N. 18 - Novembre 2006
VOLEVO LA
LUNA
Recensione del libro di Pietro Ingrao
di
Alessandro D'Ascanio
Il
racconto del Novecento, il secolo appena consegnato
alla storia così intensamente caratterizzato da un
viluppo di drammi e speranze, conflitti armati e
scoperte scientifiche, crescita economica e
disuguaglianze planetarie, totalitarismi e conquista
di diritti umani, non è affidato esclusivamente al
lavoro della storiografia per così dire ufficiale.
Sovente la narrazione calda e appassionata di un
protagonista permette di aprire squarci inediti di
comprensione, nell’ambito dei quali l’intreccio di
memoria individuale e di ricostruzione storica si
compone in maniera efficace ed evocativa.
Si
tratta, ad esempio, del caso di Pietro Ingrao,
protagonista decennale della battaglia politica
italiana, che nel suo libro autobiografico Volevo
la luna ripercorre con uno stile letterario fluido
e realistico (sembra di leggere un romanzo), le
vicende caratterizzanti della propria esistenza .
Ingrao tesse una trama tra vita politica e risvolti
privati in grado di fornire al lettore un profilo
completo del protagonista.
In
via prioritaria, sono posti al centro del racconto gli
anni dell’infanzia e della giovinezza, vissuti nella
profonda provincia laziale, nel lembo meridionale
della regione. Nato a Lenola, in provincia di Latina,
Ingrao proviene da una famiglia della piccola
borghesia agraria costretta a rivedere le proprie
prospettive di vita a cavallo tra gli anni Venti e gli
anni Trenta. Nel testo è reso in maniera chiara il
clima sociale e culturale degli anni della formazione:
il conformismo imposto dal regime, il ruolo
reazionario del clero, i timori e le aspettative delle
famiglie meridionali, l’arretratezza, ma anche la
dignità del meridione contadino.
Vengono poi gli anni del trasferimento a Roma, nella
capitale (metà anni trenta) e degli studi
universitari; dell’amore per la poesia e per il cinema
muto e in bianco e nero che lo conduce alla frequenza
del Centro sperimentale, tra i dubbi e i timori della
famiglia; dell’esperienza dei Littoriali, competizioni
culturali volute dal regime, ma foriere di incontri
tra giovani, di presa di coscienza sul piano culturale
spesso prodromiche a svolte politiche, di spazi
marginali, ma significativi di critica all’ordine
costituito.
Decisivi in seguito gli anni della guerra di Spagna,
dell’avvicinamento al conflitto mondiale, della
costituzione di quel “gruppo romano”, primo nucleo
della resistenza capitolina, composta, tra gli altri,
da Lucio Lombardo Radice (futuro cognato di Ingrao),
Aldo Natoli, Antonio Amendola, Giaime Pintor, Mario
Alicata, Antonello Trombadori, Bruno Zevi, giovani
destinati ad un ruolo importante nel futuro della vita
nazionale.
Ingrao ricostruisce le vicende di quegli anni
attraverso una sintesi efficace che tiene insieme il
processo della sua formazione umana e culturale, il
progressivo formarsi della propria famiglia
(attraverso il rapporto intenso con Laura Lombardo
Radice e con i figli), la scelta di vita della lotta
politica tra i ranghi del PCI, il mutamento della
società italiana tra crisi del regime, guerra,
resistenza e nascita della Repubblica.
Gli
anni di guerra in particolare rappresentano una fase
di passaggio, di mutamento di fase nella vita di
Ingrao, così come di tanti individui del tempo. Di
particolare interesse appaiono le pagine dedicate agli
incontri ed alle relazioni umane stabilite durante la
dura esperienza resistenziale che rendono conto del
comune senso di ricerca della libertà e di rinascita
di una generazione.
La
seconda parte del libro vede come protagonista l’Ingrao
più conosciuto, più noto in virtù del suo progressivo
affermarsi come autorevole dirigente politico fino
agli anni dell’elezione a importanti cariche
istituzionali. Occorre dire al riguardo che anche tale
parte della narrazione non si limita ad una
ricostruzione asettica delle vicende politiche vissute
in prima persona, ma continua viceversa il tentativo
di racconto intenso e partecipe del proprio vissuto
innanzitutto umano, attraverso un’analisi
retrospettiva, non scevra peraltro da nette
autocritiche, che tiene insieme curiosità culturale,
sensibilità sociale e riflessione politica. Emerge
pertanto un Ingrao eterodosso, indagatore della
realtà, mai accomodante verso se stesso, non
revisionista, ma critico e disposto alla rilettura del
passato, consapevole di quella che egli definisce “la
complessità dei cieli sopra di noi” che impedisce la
riduzione dogmatica della varietà dell’esistenza
umana.
