N. 17 - Maggio 2009
(XLVIII)
WESTMORELAND
Il generale che
perse in Vietnam
di Simone Pelizza
William Childs Westmoreland (1914-2005) continua ad
essere una delle figure più controverse della storia
militare americana.
Comandante delle truppe dislocate in Vietnam dal 1964 al
1968, Westmoreland fu infatti protagonista
dell’escalation brutale del conflitto, premendo
ripetutamente sulla titubante amministrazione Johnson
per nuovi, massicci rinforzi da impiegare contro
guerriglieri Vietcong e regolari nordvietnamiti.
I risultati di questa strategia, sostanzialmente basata
sulla quantità materiale e sulla potenza di fuoco,
furono deludenti e compromisero la posizione americana
nel Sud-Est asiatico; allo stesso tempo, rinfocolarono
in patria le già accese polemiche sulla guerra,
danneggiando la reputazione politica di Johnson in modo
irreparabile.
Nel febbraio 1968 l’offensiva del Tet spazzò via ogni
illusione, ed anche Westmoreland pagò caro il prezzo del
fallimento. Promosso a Capo dello Staff dell’Esercito,
negli anni seguenti sostenne importanti riforme in
ambito amministrativo, ma non ebbe più alcun incarico
diretto sul campo di battaglia. Lasciò definitivamente
il servizio attivo nel 1972, alla vigilia del disimpegno
ufficiale degli Stati Uniti dall’Indocina.
Il ricordo dei giorni bui di Saigon lo accompagnò per il
resto della sua vita, conclusasi ironicamente durante il
secondo anno della guerra irachena voluta da George W.
Bush.
Ma quali furono i suoi errori in Vietnam?
Cosa portò un abile e brillante ufficiale, esperto di
logistica e laureato ad Harvard, a fallire
clamorosamente il proprio compito, infliggendo
all’America una delle sconfitte più dolorose della sua
storia?
Sono domande di non facile risposta, che però consentono
un’affascinante esplorazione delle relazioni
politico-militari statunitensi durante gli anni cruciali
della Guerra Fredda.
La lezione coreana Le idee tattiche e strategiche di
Westmoreland si svilupparono dieci anni prima del suo
coinvolgimento nell’avventura vietnamita, durante la
guerra di Corea (1950-53).
In quell’occasione, la concreta possibilità di un
confronto diretto tra le forze delle Nazioni Unite –
guidate dagli Stati Uniti – e quelle della Cina
comunista costrinse il Pentagono a rivedere
drasticamente la propria visione militare, sino ad
allora basata sulla «guerra lampo» praticata contro
tedeschi e giapponesi durante il secondo conflitto
mondiale.
Dopo la tragica ritirata delle truppe americane da
Pyonyang, nel novembre 1950, una simile strategia –
fondata su mobilità e flessibilità – divenne
praticamente impossibile, sia per le caratteristiche
morfologiche del fronte (prevalentemente montuoso) sia
per il rischio di un’estensione del conflitto oltre la
penisola coreana.
Nonostante le continue pressioni del generale Douglas
McArthur, che chiedeva misure più aggressive contro il
nemico, il presidente Truman adottò quindi i prudenti
consigli del suo Segretario alla Difesa, George C.
Marshall, e del primo ministro britannico Clement Attlee:
le forze alleate sarebbero rimaste sulla difensiva,
limitando l’avanzata nordcoreana ed intavolando
negoziati diplomatici con le potenze comuniste.
Le direttive date a MacArthur erano chiare: «Adesso lei
deve difendere una successione di
posizioni,[...]infliggendo il maggior danno possibile
alle forze nemiche in Corea, con l’obiettivo primario
della sicurezza delle proprie truppe.»
Sostanzialmente si trattava di dissanguare il nemico
usando la propria superiorità tecnologica. MacArthur fu
incapace di seguire una condotta così «poco eroica», e
venne quindi sostituito dal generale Matthew B. Ridgeway,
che aveva già sperimentato con successo la nuova
strategia in una serie di violenti scontri lungo il
fiume Han.
Grazie alla sua energica direzione, il fronte fu presto
stabilizzato lungo il 38° Parallelo, permettendo alle
contrapposte diplomazie di iniziare il proprio lavoro.
Dalla primavera del 1951 all’armistizio di Panmunjon due
anni più tardi, il conflitto in Corea si risolse dunque
in una spossante guerra d’attrito, fatta di massicci
bombardamenti aerei e piccoli attacchi di fanteria.
