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N. 19 - Luglio 2009 (L)

VOLTAIRE

LA GAIEZZA ARGUTA E LA GRAZIA SEMPRE DIVERSA

di Cristiano Zepponi

 

François-Marie Arouet venne alla luce a Parigi il 21 novembre 1694, nonostante affermasse di essere nato il 20 febbraio, ovvero nove mesi prima.

Era figlio di un notaio allo Châtelet, François, mentre la madre apparteneva alla famiglia Daumart, e fu registrato alla parrocchia di Saint-Andrè-des-Arts.

 

Fu, presto, considerato un enfant prodiges. Uscì dal collegio a diciassette anni, rifiutando di tramandare la professione del padre, come questi avrebbe desiderato.

Crèbillon lo definì “puer ingeniosus, sed insignis nebulo”. Dotato, ma indisciplinato, né periodi di studio, premi ed elogi bastarono a mutare l’ambigua fama del giovane.

 

Esponente di quell'agiata borghesia francese che si avviava ad assumere un ruolo di primo piano nella vita economica e culturale del Paese, e come questa acceso libertino, si distinse da subito per l’assidua frequentazione dei salotti; strinse dapprima amicizia con personaggi sinistri, tra cui il gesuita padre de Couvrigny, ed in seguito fu portato all’Aja come paggio del nuovo ambasciatore francese, il marchese de Châteauneuf.

 

Ma tornò presto a Parigi; e lo fece col cuore sanguinante per l’amore di Pimpette (ovvero mademoiselle Olympe Dunoyer), la bella (e sgrammaticata) giovane che aprì una lunga sequenza di passioni.

 

Come la gran parte degli ingegni polemici, il ragazzo non trovava pace: nella capitale, dopo aver rifiutato la proposta paterna di ripartire alla volta dell’America, accettò di lavorare in uno studio notarile; ma, soprattutto, prese a scrivere di gran lena.

 

Tra gli altri, scrisse (o gli fu attribuito) un pamphlet che non fu affatto gradito dal reggente Filippo d’Orlèans, il quale emise una lettre de cachet che lo costrinse agli arresti alla Bastiglia.

 

Qui, François rimase undici mesi. Avendo tutto questo tempo a disposizione, compose i primi canti dell’Henriade.

Una volta liberato, poi, fece rappresentare la tragedia Oedipe, con un successo clamoroso. Era il 18 novembre 1718, ed aveva 24 anni.

 

Il giovane Arouet scomparve allora, rimpiazzato da Voltaire, lo pseudonimo che lo accompagnò per una vita, e la cui origine resta per molti dubbia.

L’illuminista francese Condorcet afferma che fosse il nome di una piccola terra di famiglia; un fazzoletto così microscopico, evidentemente, che nessuno è mai riuscito a trovarlo. Per il gesuita Nonnotte si tratta di un anagramma del nome Arouet con l’aggiunta delle due iniziali di le jeune, L e J.

Secondo alcuni deriverebbe dallo spagnolo voltario (volubile); ma sembra che François conosceva ben poco (e male) questa lingua. Per altri, l’abate Châteauneuf, suo padrino, lo chiamasse da giovane Zozò, le petit volontarie: sopprimendo la sillaba centrale, resterebbe Voltaire.

 

Ma le carte, e le voci, e i racconti possono solo indovinare; e chissà che il ragazzo non abbia sostituito il nome di famiglia con un’aria leggera, udita per caso, o solo immaginata.

 

Comunque sia, alla gloria seguirono quindici anni di avventure, viaggi, operazioni finanziarie ed opere varie, ma soprattutto amanti. Egli stesso confessò nell’estate del 1719 di passare “de château en château”, e qui intrecciò stretti rapporti con Susanne de Livry, che poi lo ingannò con un amico.

 

La sua arguzia, ed il suo senso critico, non furono però ben accolti in tutti gli ambienti. Non li gradì particolarmente il cavaliere de Rohan-Chabot, che, seccato per non avergli saputo rispondere adeguatamente, lo fece bastonare intensamente dai suoi servi. Tuttavia, seguendo il pestaggio dalla carrozza, ebbe almeno il buon gusto di limitare i danni, gridando ai picchiatori “Non sulla testa, ragazzi.. potrebbe esserci ancora qualcosa di buono!”.

