N. 7 - Luglio 2008
(XXXVIII)
La ignominiosa
alleanza
Il contributo
mafioso alla
vittoria Alleata in
Sicilia
di Davide Caracciolo
L’inchiesta ufficiale condotta dal commissario
investigativo dello Stato di New York, William B.
Herlands, tra il 28 gennaio e il 17 settembre del
1954, provò che il superboss mafioso Salvatore
Lucania (Lucky Luciano) e altri grossi esponenti
della malavita collaborarono attivamente allo sforzo
bellico degli Stati Uniti durante la seconda guerra
mondiale.
Herlands dimostrò che tra il Naval Intelligence e il
capo della mafia italo-americana era stato sancito
un accordo in virtù del quale la malavita aiutò gli
agenti della Marina a salvaguardare il porto di New
York dagli atti di sabotaggio compiuti dalle spie
tedesche e dai simpatizzanti di Mussolini. Tale
collaborazione si estese, successivamente, per la
pianificazione militare dello sbarco in Sicilia,
attraverso l’indicazione di contatti sull’isola che
avrebbero facilitato l’offensiva nei territori
occupati.
Dal dicembre del 1941 gli Stati Uniti avevano subito
notevoli perdite di naviglio, diretto in Gran
Bretagna, in seguito ad attacchi condotti da
sommergibili tedeschi lungo la costa atlantica, ed
inoltre erano frequenti i sabotaggi nei porti. Ciò
che bisognava fare era capire come fosse possibile
che le notizie sui movimenti dei convogli in
partenza dal porto di New York potessero arrivare ai
tedeschi. Secondo la Commissione Herlands, il Naval
Intelligence creò un’organizzazione di
controspionaggio reclutando malavitosi attraverso il
coinvolgimento del sindacato del crimine. In questo
modo la mafia rafforzò il controllo sul fronte del
porto. A cucire tale rapporto tra il Naval
Intelligence e la mafia provvide Lucky Luciano, che
pur rinchiuso in prigione, riusciva ad impartire
ordini ai suoi uomini.
I buoni risultati ottenuti nel porto di New York,
fecero decidere ai capi del Naval Intelligence di
sfruttare l’accordo con la malavita organizzata per
pianificare la futura
occupazione della Sicilia. Per preparare lo sbarco
occorrevano informazioni dettagliate sull’isola. Le
fonti più attendibili non potevano che essere gli
innumerevoli immigrati siciliani. A superare la
diffidenza delle famiglie di immigrati verso i
servizi segreti e a convincerli ad aiutare il Naval
Intelligence sarebbe stata la mafia americana, e in
prima persona, ancora una volta Lucky Luciano. Il
materiale informativo che venne raccolto era
costituito, oltre che dalle testimonianze orali,
anche da fotografie e cartoline dei luoghi in cui
avevano dimorato in Sicilia.
Nella comunità siciliana molti erano i mafiosi che
erano stati costretti da Mussolini ad abbandonare
l’isola ed emigrare negli Stati Uniti. Questi
sarebbero stati ben lieti di aiutare il governo
americano ad eliminare un regime che, ai loro occhi,
aveva diffamato la Sicilia con leggi speciali di
pubblica sicurezza trasformando l’isola in una
colonia penale.
L’aiuto consistette nel mettere in contatto i
servizi segreti americani con l’”onorata società”
siciliana. Il sostegno che la mafia siciliana dette
ai servizi segreti fu più di tipo logistico che
propriamente militare. Compito principale dei
mafiosi era quello di accogliere e nascondere gli
agenti segreti dell’OSS (Office of Strategic Service)
sbarcati clandestinamente in Sicilia mesi prima
dello sbarco. Insieme avrebbero dovuto raccogliere
informazioni su postazioni difensive costiere, campi
minati, armamenti, fortificazioni e movimenti di
truppe. Inoltre avrebbero dovuto attuare un’opera di
convincimento sulla popolazione civile e sui soldati
italiani affinché rinunciassero ad ogni forma di
lotta contro le forze alleate. Ciò mirava, oltre ad
indebolire la volontà di combattimento della difesa
italiana, a fare in modo che i tedeschi si venissero
a trovare attorniati da una popolazione ostile che
non avrebbe creato problemi agli alleati durante la
conquista dell’isola.
