N. 7 - Luglio 2008
(XXXVIII)
Wimbledon
La tradizione sopra
ogni cosa
di Simone Valtieri
C’è una targa, affissa su un muro del residence
Manor Court a Royal Leamington, piccola cittadina
inglese a trenta chilometri da Birmingham.
Liberamente tradotta recita così: “Nel 1872 il
sindaco Harry Gem e il suo amico Mr. J. B. A.
Pereira insieme al dottor Frederic Haynes e al
dottor A. Wellesley Tomkins fondarono il primo
circolo di tennis sull’erba nel mondo, e giocarono
la prima partita nei prati qui attigui”. E’ da lì,
da quella cittadina nella contea del Warwickshire,
che indirettamente nasce Wimbledon, il più antico e
prestigioso torneo tennistico del mondo.
In realtà il tennis giocato nel loro match
inaugurale dai quattro esimi personaggi sopra
citati, era sport ben lontano da quello che oggi noi
tutti conosciamo, visto anche il fatto che il vero e
proprio gioco del tennis fu “brevettato” dal
maggiore inglese Walter Clopton Wingfield, il 23
febbraio del 1874, cioè solo due anni più tardi.
L’antenato era il “jeu de paume”, letteralmente
“gioco del palmo”, in cui si usava, appunto, il
palmo della mano al posto della racchetta e le cui
regole furono codificate nel 1592 a Parigi. Solo
successivamente si iniziarono ad utilizzare
rudimentali racchette in legno. In Italia, praticata
già nel XIII secolo, esisteva la pallacorda,
chiamata così in quanto bisognava mandare la palla
nel campo avversario facendola passare sopra una
cordicella tesa a metà dello stesso. In ogni caso
nel maggio del 1875 vengono stabilite venticinque
regole di gioco e il primo campionato di tennis
della storia si svolge due anni più tardi a
Wimbledon, un quartiere periferico di Londra.
Torniamo per un attimo a Royal Leamington. La città
si fregia del prefisso “Royal” per il fatto che la
regina Vittoria vi soggiornava periodicamente,
proprio al Manor Court. Il fatto è che un tempo
l’unica palazzina di mattoncini rossi presente in
quel luogo era la residenza settecentesca di un
sindaco, che divenne poi una scuola, poi un ospedale
e poi ancora un club riservato ai soli nobili e
reali: il Manor Court appunto. Da venti anni a
questa parte invece è presente un altro edificio in
mattoncini rossi, un residence di sette piani, che
ha rilevato il nome dell’elitario circolo, e che è
stato edificato accanto alla vecchia sede, proprio
nel posto in cui una volta sorgeva lo storico campo
da tennis del primo match della storia, sollevando,
come si può facilmente immaginare, un nugolo di
polemiche.
Ad organizzare il torneo è, dal 1877, l’All England
Lawn Tennis & Croquet Club, oggi uno dei più
esclusivi club del mondo. I membri permanenti
possono essere al massimo 375, non uno di più. Per
entrare a farne parte e sorseggiare il tè con gli
altri membri nella Club House, bisogna essere
invitati da almeno quattro soci previa approvazione
del consiglio direttivo. Sulla porta del Club è
scritta una frase tratta dalla poesia If del poeta
Rudyard Kipling: “Se puoi andare incontro al trionfo
e al disastro, e trattare questi due impostori allo
stesso modo”. (La poesia elenca una serie di
consigli e obiettivi che il figlio dello scrittore
dovrebbe raggiungere per diventare adulto n.d.r.)
E’ luogo comune, forse neanche tanto inventato, dire
che gli inglesi siano tradizionalisti. Se questo è
vero, Wimbledon ne è l’esempio più evidente. E’
luogo comune anche dire che gli inglesi siano popolo
ricco di contraddizioni. Se questo è vero, Wimbledon
ne è ancora l’esempio più evidente. In poche parole
Wimbledon è l’Inghilterra. A cavallo tra giugno e
luglio di ogni anno, il Paese intero segue con
passione le vicende sportive dei propri beniamini,
che in realtà non trionfano sull’erba locale da
oltre settant’anni, e di tutti i campioni
internazionali che si sfidano per vincere il trofeo
in palio in un tabellone che conta 128 iscritti, il
tutto condensato nelle due settimane in cui la
pallina gialla schizza da una parte all’altra
sull’erba del circolo. In nessun evento sportivo al
giorno d’oggi vi è un profumo di “antico” come
quello che i giocatori respirano varcando i Doherty
Gates, la celebre entrata del campo centrale.
