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N. 127 - Luglio 2018 (CLVIII)

Vivere nella postmodernità
Il non concetto di "patria" nel villaggio globale

di Norberto Soldano

  

Il saggio Dei doveri dell’uomo, come sostiene Paolo Rossi, è diretto agli “operai italiani”, laddove con il termine ‘operai’ l’autore, Giuseppe Mazzini, non vuole indicare una certa classe sociale, bensì l’umanità intera.

La sua dottrina, il fervido sentimento risorgimentale che lo contraddistinse quando nel lontano luglio del 1831 fondò, a Marsiglia, l’associazione insurrezionale Giovine Italia, le sue considerazioni, rivelatesi all’indomani della sua dolorosa scomparsa oltremodo profetiche, raccolte nel suo testamento politico, ci sono senz’altro di grande aiuto nel comprendere i drammi del nostro tempo.

È uno scritto, il saggio di cui sopra, dal quale riecheggia il suo amore verso il Paese, il prossimo, condensato di ideali nobili, puri, da una invidiabile visione politica lungimirante ed una prospettiva perennemente ispirata al Progresso, che sembra quasi non recare alcuna traccia dei tormenti depositati in fondo al suo stato d’animo, dovuti alle tristi vicende giudiziarie che lo afflissero e gli costarono l’esilio negli ultimi anni della sua esistenza.

«Senza Patria», ammoniva Mazzini, «non avete nome, né segno, né voto, né diritti, né battesimo di fratelli tra i popoli. Siete dei bastardi dell’Umanità. Soldati senza bandiera, israeliti delle Nazioni, voi non otterrete fede né protezione: non avrete mallevadori. Non v’illudete a compiere, se prima non vi conquistate una Patria, la vostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale; dove non è Patria, non è Patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l’egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serba, dacché non v’è tutela comune a propria tutela». Sembra essere perfettamente consapevole Mazzini di cosa comporta la “debolezza” degli Stati e la “flessibilità” dei rispettivi ordinamenti giuridici: assalti della criminalità organizzata, la “violenza sociale” dell’economia di mercato “deregolata”, nonché il passaggio dagli “statisti” alle “politiche di esecuzione” sempre agli ordini di forze occulte che con i propri strumenti spostano i consensi elettorali come pedine su una scacchiera per soddisfare i propri affari.

«Non v’è Patria dove l’uniformità del Diritto è violata dall’esistenza di caste, di privilegi, d’ineguaglianze, dove non è principio comune, accettato, riconosciuto, sviluppato da tutti: v’è non Nazione, non popolo, ma moltitudine, agglomerazione fortuita d’uomini che le circostanze riunirono, che circostanze diverse separeranno». Ci mette poi in guardia dalla prassi invalsa «in una società nella quale il merito è pericoloso, e la ricchezza è la sola base della potenza, della sicurezza, della difesa contro la persecuzione e il sopruso», nella quale spesso, «il padre è trascinato dall’affetto a dire al giovine anelante la Verità: “bada, la ricchezza è la tua tutela, la Verità sola non può esserti scudo contro l’altrui forza, contro l’altrui corruttela”».

Si evince chiaramente dalle sue parole quanto tenga a cuore la “responsabilità intergenerazionale”. Dirige, infatti, a più riprese, l’attenzione verso i Figli: «parlate loro di Patria, di ciò che essa fu, di ciò che deve essere. Quando, la sera, dimenticate, fra il sorriso della madre e l’ingenuo favellio dei fanciulli seduti sulle vostre ginocchia, le fatiche della giornata, ridite ad essi i grandi fatti dei popolani delle antiche nostre repubbliche: insegnate loro i nomi dei buoni che amarono l’Italia e il suo popolo e per una via di sciagure, di calunnie e di persecuzioni, tentarono di migliorarne i destini. Instillate nei loro giovani cuori, non l’odio contro gli oppressori, ma l’energia di proposito contro l’oppressione. Imparino dal vostro labbro e dal tranquillo assenso materno, come sia bello il seguire le vie della Virtù, come sia grande il piantarsi apostoli della Verità, come sia santo il sacrificarsi, occorrendo, pei propri fratelli. Fate che crescano, avversi egualmente alla tirannide ed all’anarchia, nella religione della coscienza inspirata, non incatenata, dalla tradizione. Senza Educazione Nazionale non esiste veramente Nazione».

Le coordinate attorno alle quali ruota la società postmoderna sembrano “lontane anni luce” dal pensiero mazziniano; eppure la postmodernità non è l’oggetto di alcuna trama di Ridley Scott, il regista del film Blade Runner.

L’ideale mazziniano della «Patria fra le Patrie» è divenuto utopia. La civiltà Occidentale ha preso semplicemente direzioni diverse da quelle da lui auspicate, talvolta in antitesi. L’esito di questo percorso arzigogolato è il “villaggio globale”. In questa sede ci proponiamo di ripercorrerle.

La politica ha rinunciato alla sua vocazione originaria, non determina più i fenomeni, si sforza soltanto di gestirli, nella vana illusione «di poter trovare soluzioni locali a problemi globali» per usare le parole di Zygmunt Bauman.

