filosofia & religione
FINCHÈ MORTE NON CI SEPARI
SUL VINCOLO MATRIMONIALE NEI TESTI DEI
PADRI DELLA CHIESA:
ELEMENTI CLASSICI E GIUDAICI NELLE NOZZE
DELL’ALTO MEDIOEVO
di Vito Augugliaro
L’istituzione del matrimonio e i riti a
esso connessi hanno da sempre attirato
l’attenzione di numerosi studiosi, come
è evidente dalla ricca bibliografia
esistente su questo tema. Molte erano le
attenzioni e le accortezze rivolte a
questo importante momento della vita,
sia che esso avvenisse per vero amore o,
come accadeva più di frequente, per
siglare patti e accordi di varia natura.
In questo studio cercheremo di tracciare
un profilo storico sociale
dell’evoluzione del matrimonio nell’Alto
Medioevo, cercando di rendere evidente
quali sono gli elementi classici accolti
dalla cultura cristiana ma anche i punti
di innovazioni propri dell’Europa proto
cristiana.
Nel mondo antico, come anche nei primi
anni del Medioevo, che è figlio della
classicità, non era sempre consentito
contrarre matrimonio, dal momento che i
calendari in uso registravano giorni
nefasti, come per i romani, o giorni in
cui, a causa di feste e divieti
religiosi, come per gli ebrei, non era
consentito svolgere alcuna attività,
ancor meno sposarsi: ciò avrebbe steso
un velo di “sciagura” sulla coppia e la
nuova famiglia, e di conseguenza sarebbe
venuta meno la benedizione degli dei o
di Dio.
A fronte di una certa omogeneità nel
mondo antico nella celebrazione del
matrimonio, nei testi dei Padri della
Chiesa non sembrano emergere norme
condivise per celebrare e vivere il
vincolo nuziale, ma proprio per le
condizioni storico-sociali presenti
nell’Europa dei primi secoli del
Medioevo, esso era soggetto alle
tradizioni e agli usi e costumi dei
popoli presso i quali era officiato. La
successiva cristianizzazione dei
territori dell’ex Impero romano modificò
le pratiche nuziali, pur mantenendo, in
certi casi, ancora vivi usi e costumi
del mondo classico.
Innanzitutto vediamo come era inteso il
matrimonio nel mondo classico.
La letteratura giuridica romana
definisce il matrimonio come l’unione di
un uomo e una donna al solo scopo di
costituire una vita in comune intima e
duratura. Al tal proposito sembra
interessante la definizione che del
matrimonio romano è data da Modestino in
Digesto, 23, 2,1 e da Ulpiano
nelle Istituzioni di Giustiniano
(1,9,1.)
Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae
et consortium omnis vitae, divini et
humani iuris communicatio.
(Modestino, Liber primus regularum,
in D. 23,2,1)
Le nozze sono l’unione di un uomo e di
una donna e la comunanza di tutta la
vita e la partecipazione del diritto
divino e umano.
Nuptiae autem sive matimonium est viri
et mulieris coniunctio individuam
consuetudinem vitae continens.
(Ulpiano,
Istitutioni 1,9,1)
Le nozze o il matrimonio sono l’unione
di un uomo e una donna, che comporta
un’inseparabile consuetudine di vita.
Dai testi latini, che riferiscono
generalmente notizie sul matrimonio di
persone appartenenti alla classe
senatoria o equestre, emerge che il
vincolo matrimoniale è un atto
istituzionale di grande importanza
sociale, regolato da una serie di leggi
che si susseguono numerose dall’età
repubblicana fino al periodo tardo
antico, con gli ordinamenti giudiziari
emanati dagli imperatori Costantino e
Giustiniano. Tali ordinamenti avevano
soprattutto il compito di regolare
soprattutto l’ufficio del divorzio,
molto diffuso in tutta l’età imperiale e
considerato un vero flagello da molti
imperatori, Augusto in primis.