Profumo di “antico”, ma anche anacronistici problemi
organizzativi che ogni anno irritano la gran parte
degli atleti partecipanti.
Andiamo per ordine. Wimbledon mantiene intatte nel
tempo quante più tradizioni è possibile mantenere in
oltre centotrenta anni di storia. Essendo il tennis
sport dalle “nobili origini”, o meglio, “originato
da nobili”, Wimbledon ancora oggi conserva un alone
aristocratico, mondano e molto elitario. Non è roba
per il popolo, in poche parole, anche perché il
costo di un biglietto sul campo centrale per una
partita della seconda settimana, ossia della fase
calda del torneo, supera quelle che sono le
possibilità economiche di un cittadino medio, anche
se in verità il problema maggiore non è sborsare
oltre 100 euro per il posto più economico, ma
trovare un qualsiasi tagliando d’ingresso. Per i
“Championships” in ogni caso, come chiamano il
torneo da quelle parti, molti inglesi farebbero
follie, e quelli che non possono si accontentano di
seguirlo in televisione. Chi non farebbe follie in
molti casi sono proprio i giocatori, a cui spesso le
“rules” (regole) che l’All England Lawn Tennis &
Croquet Club lascia pressoché immutate da cento e
passa anni, non vanno proprio giù.
I tennisti si lamentano per prima cosa degli
spogliatoi: alle teste di serie del torneo spettano
quelli migliori, agli altri giocatori invece viene
assegnato un posto più angusto e caotico, che rende
anche difficile, ai giornalisti e ai supporter,
rintracciare gli stessi dopo il match. Poi c’è il
problema dei pass che ogni torneo distribuisce ai
giocatori per gli allenatori, i parenti e gli amici,
e che a Wimbledon non può essere più di uno, con le
dovute eccezioni per gli idoli locali e
internazionali. A tal proposito è significativo ciò
che successe a Andrei Medvedev, giocatore ucraino
che arrivò in finale al Roland Garros,
prestigiosissimo torneo parigino, nel 1999. Giunto a
Wimbledon chiese due pass per lui e per il
massaggiatore, gli risposero che ne poteva avere
solo uno, poi lo riconobbero e gli dissero “Ah, sì,
è stato in finale a Parigi, dovrebbe averne due, ma
non è possibile, sorry” suscitando le ire del
tennista che replicò seccato che avrebbe preferito
andare in vacanza due settimane, piuttosto che
partecipare al torneo. Altra lamentela è quella di
disputare molto spesso le qualificazioni e i primi
turni del torneo su campi troppo piccoli,
ravvicinati e con l’erba simile a quella di una
brughiera.
Lo spirito fortemente aristocratico e
tradizionalista del torneo emerge comunque da tanti
altri piccoli particolari. Gli atleti sono obbligati
ad indossare una tenuta rigorosamente bianca; il
giudice di sedia quando annuncia il punteggio o
presenta i contendenti, appella tutti i giocatori
come “Gentleman” o semplicemente con il cognome,
mentre le giocatrici sono chiamate “Miss” o “Mrs”. I
colori simbolo del torneo sono il verde e il viola,
presenti nel logo ma soprattutto nella moltitudine
di fiori disseminata per tutto il villaggio e gli
impianti. Il torneo si disputa ogni anno sei
settimane prima del primo lunedì di agosto, ne dura
due e non si gioca nella domenica centrale in onore
della Regina, salvo tre eccezioni nella storia,
quando la pioggia insistente costrinse a giocare
anche in quel giorno per recuperare alcuni incontri.
Il pubblico del torneo è solito mangiare fragoline
del Kent annegate nello champagne, o sorseggiare il
Pimm, un cocktail a base di gin, limonata e frutta.
Si calcola che i 500 mila appassionati che accorrono
ogni anno consumino complessivamente ventisette
tonnellate di fragole, dodicimila bottiglie di
champagne e ottantamila bicchieri di Pimm.
