N. 148 - Aprile 2020
(CLXXIX)
IL
DOPOGUERRA
NEL
XXI
SECOLO
Un
nemico
invisibile
chiamato
virus
di
Viviana
Regine
«E
come
potevamo
noi
cantare
con
il
piede
straniero
sopra
il
cuore,
tra
i
morti
abbandonati
nelle
piazze
sull’erba
dura
di
ghiaccio,
al
lamento
d’agnello
dei
fanciulli,
all’urlo
nero
della
madre
che
andava
incontro
al
figlio
crocifisso
sul
palo
del
telegrafo?
Alle
fronde
dei
salici,
per
voto,
anche
le
nostre
cetre
erano
appese:
oscillavano
al
triste
vento»
Alle
fronde
dei
salici,
Salvatore
Quasimodo
Così
scriveva
Salvatore
Quasimodo
nel
1944,
quando
il
componimento
Alle
fronde
dei
salici
fu
pubblicato
e
poi
inserito,
nel
1947,
nella
raccolta
“Giorno
dopo
giorno”.
Mi
sembra
quanto
di
più
attuale
possa
esprimere
una
poesia
in
questo
momento.
Ora
sopra
il
cuore,
a
opprimerci
e
renderci
insicuri,
non
vi è
il
piede
straniero
ma
un
virus;
un
nemico
invisibile
che
sta
decimando
la
popolazione
e
che
sta
costringendo
intere
famiglie
a
rimanere
a
casa,
rinunciando
alla
propria
routine
e
alle
proprie
abitudini.
Non
ci
sono
più
madri
che
piangono
i
figli
impiccati
dai
nazisti
ai
pali
del
telegrafo,
ma
madri
che
piangono
figli
ammalati
che
non
possono
vedere,
figli
che
piangono
genitori
che
muoiono
da
soli,
perché
la
malattia
ti
costringe
a
sofferenze
ma,
soprattutto,
alla
solitudine.
Diventi
un
pericolo,
oltre
che
un
ammalato.
Questa
è
una
guerra
silenziosa;
non
vi
sono
più
bombe
o
attacchi.
Oggi
ci
sono
medici,
infermieri,
operatori
sanitari
che
ogni
giorno
lottano
per
non
contagiarsi
e
per
salvare
le
vite
degli
altri.
Non
ci
sono
nemici
da
inseguire
ed
eliminare;
c’è
un
solo
grande
nemico
sconosciuto
ma
violento
che
sta
bloccando
il
mondo
intero.
Siamo
stati
colti
alla
sprovvista,
nonostante
la
Cina
prima
di
noi
si
sia
trovata
in
questa
situazione.
Questa
pandemia
ci
sta
costringendo
a
rivedere
le
nostre
abitudini,
ma
soprattutto
il
nostro
posto
nel
mondo.
Ci
sta
facendo
rendere
conto
che
siamo
piccoli,
siamo
ospiti
in
questo
pianeta;
ed è
proprio
la
nostra
casa
che,
forse,
si
sta
ribellando
alla
nostra
invadenza.
La
natura
va
avanti,
continua
a
nascere
e
crescere
mentre
noi
siamo
bloccati
nelle
nostre
mura
domestiche,
impotenti
e
incapaci
di
controllare
ciò
che
succede
intorno
a
noi.
Pensavamo
di
essere
noi
quelli
ad
aver
dominato
la
natura,
ad
aver
conquistato
e
addomesticato
il
pianeta.
Ma
forse
la
nostra
ambizione
e la
nostra
superbia
ha
superato
di
gran
lunga
la
realtà.
Questa
catastrofe
non
ha
coinvolto
solo
il
nostro
paese,
ma
tutta
l’umanità.
Per
la
prima
volta
,
forse
dal
secondo
dopoguerra,
siamo
tutti
uguali.
La
malattia
non
fa
distinzioni:
i
soldi
o la
classe
sociale
non
possono
salvarti.
Oggi,
come
allora,
la
gente
è
disorientata,
male
informata.
Inizia
a
prevalere
l’istinto
di
sopravvivenza
per
cui
ognuno
combatte
“la
propria
battaglia”.
Oggi
come
quasi
settanta
anni
fa,
l’Italia
dovrà
fare
i
conti
con
la
disoccupazione,
il
debito
pubblico
e,
soprattutto,
con
la
rabbia.
Pensiamo
di
aver
imparato
dal
passato,
fissiamo
ricorrenze
per
non
dimenticare
ma,
alla
fine,
nel
momento
di
crisi
ci
ritroviamo
ad
affrontare
le
medesime
difficoltà.
Le
difficoltà
di
chi
deve
uscire
da
una
guerra,
di
chi
deve
risollevare
un
Paese
distrutto,
devastato
e
dilaniato
dalla
sofferenza.
Dopo
il
referendum
del
1946
la
classe
politica
italiana
si
divise
a
causa
di
due
diverse
visioni
per
la
ripresa
economica.
Vi
fu
chi
sostenne
un’idea
basata
sul
libero
mercato
e
sull’iniziativa
privata,
e
chi
sostenne
il
ruolo
programmatore
dello
stato.
La
divergenza,
insieme
alla
Guerra
Fredda,
portò
alla
rottura
del
fronte
antifascista
e
alla
nascita
del
primo
governo
centrista
a
guida
DC:
comunisti
e
socialisti,
inizialmente
al
fianco
del
Governo
Parri
(il
primo
governo
di
coalizione
dopo
il
fascismo)
passarono
all’opposizione.