In un’atmosfera simile a quella della Prima Guerra
Mondiale, i soldati degli opposti schieramenti si
affrontarono lungo statiche linee di trincee, pagando un
alto tributo di sangue per conquiste territoriali
risibili.
D’altronde, per il comando militare americano queste
ultime non avevano alcun valore, come ben chiarito dal
generale James A. Van Fleet durante uno dei consueti
briefing con i suoi collaboratori: « Vogliamo il massimo
delle perdite da parte del nemico[...]Il terreno in sé
non significa molto, a parte certe località come Seul ».
Inutile dire che, a dispetto del suo successo pratico,
la nuova strategia elaborata dal Pentagono non piacque
affatto a giovani ufficiali impegnati sul campo come
William Westmoreland.
Ancora memore delle imprese di Patton e MacArthur
durante la Seconda Guerra Mondiale, Westmoreland trovò
particolarmente frustrante la statica guerra di
posizione sul fronte coreano, esprimendo pesanti
apprezzamenti anche riguardo all’arroganza dei suoi
superiori. Tuttavia il mix efficiente di potenza
logistica e tecnologica mostrato dall’esercito americano
lo colpì favorevolmente.
Rientrato in patria al termine del conflitto, infatti,
strinse amicizia con il generale Ridgeway, adottando
parzialmente la sua visione strategica. Ma l’esempio
aggressivo di MacArthur rimase sempre scolpito nella sua
mente.
Quando Dien Bien Phu capitolò, chiudendo quasi un secolo
di dominio francese in Indocina, Westmoreland mostrò
scarsa compassione per i suoi colleghi sconfitti: «Un
pugile [...] deve fare due cose in una volta: attaccare
e difendere. Mentre tasta e colpisce con un mano,
mantiene alta la guardia con l’altra. Quando vede una
chiara opportunità, può prendere un rischio calcolato e
attaccare con entrambi i pugni. Non deve mai usare
entrambe le mani per difendersi. Se lo fa – se “si
copre” – cede ogni iniziativa all’avversario. Nessuno
vince soltanto difendendosi ».
Questa tendenza offensiva avrebbe avuto serie
conseguenze in Vietnam, alterando la sua valutazione
degli eventi e limitando la flessibilità tattica del
comando americano.
A onore di Westmoreland, va detto che simili idee erano
estremamente popolari nell’esercito americano degli anni
’50, frustrato dal generale stallo strategico nato con
l’introduzione delle armi nucleari dieci anni prima.
Tale attitudine non era comunque condivisa dai vertici
politici e intellettuali statunitensi. Nel 1957 il
professor Robert Osgood ideò la «teoria della guerra
limitata»: nel mondo post-nucleare la forza militare
doveva essere al servizio della diplomazia, sostituendo
la distruzione effettiva del nemico con il negoziato
politico.
D’ora in avanti l’esercito avrebbe limitato le proprie
operazioni sul campo per dare spazio al compromesso
politico. La tecnologia avrebbe guidato l’azione di
comandanti e subordinati, costringendoli a calcolare al
millesimo ogni loro azione o reazione.
Nell’ottica di Osgood, la guerra era sostanzialmente una
forma di transazione, non diversa da quelle finanziarie;
e come tale, doveva essere sottoposta allo stesso schema
di costi e benefici.
Questo approccio tecnocratico avrebbe mostrato
chiaramente i suoi limiti nel Sud-Est asiatico, a danno
di un’intera generazione di soldati.
Westmoreland giunse ufficialmente nel Vietnam del Sud
all’inizio del 1964. Nei primi giorni del suo mandato
come comandante del MACV (Military Assistance Command
in Vietnam), familiarizzò con i membri del governo
di Saigon e con il potente ambasciatore americano
locale, Henry Cabot Lodge.
Nell’autunno precedente Lodge era stata una delle menti
dietro il colpo di stato contro Ngo Dinh Diem, il
dittatore sudvietnamita sostenuto dagli Stati Uniti sin
dalla metà degli anni ‘50.
A causa del suo atteggiamento violento e autoritario,
Diem era diventato motivo d’imbarazzo per
l’amministrazione Kennedy, che aveva acconsentito a
liquidarlo con qualche esitazione.
