N. 139 - Luglio 2019
(CLXX)
Una finale che entra nella Storia
federer
vs
djokovic
a
wimbledon
di
Riccardo
Filippo
Mancini
“The
Championships”:
così
chiamano
gli
inglesi
l’evento
tennistico
più
antico
al
mondo,
ossia
l’All
England
Lawn
Tennis
and
Croquet
Club,
dal
nome
del
club
ideatore
e
della
sede
storica
dell’evento,
la
cui
prima
edizione
risale
al
lontano
1877.
La
storia
di
Wimbledon,
quell’anno,
iniziò
con
22
partecipanti
e la
vittoria
di
Spencer
Gore
(in
una
edizione
riservata
solo
agli
uomini;
il
torneo
femminile
arrivò
pochi
anni
dopo,
nel
1884,
con
la
vittoria
di
Maud
Watson
contro
la
sorella
Lilian).
Quello
di
Wimbledon
è un
torneo
fondamentale
anche
per
la
storia
dello
sport,
perché
rappresenta
il
passaggio
tra
il
jeu
de
paume,
antenato
del
tennis,
e il
tennis
vero
e
proprio
che
(chiaramente
evoluto
nel
tempo)
tutti
noi
oggi
conosciamo.
Di
certo
si
può
dire
che
i
britannici
quando
si
tratta
di
inventare
discipline
sportive
non
sono
secondi
a
nessuno.
Nel
corso
di
questi
lunghi
142
anni
di
storia
(e
133
edizioni
con
quella
appena
andata
in
archivio)
si
sono
susseguiti
molti
tennisti
rimasti
nella
storia,
alcuni
dei
quali
hanno
dato
vita
a
delle
rivalità
rimaste
nella
memoria
collettiva.
Nei
primi
decenni
del
torneo
a
farla
da
padroni
furono
dei
fratelli:
prima
William
ed
Ernest
Renshaw,
che
erano
addirittura
gemelli,
vincitori
delle
edizioni
tra
il
1881
e il
1890
(tranne
una
vinta
da
Lawford.
William
Renshaw
in
particolare
vinse
7
titoli
nel
singolare
maschile,
record
poi
eguagliato
da
Sampras
e
superato
da
Federer);
poi
ancora
Reginald
e
Lawrence
Doherty,
che
si
spartirono
quasi
tutte
le
edizioni
fino
al
1906.
Il
primo
vincitore
non
britannico
fu
l’australiano
Norman
Brookes
nel
1907.
Arrivò
poi
la
prima
guerra
mondiale
e lo
stop.
Alla
ripresa
il
tennis
cominciò
a
crescere
e ad
avere
le
sue
prime
Star:
Suzanne
Lenglen
tra
le
donne
e
Bill
Tilden
tra
gli
uomini.
Fu
una
fase
nuova,
che
portò
proprio
Wimbledon
a
crescere,
con
la
costruzione
del
mitico
Centre
Court,
lo
stadio
che
tutt’oggi
ospita
le
finali.
Dopo
la
seconda
guerra
mondiale
arrivarono
altre
figure
sempre
più
iconiche:
campioni
come
Kramer
e
ancor
di
più
l’australiano
Rod
Laver,
tra
le
ladies
la
Osborne
e la
Connelly.
Punto
di
svolta
furono
gli
anni
‘60,
con
l’avvento
del
professionismo:
battaglia
che
vide
schierata
l’organizzazione
dei
Championships
in
prima
linea.
Nel
1967
infatti
Wimbledon
ospitò
una
edizione
riservata
ai
soli
professionisti,
forzando
la
mano
sulla
questione.
I
frutti
arrivarono
subito
dopo:
nel
1968
iniziava
l’era
Open.
Prima
del
1976
a
dominare
furono
gli
americani:
Stan
Smith,
Jimmy
Connors
e
Arthur
Ashe.
Si è
voluto
sottolineare
il
1976
perché
in
quell’anno
conquistò
la
prima
delle
sue
5
vittorie
consecutive
un
certo
Björn
Borg:
figura
quasi
mitologica
non
solo
per
il
tennis,
ma
anche
per
lo
sport
in
generale.
