N. 81 - Settembre 2014
(CXII)
VITE SREGOLATE
PARTE III - George Best
di Francesco Agostini
You’re
simply
the
best,
cantava
Tina
Turner
in
una
famosissima
canzone
pop
degli
anni
ottanta
e, a
guardar
bene,
il
titolo
ben
si
adatta
a un
giocatore
della
classe
ed
esplosività
di
George
Best.
Dal
cognome
stesso
del
calciatore
nordirlandese
si
sarebbe
dovuto
intuire
subito
la
sua
natura
da
predestinato;
un
predestinato
del
calcio,
ovviamente.
Nato
il
ventidue
maggio
del
1946
a
Belfast,
George
Best
si
mette
subito
in
luce
nelle
giovanili
per
la
sua
potenza
e
velocità,
nonostante
un’altezza
non
eccelsa
come
quella
di
1,72
centimetri.
Oltre
a
questo
deficit,
il
giocatore
nordirlandese
è
terribilmente
magro
e
gracile.
Nonostante
questo,
a
soli
quindici
anni
viene
notato
da
un
colosso
del
calcio
mondiale
come
il
Manchester
United
che
decide
immediatamente
di
portarlo
in
Inghilterra,
sicuro
di
poterlo
far
diventare
una
stella.
L’inizio
è
però
scioccante.
Il
giovane
Best
è un
adolescente
in
erba,
poco
più
di
un
bambino,
e
sbarcato
a
Manchester
sente
nostalgia
di
casa.
Così,
come
se
nulla
fosse,
prende
il
primo
traghetto
disponibile
e
torna
a
Belfast
dalla
famiglia.
Incredibile,
vero?
Eppure
le
cose
andarono
proprio
così
e fu
solamente
grazie
alla
sensibilità
dell’allenatore
dell’epoca,
Matt
Busby,
che
un
talento
del
genere
non
si
perse
per
sempre.
Busby,
infatti,
si
reca
a
Belfast
e
convince
il
piccolo
George
Best
a
tornare
in
Inghilterra.
George
diventerà
un
mito,
per
Manchester
e
per
il
mondo
intero.
Le
giocate
e i
goal
di
Best
si
moltiplicano
a
dismisura
e
diventa
in
pochi
anni
il
miglior
calciatore
che
abbia
mai
calcato
i
campi
da
gioco
inglese.
In
più
è
giovane
e
bello,
il
che
non
guasta.
Arrivano
i
primi
soprannomi:
“Belfast
boy”,
“The
genius”,
“Il
quinto
Beatle”,
per
via
dell’acconciatura
da
“capellone”,
termine
con
cui
si
indicava
all’epoca
la
moda
di
portare
i
capelli
(relativamente)
lunghi.
La
scalata
di
George
Best
è
inarrestabile
e
nel
1968,
a
soli
ventidue
anni,
arriva
il
Pallone
d’Oro,
degno
riconoscimento
di
anni
dediti
al
calcio
e al
sacrificio.
Dopo
di
ciò
inizia
un
lento
declino.
Alla
radice
c’è
forse
l’età
ancora
giovane
del
campione
nordirlandese.
Best,
infatti,
brucia
tutte
le
tappe
e
arriva
al
successo
presto.
Troppo
presto,
forse.
George
si
ritrova
in
pochi
anni
catapultato
in
una
realtà
che
è
distante
anni
luce
da
quella
in
cui
è
vissuto
fin
dall’infanzia,
Belfast,
dove
la
cruda
realtà
del
sottoproletariato
urbano
domina.
Dal
buio
alla
luce
quindi,
dall’essere
nessuno
all’essere
un
mito
per
gli
appassionati
di
calcio
di
tutto
il
mondo
e,
soprattutto,
delle
ragazze.
“Il
quinto
Beatle”
entra
quindi
in
un
vortice
di
alcol,
droga
e
sesso
che
ne
condiziona
ovviamente
le
prestazioni
in
campo,
che
non
sono
più
le
stesse
da
molti
anni
ormai.
Che
dire,
dunque?