La pioggia è sempre malauguratamente protagonista a
Wimbledon. Quasi più caratterizzante dell’erba.
Grazie alle bizze meteorologiche londinesi è
diventato celebre Sir Alan Mills, un distino signore
sempre in doppiopetto, che entra in campo insieme al
giardiniere, si china a tastare il terreno, osserva
il cielo, pensa, rimugina, ripensa e poi dà l’ordine
a un esercito di addetti di srotolare la coperta per
proteggere i campi. Da quando il giudice decide di
sospendere l’incontro, i giardinieri sono in grado
di stendere il telo in meno di trenta secondi, e ciò
non deve sorprendere in quanto essere groundsmen in
Inghilterra è un mestiere considerato molto
qualificato e che necessita di una laurea. Il telo
coprente è tecnologico e lascia filtrare aria e
luce, è così da quando nel 1996 tre giorni di campo
coperto a causa della pioggia rese il prato
inutilizzabile. L’erba, piantata su uno strato di
argilla che rende dura la superficie e permette alla
pallina di rimbalzare, è ottenuta da una miscela di
semi di varie qualità, per far sì che i fili
rimangano verticali anche dopo essere stati
calpestati. Nonostante le buone intenzioni, ottenere
questo risultato è in realtà quasi impossibile,
tant’è che dopo pochi giorni di gara il terreno
diventa un misto di terriccio, sabbia e ciuffi
d’erba logori che è reso agibile soltanto grazie al
grandissimo lavoro di preparazione prima e di
manutenzione durante, che gli addetti fanno
quotidianamente.
In ogni caso l’erba per Wimbledon è considerata
sacra e per tradizione prima del torneo l’accesso al
campo centrale è permesso soltanto a quattro donne
che vi giocano per collaudare il prato. Dopo il
torneo il manto erboso può essere calpestato solo
dal presidente del club e dai suoi ospiti ma
soltanto la settimana successiva alla finale, perché
dal giorno seguente bisogna iniziare a preparare il
prato per l’anno successivo. Nell’impianto Centre
Court è aperto tutto l’anno un museo del tennis,
forse unico al mondo, in cui è conservato un volume
stampato a Venezia nel 1535, “Trattato del giuoco
della palla” che descrive minuziosamente un antenato
del tennis, praticato nel Rinascimento nei cortili
dei monasteri o nelle prigioni. Nel museo gestito da
una elegante signora, Honor Godfrey, è presente
persino un tagliaerba del 1830 con il quale venivano
rasati i prati per i giochi antenati del tennis.
Tante cose sono cambiate dall’originario torneo di
Wimbledon del 1877. Il primo vincitore dei
Championships fu un inglese, Spencer Gore, che
trionfò in finale davanti a duecento spettatori
ciascuno dei quali aveva sborsato uno scellino per
godere dello spettacolo. L’unico evento disputato
allora fu il torneo di singolare maschile, sette
anni più tardi Wimbledon aprì alle donne, e la prima
Miss ad aggiudicarsi il Rosewater Dish, un vassoio
argentato che va in premio alla vincitrice, fu Maud
Watson. Maud vinse il torneo sconfiggendo in finale
sua sorella Louise. Uno storico dipinto le ritrae
vestite e intabarrate dalla testa ai piedi durante
la finale del 1884. L’anno successivo Maud bissò il
successo battendo in finale la connazionale Blanche
Bingley, confermando il suo titolo negli anni di
quello che fu il primo dominatore del torneo:
William Renshaw, capace di aggiudicarsi i campionati
maschili ben sette volte di cui sei consecutive dal
1881 al 1886.
I primi vincitori del torneo erano tutti di
nazionalità inglese, se non altro perché a
parteciparvi erano soprattutto i giocatori
d’oltremanica. La prima vittoria straniera che si
ricordi fu quella della statunitense Mary Sutton in
campo femminile nel 1905 e due anni più tardi quella
dell’australiano Norman Brooks in ambito maschile.