Tuttavia la caduta di Diem non migliorò la situazione
nel paese; anzi, l’infiltrazione comunista nel Sud
continuò ad aumentare nei mesi successivi.
Succeduto a Kennedy dopo i tragici fatti di Dallas,
Lyndon Johnson decise di dare una svolta al conflitto in
Indocina, autorizzando l’intervento diretto delle truppe
americane nella regione.
Grazie al suo solido curriculum professionale e
all’amicizia di diversi membri del Pentagono,
Westmoreland fu scelto come leader di questo importante
cambiamento politico-militare.
Prima di partire ebbe modo di incontrare il suo vecchio
idolo MacArthur, che gli diede alcuni suggerimenti su
come affrontare il delicato incarico. Era una
responsabilità pesante, e Westmoreland ne avvertì la
gravità sin dal primo giorno.
Presto i numerosi problemi che avevano tormentato i suoi
predecessori al MACV avrebbero investito anche lui, con
effetti imprevedibili e devastanti.
Sul momento, però, le cose sembrarono andare bene per il
giovane generale.
Dopo aver analizzato con cura la situazione,
Westmoreland chiese massicci rinforzi a Washington, e
iniziò ad impiegare la propria superiorità tecnologica
contro il nemico.
La mancanza di chiare direttive politiche rese però
inefficaci queste prime misure. In giugno, durante una
riunione a Honolulu con vari membri del gabinetto
presidenziale, Westmoreland chiese il permesso di
bombardare il Vietnam del Nord per scompaginare
l’apparato di comando della guerriglia comunista nel
Sud.
L’idea non venne presa in considerazione, e in breve il
MACV si trovò impossibilitato a sfruttare i propri
crescenti successi tattici. Mancava una chiara strategia
di difesa per il Vietnam del Sud, e l’inettitudine del
governo locale – appoggiato da Lodge – vanificava gli
sforzi del contingente americano.
Alla fine dell’anno i Vietcong inflissero gravi perdite
all’esercito sudvietnamita, guadagnando terreno in
diverse province del paese. Finalmente Johnson decise di
seguire il suggerimento di Westmoreland: nel gennaio
1965 il Segretario alla Difesa Robert McNamara lanciò
una vasta campagna di bombardamenti contro il Vietnam
del Nord (Operazione «Rolling Thunder»), mentre le forze
speciali americane eseguivano parecchie operazioni di
sabotaggio lungo le coste controllate da Hanoi
(Operazione «Flaming Dart»).
L’arrivo di alcuni battaglioni di Marines nel Vietnam
del Sud, inviati a difesa delle installazioni militari
americane nel paese, diede ufficialmente il via
all’escalation del conflitto. I piccoli successi di
questi primi contingenti contro i Vietcong, infatti,
esaltarono lo spirito bellico di Johnson e McNamara, che
concessero a Westmoreland nuovi rinforzi e assoluta
libertà d’azione.
In breve il MACV si trovò coinvolto in un pericoloso
gioco al rialzo, dove la semplici esigenze tattiche
finirono presto per offuscare ogni altra considerazione
di tipo politico o strategico. Influenzati
dall’approccio tecnocratico del Pentagono, Westmoreland
e i suoi collaboratori persero rapidamente il contatto
con la realtà, sacrificando l’elemento umano a favore di
quello tecnologico.
Il paziente approccio anti-guerriglia di caparbi
ufficiali come John Paul Vann fu definitivamente
abbandonato, mentre un numero sempre crescente di GI
veniva impiegato in operazioni su larga scala, dominate
dalla semplice potenza di fuoco.
Tali missioni – conosciute con l’espressione «Search and
Destroy» («Cerca e Distruggi») – avevano il solo scopo
di dissanguare il nemico, minimizzando ogni azione
bellica secondo stretti principi economici.
Anni dopo la formula venne sintetizzata dal generale
Julian J. Ewell con queste scarne parole: « una volta
che si decise di applicare il massimo della forza, il
problema divenne tecnico, basato sull’uso efficiente
delle risorse disponibili ».
Questo comportò un aumento spropositato delle truppe
presenti in Vietnam, condotto unicamente sulla base di
previsioni macroeconomiche, senza alcuna analisi seria
delle condizioni reali sul campo di battaglia.
Alla fine del 1965 il Pentagono calcolò infatti a 300
000 i soldati necessari per una vittoria finale nel
Sud-Est asiatico; il protrarsi della resistenza
comunista alzò questa stima ad oltre 500 000 in meno di
due anni, trasformando la guerra in un’osessione che
fece a pezzi la società americana.