Come bene ha sottolineato Roberto Casati, la «digitalizzazione invade il mondo della scuola» che si arrende all’innovazione tecnologica subendola passivamente, piuttosto che cercare di dominarla.

La “corsa alle professioni” preannuncia spiacevoli sorprese. La permanente transitorietà è divenuta un carattere costitutivo del consueto vivere e l’homo migrans si vede costretto a sacrificare sull’altare delle “competenze e della ricerca occupazionale” le proprie passioni e gli affetti che non può portare con sé nella propria valigia. La filosofia dell’azione ha ceduto così il passo alla generalizzata “retorica della fuga”. Le colonne sonore del compositore tedesco Hans Zimmer fungono bene da sottofondo musicale al nuovo contesto nel quale siamo immersi.

I diritti “politici” del cittadino si contraggono ai minimi storici, il suo diritto di voto assume le sembianze del “potere di zapping” che abbiamo davanti alla tivù quando con il telecomando decidiamo quale canale guardare, senza poter stabilire né l’ordine di successione, tantomeno il contenuto dei programmi che vengono trasmessi in onda. Tutto ciò in un sistema in cui le preferenze sono state sostanzialmente abolite; le petizioni e le iniziative legislative popolari non sono capaci di incidere; i referendum si trasformano in “plebisciti” personali; nella cabina per le elezioni politiche si può barrare soltanto un simbolo presente sulla scheda; il “favore” al politico di turno diviene l’unico criterio per la selezione delle assemblee rappresentative da parte delle segreterie di partito.

La povertà culturale dei “talk show” e dei giornali, mezzo indispensabile per l’etero direzione delle coscienze e la monopolizzazione dei contenuti sui quali verte il dibattito pubblico, producono un senso di smarrimento, narrazioni senza contradditorio e una pochezza di argomentazioni che spinge spesso i giovani a difendersi “dal” dibattito, anziché “nel” dibattito. È il tramonto del “cogito ergo sum” cartesiano.

Il G7 di Ischia sulla “cybersicurezza” ha visto quale novità assoluta la partecipazione assieme alle supreme autorità statali dei rappresentanti dei Big Provider internazionali: Google, Twitter, Facebook, Microsoft. La rivoluzione informatica comincia a rivendicare la sua rilevanza anche in ambito giuridico. Nel diritto internazionale classico, con l’espressione “violazione della sovranità territoriale” si allude alla presenza “fisica” e “non autorizzata” di un organo straniero in un determinato territorio. Vi sembra che alla luce dei fatti del Russiagate questa definizione possa conservare ancora il suo carattere esaustivo? I terremoti “finanziari” hanno visto protendere sempre di più la bilancia dei “pesi di forza” fra economia e politica a favore della prima, a discapito della seconda. Ci sono gli estremi perché la Grecia possa invocare il principio all’autodeterminazione dei popoli contro le ingerenze, reiterate oramai allo scoperto da diversi anni, dal Fondo Monetario Internazionale nella sua politica interna ed estera? Dal “post colonialismo” siamo precipitati nel “neocolonialismo finanziario”.

Tanto ha fatto discutere l’estate scorsa il Codice di Condotta per le ONG. Ad innalzare le temperature dell’autunno poi trascorso è bastata la “febbre catalana” inaugurata gloriosamente con le proteste di piazza e terminata con la fuga di Puigdemont, ribattezzato “cuor di leone”. In un mondo in cui vanno smarrendosi le “identità”, esplodono le tendenze centrifughe e i populismi “etnici” sono pronti a cavalcarle.

Assomigliano tutti questi avvenimenti a puntate, con annessi colpi di scena, di una fantomatica serie televisiva su Netflix, i cui protagonisti sono gli Stati nazionali che resistono con tutte le forze loro a disposizione alla globalizzazione e alle degenerazioni istituzionali che questa produce.

I cambiamenti climatici ci impongono infine una riflessione: quanto il nostro vissuto incide sull’esistenza di chi nascerà dopo di noi? Un bellissimo segnale giunge dalla Giurisprudenza filippina. Vedasi la Sentenza della Corte Suprema delle Filippine del 30.07.1993. Un gruppo di minorenni filippini aveva agito in giudizio contro delle concessioni per lo sfruttamento del legno, invocando il diritto a impedire che le foreste fluviali filippine fossero danneggiate. La Corte Suprema, oltre ad aver ribadito il principio allo “sviluppo ecosostenibile”, quale preminente valore costituzionale, ha riconosciuto il diritto di azione popolare ai minorenni ritenuti «rappresentanti contestualmente la propria generazione e quelle non ancora nate».

Ci si interroga su quale sia il ruolo dei giuristi nella postmodernità. Ci viene in soccorso una metafora geniale. Quando i carabinieri trattengono ai posti di blocco gli autobus, con a bordo i passeggeri, per effettuare dei controlli sulla velocità percorsa dal mezzo, estraggono il cronotachigrafo per fare le opportune verifiche. Immaginate dunque che il cronotachigrafo sia il quadro delle relazioni sociali, i chilometri percorsi dall’autobus siano i continui mutamenti cui è esposta la società, l’insieme dei rapporti stilati dai carabinieri la “giurisprudenza”. I giuristi come “scienziati sociali”.



 

 

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