con Briseide ma con Polissena, figlia di Ecuba e moglie di Priamo, innamorandosene perdutamente. Mandò così una ambasceria ad Ettore chiedendo le condizioni secondo cui gli fosse stata concessa la mano della sorella. Ettore replicò che la sorella sarebbe stata sua quando avrebbe consegnato l'accampamento greco a suo padre Priamo. L'Eroe, che sembrò cedere, non se la sentì promettere la morte del cugino, Aiace Telamonio e dei i figli dell'ateniese Plistene (Dyct. Cret., III 13). Intanto Agamennone aveva chiesto la consegna ufficiale a Priamo di Criseide, altra sacerdotessa di Apollo, per evitare così che essa fosse catturata come prigioniera di guerra, dopo la presa della città; la stessa fu condotta al campo e consegnata allo stratega greco, che la considerò di sua proprietà Intanto Achille aveva invitato per la prima volta Ettore allo scontro ma una freccia, scagliata da Eleno, sacro anch’egli ad Apollo, scoccata dall’arco d'avorio, dono d'amore del dio, lo fermò negli intenti.

 

La costante presenza del dio tra le file troiane, invocato dal sacerdote di Apollo Crise dopo il rifiuto della riconsegna della figlia, provocò una grave pestilenza tra gli Achei, situazione che, dopo dieci anni, creò delle accese incomprensioni tra Achille e i suoi compagni e tra gli altri generali (Ptol. Aef. VI; Dyct. Cret. III 6; Cypria, cit. in Proclus, Crest. I) che sfociarono nel ritiro ed isolamento totale del pelìde quando Calcante oltre ad individuare la presenza divina, disse che la risoluzione alle sciagure sarebbe stata la restituzione al padre, sacerdote di Apollo, di Criseide. Agamennone a malincuore si rassegnò alle parole dell’indovino.

 

Per la perdita subita Agamennone ritenne di sottrarre Briseide ad Achille. L’eroe decise quindi di non partecipare più alla guerra, astenendosi da ogni forma di lotta per questo motivo, anche se alcuni ritengono l’abbia fatto per Polissena. (Il. I; Dyct. Cret., II 30; Pr. Mit. Vat., 211) I troiani furono animati dall’assenza effettiva dal campo dei mirmidoni e del loro generale. Ettore solo allora sfidò Achille che chiaramente rifiutò, a questo punto i Greci optarono affinché Aiace Telamonio fosse il campione da contrapporre al teucro. I guerrieri si scontrarono per tutto il giorno fino al calar della notte, quando i due araldi li separarono. I due si lodarono vicendevolmente per il valore, il coraggio e la lealtà, scambiandosi cavallerescamente dei doni: Aiace donò a Ettore un balteo purpureo mentre a lui il troiano regalò una spada dall’elsa d’argento (Athen., I 8; Il. VII 66132; Igin., Fab. 112).

 

Agamennone in una situazione disperata che vedeva i troiani prossimi alle navi (Il. VII 43 e VIII) mandò Fenice, Odisseo e il Telamonio alla tenda di Achille, pregandolo, con il compenso di doni e la restituzione di Briseide, di tornare alle armi. Il pelìde, sereno nelle sue decisioni, accolse benevolente gli araldi, rifiutando decisamente e annunciando per il giorno dopo il suo rientro (Dyct. Cret.  II 47; Igin., Fab. 121; Il. I).

 