Brooks vinse nello stesso anno anche il torneo di
doppio maschile, che si disputava dal 1879. Per il
doppio femminile bisognerà attendere invece il 1913,
anno in cui partì anche la competizione di doppio
misto. Nei primi trentacinque anni di vita del
pionieristico torneo, si ricordano i nomi degli
inglesi Wilfried Baddeley e Arthur Gore, con tre
affermazioni a testa, di Anthony Wilding,
neozelandese che lo monopolizzò dal 1910 al 1913, ma
soprattutto dei leggendari fratelli Doherty, Reggie
e Laurie, che si aggiudicarono nove titoli su dieci
tra il 1897 e il 1906, accaparrandosi
contemporaneamente anche otto tornei di doppio. In
campo femminile quattro Mrs britanniche su tutte si
spartirono la gran parte dei successi in quel
periodo: Blanche Bingley Hillyard vinse sei tornei,
Lambert Chambers quattro, Lottie Dod, ancora la più
giovane vincitrice dei Championships a meno di
sedici anni, e Charlotte Cooper Sterry cinque,
quest’ultima vincendo il suo ultimo titolo ben
tredici anni dopo il primo. C’è da dire in ogni caso
che in quegli anni vigeva la regola del challenge
round, in pratica gli sfidanti si affrontavano tra
di loro in un impegnativo tabellone dal quale il
campione o la campionessa uscente era esentata. Così
era più probabile che chi difendeva il titolo, senza
tutte le fatiche delle qualificazioni, avesse buone
chanches di riconquistarlo.
La prima guerra mondiale sospese inevitabilmente il
torneo fino al 1919. Due anni dopo la ripresa del
torneo fu decisa l’abolizione del challenge round,
per questo motivo assumono particolare significato i
sei titoli conseguiti dalla francese Suzanne
Lenglen, cui se aggiungiamo gli altri sei titoli
vinti nel torneo di doppio e i due in quello di
doppio misto, si guadagna di diritto un posto di
primo piano nella storia del tennis. Soprannominata
“ballerina dei gesti bianchi”, Suzanne detiene un
record particolare, quello di non aver mai ceduto un
match point nel dopoguerra. Morì giovanissima a 39
anni di anemia, ma il suo gioco perfetto ed elegante
la annovera ancora oggi tra le migliori giocatrici
di sempre. Tutti i suoi titoli di doppio li vinse
insieme all’americana Elizabeth Ryan, la doppista
più vincente della storia del torneo con dodici
affermazioni.
Contemporaneamente alla fine del dominio di Suzanne
Lenglen in campo femminile, nacque quello dei suoi
connazionali in campo maschile, i quattro
moschettieri francesi Jean Borotra, Henri Cochet,
René Lacoste e Jacques Brugnon. I primi tre si
spartirono equamente i sei tornei dal 1924 al 1929,
il quarto ebbe più fortuna nel doppio,
aggiudicandosi quattro titoli. Erano comunque anche
gli anni di William “Bill” Tilden, un esteta del
tennis. Si dice di lui che studiasse ogni colpo
direttamente sul manuale del tennis e si allenasse a
riprodurlo quanto più fedelmente possibile alla
descrizione dello stesso. L’americano, di
intelligenza sopraffina e capace di aperture
geometriche sul campo da gioco, vinse tre volte, nel
1920, 1921 e 1930. Dal 1927 al 1938 Hellen Wills
Moody fu capace di vincere otto titoli di singolare
femminile, record che rimarrà imbattuto fino agli
inizi degli anni ’90.
E venne il 1936, anno topico per il tennis
anglosassone. Fred Perry si era appena aggiudicato i
terzi Championships consecutivi sull’erba verde del
Centre Court, ma non immaginava, così come i suoi
connazionali, che quello sarebbe rimasto per decenni
l’ultimo titolo vinto da un inglese nel torneo di
singolare maschile. Ancora oggi nessun altro suddito
della regina dopo Perry è riuscito a conquistare la
coppa in argento e oro che spetta al vincitore. Ci
hanno provato in tanti, Bunny Austin già nel 1937
raggiunse la semifinale e la finale nel 1938, e lì
si arrese. Nel 1961 Mike Sangster approdò alle
semifinali, che furono l’ultima tappa anche per lui.
Ancora alle semifinali si fermarono per ben tre
volte Roger Taylor nel 1967, 1970 e 1973, e per
quattro volte Tim Henman tra il 1998 e il 2002. In
campo femminile la situazione è meno drammatica,
visto che l’ultima a trionfare fu nel 1977 Virginia
Wade.