Successivamente al momento dello sbarco mafiosi e
agenti segreti avrebbero dovuto creare il caos nelle
comunicazioni delle forze di difesa, provocando
interferenze telefoniche e telegrafiche e
interruzioni stradali. Segnale d’inizio
dell’operazione fu un fazzoletto giallo con al
centro una L nera, rappresentante l’iniziale di
Lucky Luciano, lanciato da un aereo su Villalba
avente come destinatario il capo mafia siciliano don
Calogero Vizzini. Se tutto ciò potrebbe apparire
come una favola, un mito, di certo più realistico
appare il rapporto che intercorse tra Alleati e
mafia, alla fine delle operazioni militari, durante
il Governo militare alleato.
Alla fine della campagna militare agli Alleati si
presentò il problema dell’amministrazione
dell’isola. E’ in questo periodo che si registra una
folgorante ripresa della mafia.
Molti mafiosi, presentandosi come antifascisti,
riuscirono ad inserirsi nei posti chiave del governo
siciliano. Don Calogero Vizzini venne nominato
sindaco di Villalba, nomina che passava sotto il
diretto controllo del capo degli Affari Civili
dell’AMGOT, il colonnello Charles Poletti; Salvatore
Malta sindaco di Vallelunga; Genco Russo
sovrintendente agli Affari Civili di Mussomeli;
Damiano Lumia fu nominato interprete di fiducia
presso il Civil Affairs Office di Palermo; Max
Mugnani divenne depositario dei prodotti
farmaceutici che gli americani avevano ammucchiato a
cataste nelle campagne di Cerda e al boss mafioso
Vincenzo De Carlo fu affidato il controllo degli
ammassi di grano.
Tale distribuzione dei posti di potere mostra come
il fenomeno mafioso fosse molto più presente nella
Sicilia occidentale rispetto a quella orientale. La
mafia in questo modo riuscì ad uscire dalla
clandestinità in cui era stata relegata dal regime
fascista, ottenendo una legittimazione del proprio
potere rapportato non più sul solo piano locale, ma
su quello nazionale e internazionale. Fu lo stesso
generale Francis Rennel of Rodd, comandante in capo
degli Affari Civili dell’AMGOT, ad ammettere
l’inquinamento mafioso dell’amministrazione
dell’isola e dello stesso governo militare alleato,
cercando al contempo una giustificazione. Nel suo
rapporto sulla situazione isolana dell’agosto 1943
scrisse:
“Di fronte al popolo che tumultuava perché fossero
rimossi i podestà fascisti, molti dei miei ufficiali
caddero nella trappola di scegliere in sostituzione
i primi venuti che si autoproponevano oppure di
seguire il consiglio degli interpreti che si erano
accodati a loro e che avevano imparato un po’ di
inglese durante qualche loro soggiorno negli Stati
Uniti. Il risultato non era sempre felice, le scelte
finivano per cadere in molti casi sul locale boss
mafioso o su un suo uomo ombra il quale in uno o due
casi era cresciuto in un ambiente di gangster
americani. Tutto ciò che poteva essere detto di
alcuni di questi uomini era che essi erano tanto
antifascisti quanto indesiderabili da ogni altro
punto di vista. Le difficoltà che gli stranieri
incontrano nei primi giorni d’una occupazione a
valutare il merito o la pericolosità dei personaggi
locali deve essere chiara a chiunque abbia dedicato
qualche riflessione a questo proposito.”