I troiani contrattaccarono arrivando a sfondare le difese e ad incendiare alcune navi, il cui fumo fu il segnale che indusse Achille ad incitare i suoi Mirmidoni allo scontro. A questi si unì Patroclo che, utilizzando le armi del cugino, venne scambiato per Achille stesso provocando il terrore tra i troiani che furono respinti da questo fin sotto le mura, mentre Patroclo faceva stage di troiani (Il. Xll e XIV.) a lui gli si fece incontro Ettore che lo uccise con un solo colpo di lancia, dopo un intervento divino. Ettore tolse allora l'armatura al corpo esanime di Patroclo, mentre il grande Aiace, insieme con Menelao, difese il corpo fino a quando non lo sottrassero definitivamente alla bolgia. Achille, avuta la notizia nefasta si abbandonò a grida, urla, pianti fino a gettarsi e rotolarsi nella polvere. Cessata la crisi di disperazione venne l’ira e con essa, furia e vendetta. La madre gli portò le nuove e splendide armi forgiate da Efesto, quindi dopo un breve incontro con Agamennone iniziò ad inseguire i Troiani, le cui schiere furono da lui letteralmente “spaccate in due”. Un gruppo si diresse verso il fiume Scamandro (Küçük Menderes) e venne massacrato. A questa vista la divinità fluviale si scaglio contro il pelìde che, affiancato da Efesto, lo fece evaporare. Gli altri fuggirono e sul campo ormai deserto, lasciato sguarnito dalle schiere, rimasero i due Eroi, gli unici simili agli Dei, l’uno di fronte all’altro.

 

Ettore sapeva bene che non ci sarebbe stato confronto. Per questo, per il coraggio dimostrato anch’egli si meriterà nella storia, l’appellativo di divino solo per aver voluto ed accettato lo scontro con un essere superiore. Il troiano tentò di stancare Achille, con una corsa forsennata intorno alla città, ma puntualmente l’acheo lo raggiungeva e gli si sbarrava di fronte ogni qualvolta tentasse l’entrata in città. Quindi consapevole del suo destino si fermò, deciso a sostenere lo scontro che si risolse poco dopo, con Atena oltretutto schierata al fianco del Pelide, vide la morte del principe troiano.

 

Ettore cadde, quell'Ettòr che un Dio
fra' mortali parea; no, d'un mortale
figlio ei non parve, ma d'un Dio.

(Il. XXIV, 328)

 

La rabbia spinse il figlio di Peleo a rifiutare il favore che Ettore morente implorava: di restituire il corpo al padre. Legatolo per le caviglie al mozzo del carro, proprio con il balteo donatogli da Aiace Telamonio, trainato da i divini cavalli Balio, Xanto e Pedaso, trascinò prima intorno alle mura al galoppo e poi fino alle navi al piccolo trotto. L’immagine della testa del corpo di Ettore dai neri riccioli cadenti che sobbalza è forse la scena più catastrofica della personalità Achillea e che lo riconduce per questo motivo ad una natura che, per come la interpretavano i Greci, è allo stesso tempo umana e divina.

 

Tornato al campo il vincitore si diede ad onorare Patroclo. Venne innalzata un’enorme pira funeraria con la legna proveniente dal monte Ida, sul rogo vennero sacrificati inoltre dei cavalli e due dei nove cani di Patroclo ma soprattutto dodici nobili prigionieri troiani tra i quali alcuni figli di Priamo, sgozzati o trapassati al cuore tutti dal signore dei Mirmidoni. Quindi decise di buttare il corpo di Ettore ai cani, ma l’intervento di Venere lo fece rinsavire. Poi si svolsero i giochi funebri. Ogni mattina Achille al suo risveglio faceva tre volte il giro del tumulo funebre del cugino con il carro, al quale era ancora attaccato il corpo di Ettore. Lo strazio ebbe fine quando Priamo si recò nella tenda di Achille a pregarlo di restituirgli il figlio. Achille stabilì il prezzo del riscatto nella misura di oro pari al peso del corpo, cedendo alla disperazione del vecchio e dando prova della sua magnanimità.

 

Sulla bilancia che i Greci posero di fronte alle porte Scee i Teucri ricevettero il colpo finale per la sconfitta che avverrà da li a poco, mettendo sul piatto vuoto tutto l’oro rimasto. Achille sembra che invece avesse chiesto solo la mano di Polissena, sulla quale per poco fu trovato l’accordo per la pace o comunque l’impegno a trovarla. (Ser. ad Virg., En. I 473; Apollod., I 3 4; Il. XI; Dyct. Cret.  II 43-52 e III 12-27; Il. XVI. Filost., Vita Apoll. Tianae, I; Er. 19 4; Paus., II 17 3; IX 18 4; Il. XVII; XVIII; XIX; XXI; XXIII; Virg., En. 1 487; Dar., 27; Tzetze, ad Lyc. 1194; Stes., in Tzetze, ad Lyc. 266; Ptol. Aeph., VI. in Fotius p. 487) .