Gli ultimi fuochi d’artificio del torneo, prima che
altri fuochi di origine nefasta costrinsero gli
organizzatori alla sospensione fino al 1946, li
sparò Donald Budge, capace di aggiudicarsi i
campionati al terzo tentativo nel 1937 e di bissare
l’anno successivo compiendo un’impresa mostruosa,
ossia aggiudicandosi tutti e quattro i tornei dello
Slam, di cui Wimbledon fa parte insieme al Roland
Garros di Parigi, agli Australian Open di Melbourne
e agli U.S. Open di New York. In pratica un’impresa
tanto difficile e prestigiosa da riuscire solo ad un
altro tennista nella storia: Rod Laver nel 1962 e
nel 1969. La guerra lasciò anche qualche ferita
visibile su Wimbledon: in mezzo al campo centrale si
aprì una voragine e le zone circostanti non erano in
condizioni migliori. Questo non impedì però che il
torneo ripartisse nel 1946. In campo maschile fino
agli anni Sessanta non vi furono dominatori, ma
vincitori differenti ogni anno, tra cui l’americano
Jack Kramer, che nel 1946 dovette arrendersi a una
vescica più che al suo avversario, il francese Yvon
Petra, per poi rifarsi nel 1947. Nei sette incontri
disputati in quell’anno vinse 137 games su 174, con
il 78% ancora oggi score record per un tennista a
Wimbledon. Tra le Miss erano gli anni del dominio a
stelle e strisce, ininterrotto dal 1938 al 1958, con
le affermazioni di campionesse quali, tra le altre,
Louise Brough, Doris Hart, Maureen Connolly e Athea
Gibson. La Connolly è una delle tre sole tenniste
nella storia capaci di eguagliare le imprese di
Budge e Laver e di vincere il “Grande Slam”, insieme
all’australiana Margareth Smith-Court, che si
affermò ai campionati tre volte tra il 1963 e il
1970, e la tedesca Steffi Graf che fece suo il
torneo ben sette volte tra il 1988 e il 1996.
Siamo agli anni ’60, il grande dominatore del tennis
mondiale e allo stesso tempo dominatore mancato di
Wimbledon è Rod Laver. Già accennate le sue imprese,
va aggiunto che Laver vinse il torneo nel 1961 e
1962, salvo poi non poter partecipare fino al 1968
perché fino a quell’anno il torneo era chiuso ai
tennisti professionisti, e tale era diventato Laver
nel 1963. Con l’inizio dell’era Open Rod Laver,
forse il più grande tennista australiano di tutti i
tempi, vinse altri due tornei e la domanda che
rimarrà per sempre senza risposta è: “Chi avrebbe
vinto i tornei dal 1963 al 1967 se vi avesse
partecipato Rod?” La risposta non è così scontata,
perché in quegli anni parteciparono al torneo altri
grandi campioni, come i suoi connazionali Roy
Emerson e John Newcombe, capaci di aggiudicarsi in
carriera rispettivamente due e tre campionati, ma il
talento e la bravura del tennista di Rockhampton fa
intuire che probabilmente non sarebbero rimasti
“solo” quattro i Championships vinti se avesse
potuto partecipare a quelle edizioni.
Tra le donne in quegli anni è lotta aperta tra
l’australiana Margaret Smith-Court, l’americana
Billie-Jean Moffitt-King e la brasiliana Maria Ester
Bueno. Le tre si aggiudicarono rispettivamente tre,
sei e ancora tre Championships, per poi lasciare
gradatamente spazio alla generazione successiva con
Evonne Goolagong, altra australiana, capace di
imporsi due volte a nove anni di distanza l’una
dall’altra (1971 e 1980), Chris Evert, bellissima
tennista bimane americana, capace di colpire la
pallina elegantemente anche col rovescio a due mani,
vincente nel 1974, 1976 e 1981, e Virginia Wade,
ultima inglese capace di affermarsi in casa, nel
1977.