 

Ma Voltaire mostrò di volersi vendicare, anche perché prendeva lezioni di scherma, e s’aggirò alla ricerca dell’avversario armi in pugno; al che, saggiamente, il cavaliere ottenne che fosse riportato alla Bastiglia.

 

Stavolta, rimase nella celebre prigione per pochi giorni; e, secondo alcuni studiosi, la permanenza radicalizzò il suo genio.

Rimesso in libertà a patto di lasciare Parigi, s’imbarcò a Calais verso l’Inghilterra, il 5 maggio 1726.

 

Si sa poco del periodo inglese, durato tra i ventisette ed i trenta mesi. Fu accolto rispettosamente, un maestro quacchero gli insegnò la lingua, ascoltò l’Hamlet, assistette ai funerali di Newton, pubblicò (dedicandola alla regina Carolina, moglie di Giorgio II) l’Henriade.

Anche stavolta, l’opera fu apprezzata da subito: il volume reca una lista imponente di subscribers con i più grandi nomi d’Inghilterra; le copie della prima edizione erano già esaurite quando apparve il libro, e le successive tre edizioni in ottavo furono acquistate in tre settimane.

 

Sembra, inoltre, che Voltaire abbia soggiornato tre mesi insieme al sessantenne Jonathan Swift, lo scrittore irlandese che aveva da poco pubblicato i Gulliver’s Travels. Quale fu il loro rapporto, e cosa si dissero, resta un mistero.

 

Rientrò in Francia, secondo le varie opinioni, alla fine del 1728 o all’inizio del 1729, appena in tempo per vedere la morte di Adriana Lecouvreur, grande attrice, amica e forse amante, alla quale fu negata la sepoltura in terra consacrata.

Fu calata nella terra di un cantiere deserto del faubourg St.Germain, lasciando profondi solchi nello spirito di Voltaire.

 

Dall’anno seguente, riprese a presentare nuovi lavori: nel 1730 fece rappresentare con il consueto successo Brutus, nel 1731 diede alle stampe la Histoire de Charles XII, nel 1732 furono recitati Eriphyle e soprattutto Zaïre, nel 1733 uscirono Le Temple du Goût (che gli valsero l’inimicizia della maggior parte degli intellettuali francesi) e le Lettres philosophiques seguite dalle Remarques sur Pascal.

 

Fu, questo, un anno intenso anche per altri motivi. Conobbe allora, infatti, Gabrielle-Emilie, nata marchesa Le Tonnelier de Breteuil e divenuta signora du Châtelet.

A dire il vero si conoscevano da tempo, e Voltaire l’aveva addirittura tenuta in braccio da bambina; per questo, quando si incontrarono ad un ricevimento (lui aveva trentanove anni, lei ventisette), la marchesa non potè fare a meno di notare quell’uomo magro, elegante e distinto, dagli occhi penetranti e la bocca espressiva.

La donna, che si dedicava agli scritti sulla matematica e l’astronomia, visse da allora quattordici anni al fianco dell’autore; e questo, e solo questo – come notava, non senza malizia, la signora du Deffand, che non gli perdonava il furto della principale attrazione del suo salotto – impedì al suo nome di sprofondare nell’oblio dei secoli, e nel pozzo della memoria.

 

Il marito, il marchese Florent-Claude du Châtelet (che Voltaire usava chiamare, senza fini denigratori, le bonhomme, sempre impegnato in faccende militari, accettò serenamente la presenza dell’amante (peraltro, precedentemente aveva fatto lo stesso con il signor de Guèbriant ed il duca de Richelieu), ed anzi si gloriava della sua illustre fama. Senza dimenticare che Voltaire non solo non costava nulla, ma anzi contribuiva (restaurando a proprie spese Cirey, la dimora della coppia, e prestandogli di tanto in tanto denaro) al benessere della famiglia (seppur allargata).

“L’uomo più rispettabile che io conosca” lo definiva Emilie, che poi lo rispettava a modo suo.

 

Il putiferio che scaturì dalla pubblicazione delle Lettres lo costrinse a riparare a Cirey, pronto alla fuga in Lorena, per evitare l’ennesimo ritorno alla Bastiglia. E qui, dove lo raggiunse Emilie, visse la sua storia d’amore.

