N. 12 - Dicembre 2008
(XLIII)
l'incertezza
del "yes we can"
l'elezione che
cambia il mondo
di Laura Novak
II
palchi, alla fine, sono tutti uguali. Le luci della
ribalta, i colori dello sfondo che riecheggiano simboli
di potere del popolo del paese della speranza. E per
molti versi, possono essere uguali le parole, le
oratorie spesso qualunquiste, ridondanti, da politico
ipercritico per il passato, poco visionario per il
futuro.
Ma in questi giorni, forse qualcosa va ad evolversi. Un
uomo, o per meglio dire lui ed il suo entourage,
sembrano aver colto quei segni tanto evidenti di
sfiducia e cambiamento negl’occhi del pubblico del nuovo
millennio, assente e deluso.
Nonostante non si possa certo trattare di un cambiamento
radicale, la trasformazione è qualcosa di
particolarmente complesso. Il metabolismo del cittadino,
alimentato coscientemente da confuse pillole di noia e
decisioni irrevocabili, diviene lentamente pigro,
allineato esclusivamente ai bisogni primari, quali
sentire, parlare, toccare. Il comprendere, il vivere e
l’argomentare sembrano da anni lontani dal pubblico
della politica mondiale.
Semplici spettatori, per gli altri e per noi stessi. Mai
votanti.
La notte è iniziata da poco. La tv è accesa, così come
il computer.
Il bombardamento mediatico è iniziato da molto ormai.
Sondaggi volubili che inseguono risultati credibili.
Immagini di volti tesi, di pubblico sugli spalti degli
stadi assediati da cronisti e telecamere, o tra le
strade, vicino a maxi schermi nelle zone centrali delle
city americane.
La tensione è condivisa. La causa è diventata finalmente
causa comune per entrambi gli schieramenti.
John McCain, leone attempato repubblicano, contro Barack
Obama, giovane e avvenente democratico. Lo scontro che
durante i lunghissimi mesi di campagna elettorale si è
delineato, è sensibilmente americano: McCain, il
veterano della guerra più nefasta degli Stati Uniti, il
Vietnam, decisa da un presidente democratico entrato nel
mito come Kennedy, che combatte la guerra della vita
contro un giovane senatore idealista, dalla personalità
magnetica, fuori dagli schemi politici del paese e fuori
dalle linee della politica aggressiva degli ultimi 20
anni.
Da subito però, dall’inizio della nuova corsa
presidenziale nel 2007, la stampa si è concentrata su un
soggetto in particolare.
Troppo carisma, troppa energia intellettuale, troppa
bellezza rassicurante per non essere sotto la lente
d’ingrandimento dell’opinione pubblica. Un percorso
personale e politico anomali, ma potenti per
l’immaginario collettivo.
Obama Barack Hussein esce dai sobborghi di Chicago molto
giovane. Figlio mezzo sangue di un keniota e di
un’americana del Kansas nasce e cresce tra Chicago, le
Hawaii e l’Asia.
Laureatosi due volte, in Scienze Politiche e Relazioni
Internazionali alla Columbia University e dopo qualche
anno, ad Harvard, in giurisprudenza, si muove, nei primi
anni della sua ascesa lavorativa, tra consulenze su
diritti societari per grandi studi legali e attività no
profit per associazione a sostegno dei diritti civili.
Due facce di una stessa medaglia, la società americana,
con i suoi grandi traguardi e le sue profonde
contraddizioni.
Dopo il sostegno, nell’area di Chicago, alla prima
campagna presidenziale di Clinton del 1992, inizia il
suo cammino politico quando, nel 1996, viene eletto come
senatore per lo Stato dell’Illinois al 13° distretto del
quartiere popolare di Hyde Park.
Fino al 2004 quando, dopo una lotta intestina nel
partito democratico per le primarie dell’Illinois al
Senato, Obama divenne candidato unico del partito. La
sua vittoria, condita da una fastosa campagna elettorale
moderna e mediatica, divenne trampolino di lancio
pericoloso.
Eppure il 10 febbraio del 2007 l’impensabile prende
forma.
Un uomo, di colore, giovane, acculturato e liberale si
candida per le presidenziali del 2008, le presidenziali
post W.
Sotto l’ottica di una nuova visione presidenziale, che
va a delinearsi in questa lunga notte, le considerazioni
su Bush possono essere molte, o forse veramente poche.
Il dopo Bush, si sospetta, sarà banco di prova insidioso
per chiunque; potrebbe esserlo anche per lo stesso Bush,
se potesse mai essere rieletto.
Gli ultimi 8 anni sono stati il suo regno assoluto, in
cui nessun grande problema della società americana è
masi stato affrontato in maniera realistica. E lo
strappo finale è arrivato.