Sintomatica, sotto tale ottica, appare la relazione
intessuta con Palmiro Togliatti, dagli anni dal
rientro dall’Urss fino alla scomparsa del leader negli
anni sessanta. Ingrao racconta dell’intelligenza, del
fascino, dell’ascendente, dell’ammirazione suscitati
da Togliatti, anche in virtù della propria esperienza
in quella che in quegli anni era considerata la patria
del socialismo. Ma, allo stesso tempo, ne narra i
limiti politici, le rigidità culturali, i drammatici
errori non mancando di riferire del suo assecondarlo,
pur a seguito spesso di franche discussioni. Ingrao
nel raccontare di “quel capo” ( come con una certa
ironia lo definisce) ripercorre la lentezza del
processo di distacco dall’Urss vissuta dal PCI,
attraverso le fasi del rapporto segreto al XX
congresso del Pcus, di Poznàn, della rivolta
d’Ungheria, dichiarando esplicitamente i propri
errori, ma al contempo rivendicando l’originalità
delle proprie posizioni politiche culturali, fin da
allora lontane da una concezione burocratica ed
autoritaria del comunismo e volte alla ricerca di
spazi nuovi di libertà per i proletari e gli
sfruttati. Dunque riconoscimento di errori politici,
commessi per senso di appartenenza ad una divisione
del mondo, per adeguamento conformistico, per gli
effetti del centralismo democratico, ma testimonianza
di una ricerca, di una volontà di soluzioni altre.
Nella sua ricerca Ingrao racconta dell’incontro con
l’Italia, del suo peregrinare da nord a sud della
penisola, tra comizi, manifestazioni, incontri sempre
alla ricerca delle trasformazioni sociali e dei
mutamenti, delle specificità culturali dei territori e
delle città del paese.
Di
particolare significato, a tal riguardo, il capitolo
intitolato Municipi e continenti, evocativo di
uno specifico approccio ingraiano, in parte al centro
dell’epocale scontro all’XI congresso del PCI, nel
quale la dimensione municipale, locale, territoriale
della politica si mette in relazione con lo spazio
globale delle lotte nei continenti in via di sviluppo,
a partire dall’Asia della Cina di Mao o il Vietnam di
Ho Chi Min, fino all’America Latina e la rivoluzione
cubana.
Lo
sguardo di Ingrao, in altre parole, è attratto tanto
dalle peculiarità territoriali della lotta politica,
dove egli individua nuovi spazi di rappresentanza e di
trasformazione economica e sociale, tanto dagli
scenari mondiali e, in tal senso, gli incontri
con lavoratori e braccianti, dall’Umbria alla
Calabria, sono importanti tanto quanto gli incontri
con i grandi leader del comunismo internazionale.
Significativo appare inoltre il percorso di incontro
con esperienze del dissenso cattolico, maturato a
partire da una comune lettura delle trasformazioni
capitalistiche degli anni cinquanta e sessanta.
In
conclusione il nostro autore non manca di esprimere
giudizi e interpretazioni su passaggi cruciali della
vicenda politica dell’Italia repubblicana, dal
compromesso storico alla tragica uccisione di Aldo
Moro, soffermandosi tra l’altro sugli anni della sua
presidenza della Camera dei Deputati. Colpisce
l’attenzione del lettore, la volontà di legare le
vicende politiche ed istituzionali al più complessivo
sviluppo sociale del paese, fedele all’antica volontà
di volgere lo sguardo alla varia articolazione della realtà
sociale.
Il
libro si chiude infine con una riflessione condotta a
partire da un libro di Nuto Revelli, sulla relazione
tra esperienza individuale in tempo di guerra e corso
della storia che Ingrao raccoglie in maniera delicata
e personale quasi a voler concludere la propria
narrazione ribadendo una cifra stilistica che rimanda
ad una complessiva concezione della vita. |