 

I due sembravano perfettamente complementari, e vivevano la stessa vita. Di giorno, chiusi nelle rispettive camere, lavoravano alacremente ai propri scritti: lui, che affermava di “amare tutte le Muse di uno stesso amore”, componeva tragedie, racconti, commedie, versi lirici, satirici, eroici ed erotici, odi ed epigrammi, epistole e canzonette; lei, più modestamente, proseguiva la sua opera di studio delle stelle.

A sera, poi, inauguravano continue, ed inesauribili feste, dove Voltaire leggeva gli ultimi componimenti, distribuiva le parti, organizzava la scena ed allietava gli ospiti con messe in scena e divertimenti, e le ore correvano verso l’alba, ebbre e fugaci.

 

Nel 1745 fu nominato Storiografo del re, l’anno seguente entrò all’Accademia. Furono, questi, alcuni dei suoi anni migliori, nonostante le lacrime di Emilie, versate ogniqualvolta si dirigeva n

Germania, alla corte di Federico, con cui intratteneva un’attiva corrispondenza da quando questi era ancora principe ereditario. Lo incontrò a Clèves e a Berlino nel 1740, l’anno in cui Federico divenne re, e poi di nuovo nel 1742 ad Aquisgrana e nel 1743 a Berlino e Bayreuth.

 

Quando tornò dall’amante, dopo l’ultimo di questi viaggi, il loro rapporto mostrò d’essersi incrinato. La donna manteneva intatto il suo “temperement de feu”, mentre Voltaire superava i cinquant’anni, e non era più in grado di soddisfarla adeguatamente. E sembra che si chiudesse spesso in camera col matematico Clairault, che l’aiutava nei suoi lavori; ma un giorno che i due tardavano a pranzo, Voltaire, dopo aver verificato che la porta era chiusa a chiave, sfondò la porta. Longchamp, il suo segretario - che riferisce l’episodio – tace sul seguito: ma la sua reticenza c’induce a pensare che nella camera, al momento, non si discutesse d’algebra e logaritmi.

 

Il suo successo a Corte lo portò a mettere in scena un divertissementLa Princesse de Navarre – per le nozze del Delfino, e nello stesso 1745 fece recitare Le Temple de la Gloire, con musiche di Rameau, in onore di Luigi XV, il vincitore di Fontenoy.

 

 

Ma l’ingegno è capace di bruciare tutto quanto costruito in anni di lavoro; a Voltaire bastò un commento imprudente al tavolo da gioco, quando, in inglese, ammonì la signora du Châtelet (che perdeva a tutto andare) riguardo i bari che gli sedevano a fianco.

 

Lasciò la Corte e si rifugiò dalla duchessa du Maine – moglie di un figlio illegittimo di Luigi XIV e della signora de Montespan – nella meravigliosa dimora di Sceaux. E qui, mentre le voci lo davano in fuga all’estero, continuò a scrivere per divertire la duchessa, producendo racconti su racconti (Zadig, Memnon, Micromègas, oltre alla tragedia Sèmiramis) alla luce della candela, in una stanza perennemente chiusa alla luce del sole.

 

L’anno seguente, insieme ad Emilie, si trasferì a Luneville, chiamato da Stanislao, ex re di Polonia e duca di Lorena, oltre che padre della regina di Francia Maria Leszcinska. E la donna, ormai quarantaduenne, trovò l’amore che cercava, dopo il declino della passione con lo scrittore, di cui prima abbiamo detto.

E se ne dovette accorgere anche Voltaire, inopportunamente capitato di nuovo in una situazione di eloquente intimità; ma sulle prime, fece mostra di accettare l’evoluzione dei fatti.

 

Nelle umane vicende del quartetto amoroso piombò però la morte, ed esattamente un anno dopo, il 10 settembre 1749, la marchesa, e amica di una vita, morì di parto, insieme alla bimba.

Il colpo fu durissimo, inaspettato e brutale: “Non ho perso un’amante” scrisse ad un amico, “ho perso la metà di me stesso”. E alcuni dicono che pensò addirittura di entrare in convento, negli stessi giorni in cui singhiozzava, e soffriva, e urlava “Voi me l’avete tolta!” al nuovo arrivato, “Che bisogno avevate di farle fare un figlio!”.