 

Morte e divinizzazione

 

Giunsero quindi le Amazzoni, alleate di Priamo, guidate dalla loro regina Pentesilea, che iniziò la sua guerra battendosi con il suo esercito di sole donne al pari e meglio di molti uomini facendo strage di Greci. Il suo valore si estrinseca nel fatto che riuscì a respingere Achille dalle mura tante volte e alcune mandandolo addirittura in ritirata (alcuni testi dicono che l’amazzone riuscì addirittura ad ucciderlo e che Zeus, supplicato da Teti, lo resuscitò). Nell’ultimo scontro il pelìde ebbe la meglio, colpendola nel petto, e nell’istante in cui la trafiggeva, gli sguardi si incrociarono rendendosi forse entrambi conto di essere innamorati l’uno dell’altra. E lui ne sostenne il corpo morente fino a quando la fanciulla non ebbe esalato l’ultimo respiro (Quint. Sm., Posthom., I 18 e sgg.; Apollod., Epit. V 12; Lesché, Parva Il., in Paus., III 26 7.2; Eust. ad Hom., p. 1696; Apollod., 186; Il. II 212 e sgg.; Tzetze, ad Lyc. 999). Accusato vergognosamente di necrofilia, il corpo dell’amazzone gettato nello Scamandro, venne recuperato dallo stesso Achille ed onorato con riti solenni. L’immagine di Pentesilea morente, sorretta da Achille, era scolpita sul trono di Zeus a Olimpia, opera di Fidia (Ser. ad Virg., En., Eneide I 495; Trifiodoro, 37; Art. Mil., Aethiopis, in Proclus, Crest. 2; Paus., 31 1 e V 11; Tzetze, ad Lyc. 995) ed è uno dei dipinti su ceramica più splendidi a noi giunti nella kylix di Monaco di Baviera.

 

Achille fu anche il vincitore di Memnone e degli Etiopi giunti dall’Africa in soccorso di Ilio, evento che portò per l’ultima volta i Troiani alla ribalta fin quasi ad incendiare le navi greche. Memnone venne sfidato da Aiace il Grande e fino a quando lo scontro si svolse in questo modo “il piatti della bilancia tenuta da Zeus che controllava l’esito dello scontro erano alla stessa altezza, ma quando sopraggiunse Achille, che scostò bruscamente il cugino dallo scontro, il piatto di Memnone si abbassò improvvisamente” (Dyct. Cret., IV 5-6; Quintus Smir., Posthom. II 224 e sgg.; Philot., Imm. II 7; Philos., Er. III 4).

 

Ma questa fu davvero l’ultima impresa del “piè veloce” Achille che per l’ennesima volta inseguì i Troiani in rotta fin sotto le mura. Poseidone e Apollo, decisi a vendicare la morte di Cicno e di Troilo e a punire l’eroe per i suoi sacrilegi, scelsero Paride come arciere affinché questo tendesse l'arco e scoccasse la freccia guidata dallo stesso Apollo nell'unico punto vulnerabile dell'Eroe, il tallone destro, costringendolo ad una morte tra dolori e spasmi atroci.

 

Al cugino Aiace e ad Ulisse toccò recuperare il corpo e le armi; il primo conduceva l'esanime sulle spalle e volgeva in fuga, mentre il secondo copriva le spalle al Telamonio. Una tempesta divina pose fine alle fatiche. (Art. Mil., Edop., in Proclus, Cres., a 2; Ov., Met. XII 580 e sgg.; Igin., Fab. 107; Apollod., Epit. V 3-4; Od. XXIV).