Fu così che la mafia rialzò la testa. La sua
riorganizzazione ebbe un solido sostegno economico
nei profitti ottenuti con il mercato nero e con
altre illecite attività, sviluppate grazie alla
benevolenza del governo militare anglo-americano,
riuscendo a recuperare il tempo perduto al tempo
della dittatura fascista. Addirittura le stesse file
mafiose vennero ingrossate, con l’apertura delle
prigioni, da quei detenuti criminali che vennero
liberati dagli Alleati in nome della sopraggiunta
democrazia.
Nell’ottobre del 1943, il colonnello Bolles,
commissario alla Public Safety (Pubblica Sicurezza)
del quartier generale dell’AMGOT di Palermo, e il
sostituto commissario, tenente colonnello Martin,
richiesero al generale di brigata Holmes un rapporto
sul problema della mafia in Sicilia. L’indagine fu
affidata al capitano W.E. Scotten, da tre anni vice
console americano a Palermo, che elaborò un
documento dal quale venne fuori in maniera
inequivocabile che dal giorno dall’occupazione
anglo-americana, e con la caduta del fascismo,
l’organizzazione mafiosa aveva recuperato il
controllo del potere criminale nell’isola dando
prova di un’ampia e diffusa ripresa.
Nel suo Report on the Problem of Mafia in Sicily,
datato 29 ottobre 1943, Scotten apriva la relazione
sulle origini e sulla natura della mafia. Il
fenomeno mafioso venne considerato come una
conseguenza del carattere proprio della storia
siciliana. La mafia sarebbe nata tra i siciliani
come un sistema di difesa delle persone e delle
proprietà, dato che i governi negligenti erano
incapaci di provvedere alla sicurezza interna,
assumendo il carattere di una specie sistema feudale
dove le persone mettevano loro stessi, le loro
greggi, le loro terre coltivate e i loro boschi
sotto la protezione di personaggi locali, che in
cambio ricevevano tributi in beni o in denaro. Essa
successivamente degenerò in un sistema criminale il
cui unico scopo era l’estorsione e il furto impunito
giungendo ad avere nelle sue mani la bilancia del
potere politico in Sicilia.
Per Scotten l’avvento del fascismo rappresentò una
modificazione importante di tale stato di cose. Ma
solo una modifica parziale visto che l’attacco di
Mori fu principalmente diretto contro i livelli più
bassi, mentre il più alto livello della mafia non fu
apprezzabilmente colpito. Pertanto la mafia fu
costretta semplicemente a nascondersi sottoterra
senza essere mai estinta nel vero senso della
parola.
Per l’autore, da tutti i contatti avuti con la
popolazione e dai rapporti degli operatori del CIC (Counter
Intelligence Corps, Corpo di Controspionaggio), la
mafia dava, dall’occupazione dell’isola e dalla
caduta del fascismo, evidenti segni di un’ampia
ripresa. Era, dunque, necessario affrontare il
problema al più presto, quando la mafia, dopo 15
anni di relativa inattività, non aveva ancora
riacquistato la sua vecchia potenza, la sua
organizzazione era ancora dispersa e circoscritta, e
la gente non si trovava ancora sotto l’incubo della
paura, che stava emergendo, e del silenzio che la
mafia sapeva bene come imporre. Inoltre questa si
stava già attrezzando con i più recenti tipi di armi
e di equipaggiamenti raccolti sui campi di
battaglia, tra le quali mitragliatrici, mortai da
trincea, mine da terra, radio e ampie riserve di
munizioni.
Nella relazione Scotten evidenziò, come fece Rennel
of Rodd, il rapportò che gli Alleati instaurarono
con elementi mafiosi. Esistevano molti casi di
funzionari del Civil Affairs che, oltre ad aver
ceduto alle lusinghe dell’aristocrazia terriera la
quale era in stretto rapporto con la mafia, da
quest’ultima, erano stati traviati e ingannati da
interpreti e consiglieri corrotti, fino al punto di
essere di correre il rischio di diventare strumenti
involontari della mafia. Di conseguenza i siciliani
perdevano sempre più fiducia nella loro capacità di
trattare il problema della mafia.