A cinquantacinque anni l’uomo che Goethe definiva “universale fonte di luce”, d’un tratto, si scoprì solo.

 

La morte di Emilie influenzò certamente gli ultimi anni dello scrittore; innanzitutto, gli permise di accettare la corte di Federico, che seguitava a richiederne la presenza.

Ma Federico richiedeva il lustro che la sua persona poteva garantire, la correzione delle sue bozze e poco altro, mentre Voltaire, forse, avrebbe desiderato restare a vita, e non mostrò grande entusiasmo per il re-filosofo.

Le parole, ed i commenti, corsero rapidi sulla bocca di cortigiani loquaci; e portarono alfine alla definitiva separazione, avvenuta il 26 marzo 1753.

Lo spiacevole soggiorno si concluse, poi, con una settimana di prigionia a Francoforte, dove il residente di Prussia, il barone Freytag, lo costrinse a restituire un libro di poesie di Federico.

 

A Francoforte apparve la nipote Marie Luise Denis – figlia della sorella Catherine Mignon – per recargli conforto. Era una vedova sulla quarantina, che intrattenne con lo zio una storia d’amore rivelata nel 1957 da Theodore Bestermann (che pubblicò le “Lettres d’amour de Voltaire à sa nièce”, che vanno dal marzo 1740 al maggio 1750).

 

Tornato in francia, si diede agli affari immobiliari: “Io appoggio la mia sinistra al monte Giura, la mia destra alle Alpi, ho il lago di Francia, l’eremitaggio di Les Dèlices in territorio ginevrino, una buona casa a Losanna: trascinandomi così da un covo all’altro riesco a sfuggire al re e agli eserciti”, commentava sarcastico.

 

Ma più di tutte stette a Ferney, per ben diciotto anni, e ne divenne un’attrazione, una tappa obbligata; qui accolse giovani diseredati, una ragazza povera destinata al convento ed il suo amico marchese de Villette: e tra gli ultimi combinò anche un matrimonio.

 

Voltaire costituisce uno dei pochi casi della storia letteraria che abbia raggiunto la piena maturità in tarda età, come se cominciasse allora una carriera. Negli ultimi anni, “flessibile come un’anguilla, vivace come una lucertola”, lavorò alacremente.

Candide, geniale satira dell’ottimismo leibnitziano, risale infatti al 1759; il Dictionnaire philosophique al 1764, i nove volumi delle Questions sur l’Encyclopèdie al 1772. Per quanto riguarda il teatro, compose L’Orphelin de la Chine (1755), Tancrède (1760), l’Olympie (1763), Sophonisbe (1774) e l’Irène (1778).

 

L’ultima opera teatrale, l’Irène, gli fu fatale: chiamato a gran voce a presenziare alla prima, ed incoraggiato in questo senso da Denis, ormai dedita a più giovanili piaceri, dovette sottoporsi ad uno stress insopportabile, arrivando ad intrattenere più di trecento ospiti al giorno, senza parlare del 30 marzo, il giorno più atteso, quando il suo busto, portato sul palco, fu cinto da una corona d’alloro.

 

Si sa per certo che cominciò a sputare sangue, nonostante continuasse a ricevere visite; ma dall’11 maggio fu costretto al letto, e qui rimase, fino alla morte, avvenuta il 30 maggio 1778; comunque sia, sembra che l’arcivescovo di Parigi in persona rifiutò – a posteriori - la ritrattazione di quanto nelle sue opere avrebbe potuto scandalizzare la Chiesa, offerta dall’ancora moribondo all’abate Gautier.

Non gli valse la terra consacrata, come avvenuto con la Lecouvreur.

 

Lo portarono alla fine nell’abbazia di Scellières (della diocesi di Troyes in Champagne), dove risiedeva un nipote, il reverendo Alexander-Jean Mignot.

Il trasporto fu effettuato dopo il tramonto, il 31 maggio, con una carrozza di sei cavalli.

“Gli piaceva viaggiare soltanto di notte”, scrisse d’altronde, tempo dopo, il segretario Longchamp.



 

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