La sua idea anacronistica di Stato superficialmente
ordinato e senza smagliature visibili, coattamente
aggregato nella necessità di imporre il proprio pugno
sulle altre nazioni, doveva condurre ad un’egemonia
completa. in cui non c’era confine identificabile tra
interessi di stato ed interessi personali.
Il suo lavoro piuttosto grossolano di banalizzare anche
le risoluzioni più violente e di ingannare nei termini e
nei gesti il popolo che rappresentava, passerà
sicuramente alla storia non per forza come il governo
più attaccabile o peggiore della Storia americana, ma
piuttosto come quello più complesso.
La sua selvaggia caparbietà, la cecità al mondo ostinata
ma cosciente, o la sua arroganza campagnola celata da
sogghigni irriverenti, sicuramente nascondevano molto.
Nell’aver sempre accettato la figura semplicistica ed
ottusa che gli affidavano le satire, si celava la
capacità di essere potente ed influente.
In fondo, se il popolo degli Stati Uniti, i suoi
giornalisti e le sue menti più prestigiose pensavano che
fosse inetto al potere, non potevano fare altro che
parlarne.
Ma perché continuare a votarlo nel 2004, dopo lo
scandalo dell’elezioni strappate ad Al Gore?
Sono proprio queste contraddizioni in termini che
animano qualunque società, quella americana come anche
quella italiana.
Eppure ora, che la notte si è addentrata nel suo
profondo percorso verso l’alba, i risultati
dell’elezione 2008, arrivati ormai alla loro
definizione, sconvolgono.
Sconvolgono il mondo e gli americani stessi.
Perché di speranze mai avveratesi ne è piena la storia.
Perché l’uomo, nonostante la sua fiamma idealistica
perennemente alimentata da pensieri di cambiamenti, è
animale sociale impaurito che arriva sempre a
compromessi lascivi con il potere.
Tradire se stessi è cosa di tutti i giorni.
Tuttavia ora, quello che tutti speravano potesse
succedere ma che credevano impossibile, è avvenuto: il
passaggio necessario da repubblicani a democratici,
assolutamente fisiologico e depurativo, ha il volto e le
connotazioni dell’emblema del riscatto sociale: Barack
Obama.
Non si può ridurre quest’emblema solo ad un fattore
razziale. Barack Hussein Obama sarà sì il primo
presidente americano di colore, nel paese che ha visto
nascere, crescere ed alimentarsi il Ku Klux Klan fino a
farlo addentrare nel profondo della politica, che gli ha
permesso di uccidere Malcom X e Martin Luther King, e
che, nonostante sia fuorilegge e ormai disgregato,
ancora oggi striscia nei sotterranei della società
americana.
Ma è soprattutto un uomo dotato di enorme ed innata
capacità comunicativa.
Un oratore deciso, dalle idee chiare e dal linguaggio
perfetto, né sublimato né gretto.
Durante la sua lunga campagna elettorale, non ha dato
segni di stanchezza o di abbassamento di attenzione;
senza cedere ad atteggiamenti sopra le righe, ha
condotto le sue parole, con fermezza di voce, al suo
pubblico, a quel pubblico scelto per essere il suo
motore trascinante verso la vittoria.
Un uomo giovane ma di cultura, fedele alle cause del
popolo.
E mentre sul mio schermo televisivo le immagini della
vittoria sembrano evidenziare la festa di un intero
popolo riscattato, dopo le critiche da più parti per le
scelte effettuate come popolo votante, di Obama se ne
parla già come un vincitore assoluto
Ed il suo carro, come vuole la tradizione, è già
strapieno di persone salite con lui per il trionfo
finale.
Da domani però, terminata l’euforia del momento, spente
le luci e terminato il periodo di prova, le aspettative
saranno tante e pressanti.
La tensione accompagnerà la scelta del suo governo e la
risoluzione dei nodi internazionali più urgenti: la
crisi economica nascosta negli anni sotto il tappeto
della Casa Bianca, il crack delle borse mondiali,
l’allarme sociale e sanitario che devasta il suo paese,
i conflitti iniziati platealmente dalla famiglia Bush ed
ancora insoluti.
Ma per parlare di vittoria, come veramente debba essere
intesa dopo gli ultimi anni bui americani, si deve
attendere i tempi utili necessari a capire a cosa possa
mai portare questa potente ventata di rinnovamento.
Gli argomenti esistono, hanno spessore nelle parole del
nuovo presidente.
Ed ora che le parole hanno condotto ad un voto, che ha
il volto di un plebiscito, non si può più parlare, ma
agire. |