Oggi
come
allora
abbiamo
smesso
di
credere
nella
classe
di
governo
che,
sempre
come
allora,
continua
a
rimanere
frammentata,
divisa
e
sempre
sul
piede
di
guerra
anche
quando
i
loro
cittadini
si
ammalano
e
muoiono.
L’economia
e la
società
sono
le
fasce
più
colpite
durante
una
guerra.
L’economia
italiana,
alla
fine
della
seconda
guerra
mondiale,
era
in
condizioni
gravissime.
Il
danno
globale
risultò
essere
pari
a
3.200
miliardi
di
lire
(pari
a
tre
volte
il
reddito
del
1938),
l’apparato
industriale
era
fortemente
danneggiato,
con
una
produzione
scesa
a
meno
di
un
terzo
di
quella
dell’anteguerra,
proprio
come
la
produzione
agricola
nell’Italia
centrale.
La
fine
della
guerra
provocò
una
forte
spaccatura
tra
Nord
e
Sud.
Dal
punto
di
vista
sociale
quella
uscita
dal
secondo
conflitto
mondiale
era
una
generazione
devastata.
Vi
erano
i
reduci,
ragazzi
che
avevano
vissuto
l’inferno
e
avevano
avuto
la
fortuna
di
sopravvivervi
senza,
però,
riuscire
a
trovare
un
posto
nel
mondo
che
avevano
lasciato
prima
della
guerra.
La
gente
non
voleva
ascoltarli,
non
voleva
sapere
e
loro,
dopo
aver
sacrificato
la
loro
vita
per
il
futuro
dell’Italia,
si
trovarono
relegati
ai
suoi
margini.
La
popolazione
era
disorientata,
alcuni
senza
case;
cadute
a
cause
dei
bombardamenti.
Altri
senza
famiglia,
altri
senza
lavoro.
Iniziarono
problemi
per
gli
approvvigionamenti
alimentari:
nel
’45
la
quantità
media
giornaliera
di
calorie
a
disposizione
di
ogni
cittadino
era
meno
della
metà
di
quella,
già
piuttosto
scarsa,
del
’38.
La
gente
era
così
disperata,
rimasta
senza
nulla,
che
in
alcune
regioni
si
diffuse
il
fenomeno
del
banditismo.
Anche
oggi,
nella
guerra
che
stiamo
affrontando,
possiamo
ritrovare
alcune
similitudini.
Non
abbiamo,
certo,
case
distrutte
dalle
bombe.
Ma
abbiamo
amici
e
familiari
che
ogni
giorno
combattono
nelle
nuove
trincee:
gli
ospedali.
Abbiamo
persone
scioccate
per
aver
perso
qualcuno
da
un
giorno
all’altro,
senza
poterlo
salutare,
potendo
guardare
come
sua
ultima
immagine
una
bara.
Oggi
il
Covid-19
ci
ha
mostrato
un
altro
tipo
di
inferno.
Quello
delle
aree
del
bergamasco,
dove
sono
passati
i
camion
militari
per
seppellire
i
cittadini
altrove.
Quello
della
paura
di
rimanere
senza
provviste
alimentari,
senza
lavoro,
senza
un
appoggio
per
rialzarsi.
L’inferno
quotidiano
di
dover
girare
tutto
il
giorno
con
il
viso
coperto
da
una
mascherina
vedendo
gli
altri
non
più
come
esseri
umani,
ma
come
possibili
untori.
Siamo
passati
dall’abbracciarci
all’evitarci.
Diventeremo
un
popolo
che
ha
paura
di
stringersi
la
mano?
Paura
di
baciarsi?
Non
siamo
partiti
per
la
guerra
a
sparare
ad
altri
esseri
umani,
è
vero,
ma
siamo
stati
catapultati
in
una
realtà
dove
ci
sono
state
tolte
tutte
le
nostre
possibilità
sociali.
Siamo
immersi
nel
terrore
di
fare
le
più
piccole
cose
e di
farle
con
gli
altri.
I
danni
economici
che
questa
pandemia
provocherà
sono,
probabilmente,
ancora
incalcolabili.
È
sicuro
che
l’Italia
dovrà
affrontare
una
ripresa
economica
lunga
e
dolorosa,
dove
molta
gente
perderà
il
lavoro,
avrà
paura
di
non
riuscire
ad
arrivare
a
fine
mese.
Il
nostro
Paese,
in
questo
momento,
ha
bisogno
di
ricordare
davvero
il
suo
passato.
Di
rendere
quella
devastazione
e
quel
dolore
che
le
vecchie
generazioni
hanno
provato
un
monito
per
non
permettere
che
ciò
succeda
anche
a
noi.
Il
passato
non
si
può
cambiare,
ma
può
far
cambiare
il
futuro.
Questa
è la
guerra
del
ventunesimo
secolo,
la
nostra
guerra
che
stiamo
combattendo
e da
cui
dovremmo
uscire;
proprio
come
chi
è
venuto
prima
di
noi
ha
combattuto
la
sua
battaglia
e,
in
qualche
modo,
ne è
uscito.
Così
come
allora
ci
troviamo
nella
situazione
di
dover
ricostruire
un
Paese
in
grave
crisi,
dove
il
virus
pone
le
nostre
istituzioni
davanti
a
una
grande
sfida:
quella
di
rialzarci
tutti
insieme.