N. 86 - Febbraio 2015
(CXVII)
FRA TEHERAN E RYAD: YEMEN AL BIVIO
RIBELLI HOUTHI, EX-PRESIDENTI E COLPi DI STATO
di Filippo Petrocelli
Come
ogni
yemenita
che
si
rispetti,
Abdul-Malik
al-Houthi,
leader
dei
ribelli
Houthi,
ci
tiene
a
farsi
ritrarre
con
una
janbiya,
il
coltello
ricurvo
emblema
del
paese.
In
questo
angolo
di
Corno
d’Africa
infatti
si
diventa
uomini
a 14
anni
quando
si
riceve
questo
simbolo
di
maturità,
prestigio
e
virilità.
E
così
l’attuale
uomo
forte
del
paese,
dopo
che
i
ribelli
Houthi
hanno
praticamente
conquistato
il
potere
–
realizzando
una
sorta
di
ibrido
fra
insurrezione
popolare
e
golpe
–
sfodera
sorrisi,
ostentando
una
certa
soddisfazione
e
tutti
i
simboli
della
tradizione
yemenita.
Lo
Yemen
però
è lo
stato
più
povero
del
Medioriente,
abitato
da
circa
24
milioni
di
persone
ma
sospeso
dopo
l’indipendenza
dalla
Gran
Bretagna
nel
1967
perché
diviso
fra
un
Nord
filo-americano
e un
Sud
inserito
nel
blocco
socialista
durante
tutto
il
periodo
della
Guerra
fredda.
Solo
negli
anni
Novanta
il
paese
viene
riunificato
sotto
la
guida
di
Ali
Abd-Allah
Saleh,
già
presidente
dello
Yemen
del
Nord
dal
1978.
Un
terzo
della
popolazione
è
sciita,
ma
per
gli
appartenenti
alla
Shi’ia
le
discriminazioni
sono
continue:
la
maggioranza
sunnita
infatti
avoca
a sé
la
maggior
parte
delle
cariche
politico-amministrative,
considerando
chi
non
è
sunnita
come
un
cittadino
di
serie
B.
Saleh,
uomo
forte
del
paese
per
oltre
trent’anni,
ha
sempre
tutelato
gli
interessi
dei
sunniti
–
essendo
sponsorizzato
dalle
Petromonarchie
del
golfo
– ed
è
proprio
contro
le
discriminazioni
poste
in
atto
dalla
sua
autocrazia
che
i
ribelli
Houthi
si
sono
organizzati.
La
storia
degli
Houthi
inizia
negli
anni
Novanta,
quando
un
gruppo
di
giovani
militanti
sciiti
stanco
della
discriminazione,
decide
di
fondare
prima
il
partito
Al-Haq,
e
poi
Al-Shabab
Al-Momen,
ovvero
la
“Gioventù
credente”
per
organizzare
la
resistenza
al
potere
“sunnita”
ma è
nel
2004
che
la
ribellione
prende
forma
di
resistenza
armata.
I
ribelli
Houthy
sono
oggi
stimati
intorno
ai
10.000-15.000
combattenti,
a
fronte
di
una
più
vasta
rete
di
supporto
e
“fiancheggiamento”,
che
include
anche
personale
non
combattente.
Intorno
al
2005
erano
stimati
fra
i
1.000
e i
3.000,
mentre
nel
2009
fra
i
2.000
e i
10.000;
il
movimento
quindi
è in
forte
ascesa.
Gli
Houthi
sono
zaydi,
ovvero
appartengono
a
una
setta
facente
parte
della
Shi’ia,
molto
diffusa
in
Yemen
(il
40%
dei
musulmani
nel
paese
è
zaydi)
ma
che
affonda
le
sue
origini
nella
tradizione
persiana:
gli
zaydi
sono
sostenitori
di
Zayn
al-ʿĀbidīn,
discendente
diretto
del
profeta
Muhammad
e
figlio
di
Alì.
Il
braccio
politico
del
movimento
si
chiama
Ansar
Allah,
ovvero
“I
partigiani
di
Allah”
e
originariamente
la
roccaforte
del
movimento
era
nella
regione
di
Saada
nella
parte
settentrionale
del
paese.