Nel frattempo Westmoreland dovette affrontare il
graduale fallimento della propria linea strategica.
Fallimento di una «tecnoguerra» Non solo i Vietcong
sostennero pazientemente tutto il peso della macchina
militare americana, ma riuscirono a sfruttarne le
contraddizioni con grande abilità.
Nonostante le numerose operazioni «Search and Destroy»,
eseguite ogni volta con sempre maggiore violenza, l’area
intorno a Saigon continuò ad essere strettamente
controllata dalla guerriglia comunista, che reclutò pure
nuovi ranghi nei milioni di sfollati civili provocati
dalla strategia di Westmoreland. Alla fine del 1967, di
fronte agli scarsi successi ottenuti dalla «tecnoguerra»
del MACV, i vertici dell’esercito statunitense
raccomandarono la graduale riduzione delle truppe in
Vietnam, mentre Johnson pensò di intavolare negoziati
diretti con il governo nordvietnamita.
Ma di fronte alla caparbietà di Westmoreland, convinto
di un imminente collasso del nemico, queste timide
contromosse non produssero alcun risultato. Fu
l’offensiva del Tet a spazzare via ogni illusione,
mettendo definitivamente in ginocchio la burocrazia
bellica di Washington.
Il 31 gennaio 1968, durante le festività per il
capodanno lunare buddista, i comunisti lanciarono
infatti un attacco in grande stile contro i maggiori
centri urbani del Vietnam del Sud, prendendo
completamente di sorpresa le autorità locali ed il MACV.
Persino il palazzo dell’ambasciata americana venne
assalito dai guerriglieri; occorsero sei ore di feroci
combattimenti per respingerli.
Le fasi salienti dell’offensiva nemica furono riportate
con grande dovizia di particolari dai principali network
televisivi americani, che contribuirono così ad
affossare la fiducia dell’opinione pubblica nei
confronti del governo e delle forze armate. Attaccato da
ogni parte dello spettro politico, stanco e sfiduciato,
Johnson gettò la spugna: a fine marzo annunciò
pubblicamente la sospensione dei bombardamenti aerei sul
Vietnam del Nord, rinunciando anche ad una nuova corsa
elettorale per la Casa Bianca.
Anche se il MACV riuscì infine ad avere la meglio sulle
forze nemiche, riconquistando diverse località del
paese, la situazione nel Vietnam del Sud parve ormai
seriamente compromessa.
Il Pentagono rifiutò di inviare nuovi rinforzi a
Westmoreland, mentre il nuovo Segretario alla Difesa
Clark Clifford mise apertamente in discussione la «tecnostrategia»
messa in piedi dal suo predecessore McNamara.
Alla fine il caparbio comandante del MACV fu
ufficialmente sostituito, sancendo la definitiva
sconfitta americana nel Sud-Est asiatico.
La tecnologia non può sostituire il pensiero umano:
questa fu la drammatica lezione imparata da Westmoreland
in Vietnam.
Una lezione che però i suoi successori continuano a non
comprendere, come stanno a dimostrare le attuali vicende
in Afghanistan e Iraq.
La «tecnoguerra» resta infatti irresistibile per il
nostro mondo, dominato da un progresso scientifico quasi
illimitato.
E il prezzo di tale abbaglio continua ad essere pagato a
caro prezzo – soprattutto da soldati e civili, incapaci
di difendersi dalle insidie della moderna economia
militare.
Sono loro le vere vittime della nuova «guerra posteroica»,
fatta di molti missili e poco onore.
Riferimenti bibliografici:
S.S. Gartner, M.E. Myers, Body Counts and “Success”
in the Vietnam and Korean Wars, Journal of
Interdisciplinary History, Vol. 25, N. 3 (Winter, 1995),
pp. 377-395.
J.W. Gibson, The perfect war: technowar in Vietnam,
Boston 1986.
C. Malkasian, Toward a Better Understanding of
Attrition: The Korean and Vietnam
Wars,
The Journal of Military History, Vol. 68, No. 3 (Jul.,
2004), pp. 911-942.
N. Sheehan, A Bright Shining Lie: John Paul Vann and
America in Vietnam, New York 1989.
W.C. Westmoreland, A soldier reports, Garden City
(NY) 1976. |