Dopo di loro due soli nomi: Martina Navratilova e
Steffi Graf. Due delle leggende del tennis mondiale:
la prima, cecoslovacca naturalizzata in seguito come
americana, vincerà in totale nove tornei, record dei
record, cominciando nel 1978 e terminando nel 1990,
aggiungendo agli stessi altri dodici titoli tra
doppio e doppio misto, l’ultimo dei quali nel 2003
alla straordinaria età di quarantasei anni. Martina
terminerà la carriera più volte per poi riprenderla
in ere tennistiche distanti ormai venti anni dalla
sua ed essere capace di competere ancora a livelli
altissimi. Concluderà, si crede ormai
definitivamente, la sua carriera a Wimbledon con
quell’affermazione in doppio misto dopo oltre 319
match giocati sull’erba dei campi londinesi, un
record difficilmente battibile nei secoli a venire.
La seconda, Steffi Graf, tedesca occidentale, capace
di sette affermazioni due delle quali prima della
caduta del muro di Berlino. Chiuderà la sua carriera
nel 1999, con quasi il 90% di match vinti sul totale
di quelli giocati (900 su 1015) dopo la conquista
del ventiduesimo torneo dello slam, il Roland Garros
di quell’anno, dietro in questa classifica solo a
Margaret Smith-Court che ne collezionò due di più.
In campo maschile il ventennio compreso tra gli anni
’70 e gli ’80 fu “la crème de la crème” della storia
del tennis: Jimmy Connors, Arthur Ashe, Bjorn Borg,
John McEnroe, Boris Becker. Basterebbero questi
nomi, senza aggiungere altro. Il primo, americano,
anch’egli come la sua compagna di trionfi nel ’74
Chris Evert, capace di un potentissimo rovescio a
due mani e in aggiunta di una risposta fulminante
anche sulla prima palla, oltre che di un servizio
molto efficace. Jimmy vinse due tornei nel 1974 e
nel 1982, poco prima di Arthur Ashe, il primo nero
ad imporsi nel verde torneo britannico battendo in
finale proprio il connazionale Connors. Al dominio
americano che pareva aprirsi in quegli anni rispose
in maniera violentissima Bjorn Borg, capace di
aggiudicarsi cinque tornei consecutivi dal 1976 al
1980, grazie al suo favoloso gioco da fondo campo, e
di arrendersi l’anno successivo solo in finale a
John McEnroe. 41 match consecutivi vinti sull’erba
di Wimbledon per l’“Orso” svedese, un record che
ancora gli appartiene e che può essere insidiato
solamente dallo svizzero Roger Federer qualora
vincesse il torneo del 2008.
John McEnroe merita un capitolo a parte, genio e
sregolatezza, indisciplina e talento, tutti
concentrati nel braccio sinistro di questo campione.
“The Genius” veniva chiamato, soprannome
azzeccatissimo se si considerano le sue
caratteristiche. Non aveva un fisico eccezionale,
non si allenava tanto se non partecipando a dei
tornei di doppio e il suo servizio non era da
bombardiere. Era però imprevedibile, ogni palla
aveva un effetto diverso dalla precedente, il
rovescio giocato ad una mano gli permetteva di
sorprendere molto spesso l’avversario, che John
tendeva a sbeffeggiare facendo anche un saltino per
aumentare l’anticipo del colpo. Capace di splendide
discese a rete guidate da una coordinazione e da una
gamma di volée meravigliose, accompagnate da un
gioco di piedi tuttora ineguagliabile. Quello che si
ricorderà di SuperMac a Wimbledon saranno
soprattutto le due finali, una vinta e una persa,
contro la sua antitesi Bjorn Borg. Glaciale,
imperturbabile e tranquillo l’uno quanto emotivo,
indisciplinato ed esaltato l’altro, tanto da passare
alla storia, tra le altre cose, anche per le sue
folkloristiche e clamorose proteste nei confronti
degli arbitri. “You can not be serious!”. “Non puoi
dire sul serio!” è il celebre e inconfondibile grido
che John indirizzava ai malcapitati arbitri. John
McEnroe vincerà l’ultimo Wimbledon, il terzo, nel
1984 battendo in finale Jimmy Connors riuscendo ad
arrivare in semifinale altre due volte prima del
ritiro nel 1992.