Lo
svedese
fu
un
grandissimo
in
campo
e fu
protagonista
di
una
delle
rivalità
più
belle
ed
intense
che
il
tennis
ricordi,
quella
con
l’americano
John
McEnroe
(tanto
che
nel
2017
è
uscito
un
film,
“Borg
McEnroe”,
che
racconta
la
finale
di
Wimbledon
tra
i
due
giocatori
nel
1980).
In
quegli
anni
Martina
Navratilova
dominava
il
circuito
femminile,
arrivarono
poi
i
vari
Edberg,
Becker,
Agassi
e
soprattutto
Pete
Sampras,
capace
di
conquistare
la
coppa
di
Wimbledon
per
ben
7
volte.
Il
suo
regno
si
interromperà
nel
2001,
quando
l’americano
fu
sconfitto
ai
quarti
di
finale
da
un
giovane
e
talentuoso
ragazzo
svizzero:
proprio
lui,
sua
maestà
Roger
Federer.
Parliamo
di
storia
recente,
di
ben
8
titoli
vinti
sull’erba
londinese,
record
di
sempre.
Insomma
il
Re
non
ha
bisogno
di
troppe
presentazioni.
Epica
la
sua
finale
persa
con
Nadal
nel
2008
(in
quello
che
resta
l’unico
successo
di
Rafa
ai
Championships)
dopo
le 5
vittorie
consecutive
tra
2003
e
2007.
Poi
la
vittoria
nel
2009,
quella
nel
2012
e
quella
nel
2017.
Senza
dubbio
nell’immaginario
collettivo
del
tennis
contemporaneo
la
rivalità
per
eccellenza
è
quella
tra
lo
svizzero
il
campione
maiorchino.
“Fedal”
è
andata
in
scena
per
ben
40
volte,
l’ultima
nella
semifinale
di
questa
edizione,
dopo
ben
11
anni
che
i
due
non
si
incrociavano
sull’erba
di
Wimbledon
(proprio
dalla
finale
del
2008),
terminata
con
la
vittoria
del
campione
svizzero.
Questo
excursus
storico
era
quasi
doveroso
nei
confronti
di
un
torneo
così
importante,
per
costruire
una
lunga
introduzione
alla
finale
di
Wimbledon
2019.
Una
finale
pazzesca.
Se
da
una
parte
c’era
come
detto
Federer,
dall’altra
come
poteva
non
trovarsi
il
dominatore
dell’ultimo
decennio,
ossia
Novak
Djokovic?
Il
serbo
è
sicuramente
un
giocatore
incredibile,
solidissimo,
capace
di
vincere
contro
tutto
e
tutti.
Già
perché
il
buon
Novak
non
ha
mai
fatto
veramente
breccia
nei
cuori
degli
appassionati
di
tennis,
schiacciato
dal
dualismo
Federer-Nadal
che
ha
monopolizzato
l’ultimo
ventennio.
Lui
è
quasi
il
terzo
incomodo,
quello
che
volendo
non
si
inviterebbe
sempre
alla
festa,
sacrificato
sull’altare
per
far
posto
agli
altri
due.
Ma
parliamo
di
uno
che
negli
ultimi
11
anni
ha
vinto
16
titoli
Slam
(Federer
e
Nadal
sono
rispettivamente
ad
un
totale
di
20 e
18
nell’arco
della
carriera),
di
cui
5
proprio
a
Wimbledon
con
l’ultimo
successo.
Numero
uno
del
tennis
mondiale
con
poche
interruzioni,
avanti
negli
scontri
diretti
con
Federer,
Nadal
e
anche
con
Andy
Murray
(il
quarto
moschettiere,
anche
se
molto
meno
vincente).
Una
macchina
da
guerra.
Che
però
quasi
ogni
volta
che
gioca
contro
gli
altri
big
si
ritrova
col
tifo
contro.
La
chiave
dei
suoi
successi
è la
forza
mentale
che
Novak
ha
sviluppato
negli
anni,
oltre
ovviamente
ai
colpi
(su
tutti
il
rovescio)
del
suo
gioco.
Arriviamo
al
dunque:
14
luglio
2019,
Centre
Court,
All
England
Lawn
Tennis
and
Croquet
Club,
Wimbledon,
Londra.