Una seconda versione vede Achille vittima di un complotto secondo cui Polissena per vendicare il fratello Troilo, lo indusse a rivelarle il segreto della sua forza e quindi il punto debole. Su richiesta di Polissena, dunque, l’eroe si recò disarmato e a piedi nudi al tempio di Apollo Timbreo per ratificare il patto di matrimonio con un sacrificio. Paride appostato lo avrebbe così colpito facilmente. (Darete 34; Dyct. Cret., IV 10-13; Ser. ad Vir., En. VI 57; Ser. ad Vir., En. III; Tzetze, ad Lyc. 269).

 

La disputa delle armi del divo fu uno dei primi fatti che condussero i Greci a dover espiare con numerose disgrazie le atrocità commesse durante l’assedio ma soprattutto nel saccheggio della rocca. Le armi furono contese tra coloro che avevano condotto fuori dalla mischia il corpo: Aiace Telamonio e Odisseo. La panoplia fu assegnata al secondo dai capi disposti a consiglio, questo provocò l’ennesima vendetta che prevedeva l’uccisione di tutti i capi greci da parte di Aiace sennonché, l’intervento di Atena, o se vogliamo l’eccessiva rabbia non portarono l’eroe deluso al suicidio, gettandosi sulla spada donatagli proprio da Ettore.

 

Il primo eroe dei Greci ebbe solenni onori dalla sua nazione, e da sua madre Teti, emersa dal mare con le Nereidi al cui corteo s’unirono anche le Muse, piangendolo con gli altri per 17 giorni. Le sue ceneri vennero inserite in un’urna aurea, forgiata come le sue armi da Efesto. Gli Elleni eressero in onore del loro eroe un mausoleo costituito dalla tomba e da un tempio sul promontorio Sigeo (Kamunkale), vicino Ilio ancora oggi identificato nel tumulo presente sulla piana alla foce dello Scamandro, e considerato la sua tomba: l'Achilleion (Kesiktepe), visitato da Alessandro il Grande, il quale s’ispirò per tutta la vita (Cic., Fam. 5,12).

 

Sembra inoltre, per concludere, che Achille dopo un sogno erotico avuto con Elena, si sia innamorato follemente di questa, tanto che alcune tradizioni lo vogliono quinto marito di Elena (Tzetze, ad Lyc. 143 e 174; Ser., ad Virg., En. I 34).

La tradizione orfica lo vede a Leuca, considerata parte dell'Ade, isola localizzata nel Mar Nero alle foci del Danubio,  mentre si accompagna idealmente ad Elena tra i Campi Elisi o sull’isola dei Beati, laddove sono destinati gli uomini valorosi e giusti (Od. XI 471-540; Ibleus, cit. Scol. ad Apoll. Rh., IV 815; Paus. III 19, 11; Filostr., Er. X 32-40).

 

Una serie di templi, cenotafi, monumenti vennero innalzati alla memoria del divo-eroe:, ad Olimpia, nella palestra antica, a Dodona, a Sparta (Filostr., Er. XIX 14; Paus., VI 23 2 e III 20 8), la sua figura, le scene della sua vita, sono ripresi in centinaia di esempi storici e figurativi, dalle fonti scritte all'arte, dall'immaginario all'esempio, da 3200 anni ininterrottamente.

 

La sua figura, ancora dibattuta tra mito, leggenda e realtà rappresenta quel legame sottile che rende intrinseca la capacità di un uomo di potersi rendere immortale nel tempo per le gesta e per la vita condotta, per quello che gli avi ricordano e a cui i successori s'ispirano, essendo solo così capaci, grazie al suo esempio di divenire miti essi stessi, così come lo diverrà Alessandro Magno e tutti coloro che vorranno rimanere eterni nella storia.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

R. Graves, Greek Myths, London 1955
K. Kerényi: Die Mythologie der Griechen; Band II Die Heroen-Geschichten, Stuttgard 1966

M.P.O. Morford – R.J. Lenardon, Classical Mythology, New York 1991
B. Mueller, Achilles bandaging Patroclus, Surgery 1989
M. Stephanides, The Iliad - The Trojan War, Athens 1989

 

Vedi anche:LA TOMBA FRANÇOIS. UNA GUIDA, V - Il grande affresco iliaco



 

 

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