Boris Becker era un ragazzino nel 1985, diciassette
anni e sette mesi, quando per la prima volta sollevò
al cielo il trofeo dei campionati, il più giovane di
sempre. Con Boris si cambia epoca, le racchette non
sono più in legno ma in materiali sempre più evoluti
e leggeri, Becker inaugura quello che diventerà il
tennis dei giorni d’oggi, caratterizzato da due
elementi su tutti: velocità e potenza. Con queste
armi il giovane tedesco si afferma a sorpresa nel
torneo del 1985 per poi confermarsi l’anno
successivo, e si prodiga in avvincenti sfide contro
i mostri sacri McEnroe e Lendl prima e soprattutto
poi contro Stefan Edberg. A Wimbledon vincerà una
terza volta nel 1989, raggiungendo la finale in
altre tre occasioni senza però battere Edberg, il
connazionale Stich e il grande Pete Sampras.
Siamo praticamente ai giorni nostri: Andre Agassi
batte in finale Goran Ivanisevic in cinque set nel
1992. Dopo di lui, per circa otto anni, ci fu solo
Sampras, con l’eccezione olandese del bombardiere
Krajicek nel 1996, che sbaragliò la concorrenza
grazie alla potenza micidiale del servizio. Pete fu
soprannominato “The King”, il Re. Si trovava
particolarmente a suo agio sull’erba verde londinese
e lo dimostrò sconfiggendo sei diversi contendenti
in sette finali. L’unico ad impensierirlo più di una
volta fu il croato Goran Ivanisevic, che vincerà
Wimbledon nel 2001 partendo sorprendentemente con
una wild card, ossia un ripescaggio, e con una
posizione nella classifica mondiale oltre il numero
cento a causa di quasi un anno di inattività.
Resterà l’unica wild card nella storia a vincere il
torneo. Dopo un Re ne arriva però subito un altro, è
Roger Federer, svizzero, elegante, potente, capace
di colpi sopraffini e tanto belli da sembrare
facili. La realtà è che grazie al suo tennis Roger
riesce ad affermarsi in cinque tornei consecutivi
fino al 2007, striscia di vittorie ancora aperta che
potrebbe prolungarsi chissà per quante edizioni
ancora.
In campo femminile gli anni ’90 sono appannaggio di
varie atlete, ma dal 2000, a un oltre un secolo di
distanza dai primi incontri fratricidi tra Maud e
Louise Watson, sono altre due sorelle a spartirsi
sei edizioni delle ultime otto disputate. Le due
veneri nere Venus e Serena Williams, vincitrici
rispettivamente per due e quattro volte. Allenate
dal padre, impongono un tennis basato soprattutto
sulla fisicità e sulla potenza dei colpi,
sbaragliando la concorrenza e affrontandosi in
finale per due volte (nel 2002 e nel 2003) con lo
stesso esito in entrambi i casi, vale a dire
vittoria della sorella minore Serena. Al termine
della finale del 2002 fu Honor Godfrey in persona,
la direttrice del museo del tennis, a chiedere a
Serena di donare la sua divisa usata nella finale
per esporla a fianco a quella di Maud Watson.
Wimbledon è dunque oggi il torneo più antico dello
slam, nonché il più carico di tradizione e storia. I
tempi però cambiano e le esigenze televisive e degli
sponsor guadagnano sempre più importanza
nell’apparentemente invulnerabile conservatorismo
del torneo. Per cui nel 1997 viene inaugurato il
nuovo campo centrale capace di ospitare fino a
18.000 spettatori e quindi di aumentare gli introiti
di quasi il doppio rispetto al passato. Dal 2007 una
novità importante è la raggiunta parità di premi tra
Gentlemen e Mrs, dovuta anche all’interesse che oggi
suscitano nel pubblico la nuova generazione di
modelle-tenniste, come Maria Sharapova e Ana
Ivanovic, che sono in grado di far ruotare attorno
al tennis, sfruttando anche la loro mondanità e il
loro fascino, un giro di denaro pari se non maggiore
a quello dei colleghi maschi. Segno dei tempi che
cambiano e che si evolvono sempre più rapidamente,
ma se si vuole respirare al giorno d’oggi
l’invitante aroma del tennis che fu, il luogo più
indicato si trova sempre li, in quell’anacronistico
mondo che per due settimane l’anno rivive in un
periferico quartiere di Londra, tra la fragranza dei
tulipani, il sapore delle fragole e dello champagne
l’immancabile odore acre dell’erba bagnata. |