Da
una
parte
della
rete
il
Re,
dall’altra
il
campione
robotico.
Fare
una
cronaca
dettagliata
della
finale
richiederebbe
forse
100
articoli,
per
quanto
è
stata
intensa,
emozionante
e
ricca
di
colpi
di
primo
livello,
una
partita
“top”
anche
tecnicamente.
Qualcosa
però
dobbiamo
raccontarla.
Il
primo
set
è
stato
molto
equilibrato:
una
sola
palla
break
a
favore
di
Federer
non
sfruttata
e
arriva
il
tie-break.
Qui
però
lo
svizzero
si
smarrisce,
non
gioca
lucidamente
e
alla
fine
il
primo
set
lo
vince
Djokovic
7-6,
con
la
sensazione
che
Roger
abbia
sprecato
un’occasione.
Si
vociferava,
prima
del
match,
che
a
quasi
38
anni
e
reduce
da
una
semifinale
molto
dispendiosa,
Federer
non
avrebbe
avuto
alcuna
chance
di
vittoria
perdendo
il
primo
set.
Ma
nel
secondo
set
il
numero
uno
del
seeding
quasi
non
è
sceso
in
campo:
6-1
agevole
per
Re
Roger,
con
Djoko
capace
di
conquistare
solamente
12
punti
in
tutto
nei
7
game
giocati.
Una
miseria.
Due
modi
di
giocare
a
tennis
molto
diversi:
Federer,
che
negli
anni
si è
senza
dubbio
evoluto
(prima
sotto
la
guida
di
Edberg
poi
negli
ultimi
anni
tra
le
mani
di
Ljubicic),
ha
un
gioco
molto
vario,
alterna
colpi
da
fondo
al
solito
gioco
a
rete
meraviglioso,
serve
&
volley,
colpi
in
controbalzo,
tende
ad
accorciare
lo
scambio
cercando
il
vincente,
rischia.
La
macchina
Djokovic
invece
fa
della
costanza
il
suo
mantra:
meno
soluzioni
spettacolari
(che
pure
tira
fuori
soprattutto
col
rovescio)
e
tanta
tanta
solidità,
con
la
solita
risposta
efficacissima
e la
sensazione
che
per
fargli
punto
serva
giocare
un
tennis
perfetto.
Il
terzo
set
sembra
essere
la
fotocopia
del
primo:
si
conclude
nuovamente
al
tie
break,
e
vede
lo
stesso
epilogo:
7-6
con
Djokovic
vince
ancora
e
sale
due
set
a
uno.
Di
nuovo
si
ha
la
forte
sensazione
che
Federer
debba
soccombere,
pur
giocando
un
grande
tennis
e
regalando
colpi
incredibili.
Ma
il
mago
svizzero
non
arretra
di
un
singolo
centimetro:
parte
forte
nel
quarto
parziale
e si
porta
sul
5-2,
salvo
poi
perdere
per
la
prima
volta
il
servizio
(sì,
al
quarto
set
e
dopo
quasi
4
ore
di
gioco)
permettendo
a
Djokovic
di
accorciare
le
distanze
e
portarsi
sul
5-4,
ma
andando
comunque
a
chiudere
sul
6-4
allungando
la
partita
al
quinto
set.
Il
pubblico
del
Centre
Court
è
andato
in
visibilio
nel
vedere
il
vecchio
leone
ancora
reattivo
e
competitivo
dopo
ore
di
gioco.
C’è
da
fare
una
piccola
(grande)
precisazione:
per
la
prima
volta
nel
torneo
di
Wimbledon
si è
deciso
di
introdurre
il
tie-break
al
quinto
e
decisivo
set,
ma
solo
in
caso
di
12
game
pari.
Il
set
è
tiratissimo
e i
primi
segni
di
stanchezza
affiorano,
anche
nel
robot
Djokovic.
I
due
campioni
però
si
sfidano
senza
esclusione
di
colpi,
e
ogni
game
regala
grandissime
emozioni.
Il
numero
uno
serbo
mette
la
testa
avanti
conquistando
il
break
e
portandosi
sul
4-2;
potrebbe
sembrar
finita
ma
Federer
reagisce
e
pareggia
prontamente
i
conti.