L’analisi di Scotten mise in evidenza anche il
drammatico problema del mercato nero del cibo e
dell’accaparramento dei beni prima necessità, le
principali attività della mafia attraverso le quali
riusciva ad accumulare ricchezza. Merci e prodotti
di prima necessità, invece di essere distribuiti
alla popolazione attraverso i canali ufficiali in
conformità alle norme del razionamento venivano
dirottati al traffico illegale . Lo stesso grano
prodotto, invece di essere consegnato agli ammassi,
veniva nascosto ad opera dei proprietari terrieri o
degli speculatori protetti dalla mafia. Ciò portava
ad una insoddisfazione tra la popolazione che
arrivava a rimpiangere il fascismo. Se sotto il
fascismo c’era scarsezza e razionamento di cibo, ma
la razione di cibo era realmente disponibile e la
borsa nera era parzialmente controllata, sotto
l’amministrazione alleata la razione era per lo più
irraggiungibile e la borsa nera dei generi
alimentari era completamente sfuggita di mano.
La mafia dunque cominciava a rappresentare un
problema per gli Alleati. Alla fine della sua
relazione, il vice console americano indicò al
governo alleato tre possibili soluzioni per
affrontare la questione.
La prima prevedeva un intervento rapido e deciso da
attuare nel giro di alcuni giorni o al massimo in
una settimana, rafforzando in gran segreto l’Arma
dei Carabinieri con personale militare alleato e
arrestando e deportando per tutta la durata della
guerra cinquecento o seicento capimafia. Tali misure
erano ritenute sufficienti a interrompere il ritorno
della mafia al massimo per due o tre anni e forse,
se si fosse riorganizzata la polizia e la paura del
popolo fosse stata rimossa, per un periodo
indefinito.
La seconda soluzione consisteva nel venire ad un
accordo con la mafia stessa. Gli Alleati avrebbero
rassicurato i capimafia che il loro unico interesse
nel governare la Sicilia era il proseguimento dello
sforzo bellico, e che quindi non avrebbero mai
interferito negli affari interni dell’isola, il cui
governo sarebbe stato al più presto restituito ai
siciliani, e nelle attività mafiose. Però la mafia
avrebbe dovuto rinunciare a tutte le attività
connesse con il movimento e il commercio delle
derrate alimentari o di altri generi di prima
necessità richiesti dalla popolazione o prodotti
utili al proseguimento della guerra. Inoltre,
minacciandola, la si rassicurava affermando che gli
Alleati avevano sì il potere di distruggerla, ma che
non trovavano conveniente impiegare le forze
militari necessarie allo scopo.
Infine, la terza soluzione era quella della
resistenza e del contenimento dell’attività mafiosa,
l’abbandono di ogni tentativo di controllo sulla
mafia nell’isola e la ritirata in piccole zone di
enclave, delimitate e protette, all’interno delle
quali esercitare un vero e proprio governo militare.
Alla fine delle tre soluzioni prospettate fu seguita
l’ultima, la più facile e la meno dispendiosa, visto
che la piega degli avvenimenti bellici e politici
rendeva inutile o irrealizzabili qualsiasi tipo di
intervento dato che il governo militare sarebbe
stato presto abolito e la Sicilia sarebbe stata
restituita di lì a qualche mese all’Italia.
Riferimenti bibliografici:
Costanzo E., Mafia e Alleati, Le Nove Muse Editrice,
Catania 2006
Pantaleone M., Mafia e politica, Einaudi, Torino
1978
Renda F., Storia della Sicilia (1860-1970), Sellerio,
Palermo 1987
Tranfaglia N., Mafia, politica , affari nell’Italia
repubblicana (1943-1991), Laterza, Roma 1992
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