Il
mito
di
Best
calciatore
lentamente
si
oscura,
eclissato
dal
Best
“viveur”,
il
giovane
ricco
e
famoso
self
made
man
che
ama
contornarsi
di
molte
donne
e
fare
la
bella
vita.
Best
che
sostituisce
Best,
quindi,
in
una
sorta
di
gioco
perverso
in
cui
il
suo
doppelgänger,
il
suo
doppio,
prende
il
sopravvento
sull’altro,
il
calciatore
fenomenale
che,
metaforicamente
parlando,
rappresenterebbe
la
sua
parte
“buona”.
In
fin
dei
conti,
però,
per
George
Best
la
cosa
non
appare
poi
così
malvagia.
Anche
il
rapporto
con
il
Manchester
e
con
la
città
Manchester
inizia
a
incrinarsi.
Si
sgretola
piano
piano,
in
maniera
graduale,
e
nel
1974
arriva
il
divorzio
che
chiude
una
grande
avventura
e,
forse,
un
grande
sogno
realizzato
a
metà.
A
ventotto
anni,
di
fatto,
Best
lascia
il
calcio
che
conta
e va
a
giocare
in
Irlanda,
presso
i
modesti
(modestissimi
in
paragone
a
quel
Manchester
United)
Cork
Celtic.
Dopo
la
breve
esperienza
irlandese,
“The
genius”
comincia
a
girovagare
per
gli
Stati
Uniti,
in
cerca
più
di
dollari
che
di
sfide
e
sano
agonismo.
Gioca
nell’ordine
in:
Los
Angeles
Aztecs,
San
Jose
Earthquakes,
Fort
Lauderdales
Strikers,
Hibernian,
Bournemouth
e
Queensland
Roar,
senza
contare
una
piccola
parentesi
al
Fulham,
nella
seconda
divisione
inglese.
Appesi
gli
scarpini
al
chiodo,
scivola
sempre
di
più
nei
suoi
vizi,
che
ormai
lo
hanno
reso
completamente
schiavo.
La
decadenza
di
Best
toccherà
il
punto
più
basso
quando,
nel
1984,
verrà
arrestato
per
offese
a un
pubblico
ufficiale
in
seguito
a
guida
in
stato
di
ubriachezza.
D’altronde,
la
filosofia
di
vita
di
George
Best
era
proprio
questa,
resa
in
maniera
efficace
da
una
sua
famosa
frase:
“Ho
speso
molti
soldi
per
alcool,
donne
e
macchine
veloci
(...)
il
resto
l'ho
sperperato”.
Più
chiaro
di
così.
Best
però
non
ha
fatto
i
conti
con
il
suo
fegato,
che
inizia
inevitabilmente
a
cedere,
affaticato
com’é
da
anni
di
eccessi
e
abusi.
Nel
2002
dunque,
arriva
il
primo
e
unico
trapianto
che
riduce
l’attività
epatica
del
20%.
Tre
anni
più
tardi,
nel
2005,
debilitato
nel
fisico
e
nello
spirito,
Best
muore
al
Cromwell
Hospital
di
Londra
per
un’infezione
ai
polmoni.
Anche
nella
morte
comunque,
George
Best
fa
notizia.
In
quel
periodo,
infatti,
il
famoso
giornale
inglese
News
of
the
World
pubblicò
una
foto
del
calciatore
nordirlandese
sdraiato
nel
letto
d’ospedale
con
scritte
in
basso
le
parole:
Don’t
die
like
me,
ossia
non
morite
come
me.
La
cosa
pochi
giorni
dopo
fu
smentita
da
alcuni
amici
che
reputarono
la
cosa
come
una
pura
e
semplice
invenzione
giornalistica,
mirata
a
mandare
un
messaggio
politically
correct
ai
giovani.
La
loro
versione
consisteva
infatti
nel
dipingere
un
Best
assolutamente
non
pentito
di
ciò
che
aveva
fatto
e
felice
di
aver
vissuto
una
vita
breve
ma
avventurosa.
Una
vita
“on
the
road”
dunque,
per
dirla
alla
Jack
Kerouac,
che
lo
ha
portato
alla
fama,
alla
gloria
e al
mito.