Sul
5-5
altro
momento
difficile
per
Nole,
che
con
un
tuffo
spettacolare
evita
di
concedere
due
pericolosissime
palle
break
all’avversario.
Ma
Federer
riesce
a
mettere
la
testa
avanti:
sul
7-7
strappa
il
servizio
a
Djokovic
e
vola
a
servire
per
match
sull’8-7.
Lo
svizzero
gioca
bene
e si
procura
due
match
point:
qui
però,
come
accaduto
durante
i
tie-break,
perde
sicurezza.
Fallisce
la
prima
occasione
mandando
largo
un
dritto;
sul
secondo
match
point
attacca
a
rete
ma
viene
trafitto
da
un
grande
passante.
L’inerzia
del
game
si
sposta
dalla
parte
di
Djokovic
che
conquista
il
break
e si
porta
8-8,
strozzando
il
gol
l’urlo
di
gran
parte
del
pubblico
londinese.
Quando
si
dice
forza
mentale,
si
potrebbe
anche
dire
Djokovic,
come
fosse
un
sinonimo.
I
due
arrivano
al
fatidico
12-12
e
qui
il
tie-break,
come
i
due
precedenti,
non
ha
storia:
finisce
con
un
dritto
steccato
da
Federer
e il
trionfo
per
Novak
Djokovic,
che
si
prende
il
suo
Wimbledon
numero
5.
Lo
score
recita
7-6,
1-6,
7-6,
4-6,
13-12.
I
due
si
complimentano
a
vicenda,
stremati
dalla
fatica;
e lo
siamo
anche
noi,
dopo
una
maratona
televisiva
durata
ore.
Djokovic
ha
vinto
(o
forse
Federer
ha
perso:
se
avesse
vinto
lo
svizzero
siamo
certi
che
non
si
sarebbe
celebrata
la
grandiosa
finale
ma
la
grandiosa
vittoria
del
Re)
conquistando
tre
tie-break
e
stringendo
il
concetto
il
trionfo
è
tutto
racchiuso
nell’aver
giocato
meglio
i
punti
decisivi.
Ha
annullato
due
match
point
per
avere
la
meglio
sul
rivale,
cosa
che
non
accadeva
da
queste
parti
dal
1948.
Ma
cosa
non
nuova
per
lui:
è
infatti
la
terza
volta
che
batte
Federer
annullandogli
dei
match
point.
Dal
canto
suo
il
fenomeno
svizzero
ha
perso
per
ben
22
volte
in
carriera
quando
ha
avuto
match
point
a
favore.
La
differenza
stavolta
l’hanno
fatta
davvero
i
dettagli,
anche
se
per
Federer
non
sarà
certo
facile
digerire
quei
due
match
point
falliti
e
l’occasione
persa
di
conquistare
Wimbledon
a 37
anni
e
340
giorni,
che
sarebbe
stato
record
per
uno
Slam
nell’era
Open
(il
primato
resta
a
Ken
Roswell
che
nel
1972
vinse
in
Australia
a 37
anni
e 62
giorni).
Tra
l’altro
dopo
aver
battuto
Nadal
in
semifinale.
Ma
in
carriera
lo
svizzero
non
è
mai
riuscito
a
vincere
uno
Slam
battendo
i
suoi
due
rivali
più
importanti,
e la
statistica
si è
confermata,
inesorabile,
anche
stavolta.
Con
le
sue
4.57
ore
la
finale
di
questa
edizione
diventa
la
più
lunga
di
sempre
sull’erba
londinese
(e
la
seconda
di
sempre
negli
Slam,
dopo
Djokovic-Nadal
agli
Australian
Open
del
2012,
durata
ben
5.53
ore),
superando
di
una
manciata
di
minuti
quella
del
2008
tra
lo
stesso
Federer
e
Nadal.
Un
match
da
record
e la
sensazione,
fortissima,
di
aver
assistito
ad
uno
spettacolo
che
entrerà
di
diritto
nella
storia
del
tennis
e
dello
sport.
Che
Dio,
o
chi
per
lui,
ci
conservi
a
lungo
questi
fenomeni
della
racchetta.