Lo
storico
leader
del
movimento
si
chiama
Hussein
Badreddin
al-Houthi,
ucciso
nel
settembre
del
2004
in
scontri
con
l’esercito
yemenita
e
fratello
dell’attuale
numero
uno
dei
ribelli,
Abdul-Malik
al-Houthi.
I
problemi
interni
al
paese
che
si
affaccia
sul
golfo
di
Aden
sono
congeniti:
povertà,
siccità
e
carovita
contribuiscono
a
rendere
difficile
la
vita
nel
paese.
Ma è
soprattutto
la
politica
“esclusivista”
praticata
dal
potere
ad
aver
favorito
la
resistenza
Houthi.
Oltre
dieci
anni
di
guerra
civile
hanno
causato
migliaia
di
morti,
esecuzioni
sommarie,
attentati
e
centinaia
di
migliaia
di
sfollati
mentre
nel
2009
c’è
stato
un
intervento
militare
dell’Arabia
Saudita,
mirato
a
tutelare
Saleh
e la
sua
autocrazia.
Tuttavia
il
processo
di
democratizzazione
del
paese
ha
ripreso
vigore
a
cavallo
fra
il
2011-2012,
quando
il
vecchio
presidente
è
fuggito
nei
paesi
del
Golfo,
subito
dopo
essere
stato
deposto
da
un’insurrezione
popolare.
La
paralisi
politica
del
paese
dura
sostanzialmente
dalla
caduta
dell’ex
presidente,
avvenuta
nel
giugno
2011,
quando
il
potere
è
passato
in
mano
a
Abd
Rabbuh
Mansur
Hadi,
suo
vice:
da
quel
momento
gli
Houthi
sono
avanzati
costantemente
incontrando
la
ferma
opposizione
dei
tre
maggiori
partiti
politici
dello
Yemen,
quello
nasseriano,
quello
socialista
e
al-Islah,
il
partito
islamista
vicino
ai
Fratelli
Musulmani.
Inoltre
una
nuova
riforma
costituzionale,
caldeggiata
dall’Arabia
Saudita
che
mirava
a
ridisegnare
il
paese
in
modo
federalista,
ha
fornito
ai
ribelli
un
nuovo
pretesto
per
sollevarsi
contro
Hadi,
il
quale
sembra
voler
radicalizzare
la
politica
anti-houthi
del
suo
predecessore.
Nella
nuova
architettura
statuale
del
paese
infatti
la
parte
“sciita”
del
paese
sarebbe
privata
dell’importante
porto
petrolifero
di
Hadeidah
sul
Mar
Rosso.
Per
questo
l’attuale
confronto
interno
al
paese
non
si
può
semplicemente
leggere
come
scontro
confessionale
e
religioso,
né
soltanto
come
una
rivolta
popolare
ma
anche
come
guerra
per
procura
in
cui
si
intrecciano
e si
scontrano
gli
interessi
delle
diverse
potenze
regionali.
E
così
da
una
parte
l’Iran
gioca
la
sua
carta
per
influenzare
gli
equilibri
regionali
sponsorizzando
il
fronte
Houthi
che
viene
accusato
di
essere
una
quinta
colonna
di
Teheran,
un’ennesima
falange
in
franchising
pronta
ad
esportare
la
rivoluzione
islamica.
Dall’altra
parte
l’Arabia
Saudita
e i
paesi
del
golfo,
storici
rivali
dell’Iran,
interessati
a
contrastare
i
progetti
egemonici
di
Teheran
e a
garantire
lo
status
quo,
ma
orientati
soprattutto
a
far
prevalere
i
loro
interessi
nell’area,
dove
un
altro
stato
filo-iraniano
rappresenterebbe
un
problema
non
da
poco.
Dal
settembre
2014
la
capitale
Sana’a
è
sotto
controllo
Houthi
ma
nel
gennaio
del
2015
si è
consumato
l’assedio
al
palazzo
presidenziale
e la
cacciata
del
presidente
Hadi
come
ulteriore
prova
di
forza
del
movimento.
Nel
frattempo
cresce
nel
sud
del
paese
la
superficie
di
territorio
controllata
da
AQAP
(al-Qaeda
in
Arabic
Peninsula),
che
è
diventato
il
principale
antagonista
dei
ribelli
Houthi,
di
fatto
i
nuovi
padroni
del
paese.
Quello
che
succederà
ora
dipenderà
in
parte
anche
da
Teheran
e
Ryad.