Inutile dire che tanto per i romani,
quanto per alcuni popoli barbarici che
con questa civiltà entrarono in
contatto, vivevano un matrimonio
combinato e gli sposi non potevano
scegliersi liberamente. Le cose sembrano
cambiare, secondo studi condotti da V.
Marletta Di Paola, intorno al V e VI
secolo d.C. quando, in effetti, sembra
esserci una maggiore libertà sia nella
scelta del partner, esattamente come
avveniva per i giudei, visti come i
progenitori del Cristianesimo, e che
molto hanno influito con le loro
tradizioni sulla formazione
dell’identità cristiana dell’Europa, sia
nella realizzazione del nuovo
significato del matrimonio. Infatti, le
norme emanate dagli imperatori
cristiani, e in particolar modo da
Giustiniano, si appoggiano sull’idea di
un matrimonio che duri per tutta la
vita.
Pertanto, non era più concepibile che il
matrimonio si reggesse in piedi fin
quando durava l’affectio maritalis,
cioè la volontà di continuare a essere
uniti in matrimonio, condizione
imprescindibile in età classica, senza
la quale il matrimonio cessava
immediatamente, ma l’intenzione iniziale
di essere uniti in matrimonio continuava
a essere valida indipendentemente dalla
persistenza del matrimonio stesso: per
la prima volta nelle costituzioni
imperiali si configurò il reato di
bigamia, sconosciuto al diritto
classico. È in nome di questa profonda
unione che si stabilisce che il
matrimonio resta valido, secondo S.
Agostino (in De bono coniugali
3,3), anche quando in età avanzata non
c’è più attività sessuale volta alla
procreazione. È possibile affermare,
però, che in generale i primi autori
cristiani, quelli che in un certo senso
vivono l’influenza giudaica sul
Cristianesimo, tendono a porre l’accento
sul legame affettivo tra i coniugi che
si manifesta nei periodi di lontananza e
che sopravvive anche dopo la morte di
uno dei due. Tertulliano, ad esempio,
critica fortemente l’idea di contrarre
seconde nozze per i vedovi.
XI.
[1] Duplex
enim rubor est, quia in secundo
matrimonio duae uxores eundem
circumstant maritum, una spiritu, alia
in carne. Neque enim pristinam poteris
odisse, cui etiam religiosiorem reseruas
affectionem, ut iam receptae apud
dominum, pro cuius spiritu postulas, pro
qua oblationes annuas reddis.
[2] Stabis
ergo ad dominum cum tot uxoribus quot in
oratione commemores et offeres pro
duabus et commendabis illas duas per
sacerdotem de monogamia ordinatum aut
etiam de uirginitate sancitum,
circumdatum uiduis uniuiris? et ascendet
sacrificium tuum libera fronte, et inter
cetera bonae mentis postulabis tibi et
uxoris castitatem?
(Tertulliano, De Exhortatione
Castitatis, 11, 1-2)
XI. [1] Infatti la vergogna è doppia,
poiché in un secondo matrimonio due
spose sono intorno allo stesso marito,
una con lo spirito, l’altra in carne (e
ossa). E infatti tu non potrai odiare la
prima, alla quale ancora riservi un
sentimento più santo, come quello che
ormai è riservato al Signore, per la cui
anima preghi, per la quale dai sacrifici
annuali. [2] Dunque tu starai davanti al
Signore con tante mogli quante ricordi
nelle preghiere? Offri sacrifici sacri
per le due donne e raccomanderai quelle
due alle (mani di) un sacerdote che è
votato alla monogamia, o anche alla
santa verginità, circondato da donne
vedove univire? Si eleverà il tuo
sacrificio liberamente, e chiederai tra
le altre cose con buona disposizione
d’animo la castità per te e per tua
moglie?
Si può quindi notare che l’unica
differenza con l’Ebraismo e la cultura
classica in generale, è dato dal fatto
che sia in Giovanni Crisostomo sia in
Agostino troviamo l’invito a non
considerare il matrimonio una
compravendita o una questione di
interesse, ma di mettere in primo piano
le qualità morali nella scelta del
marito e della moglie.
Un’ulteriore novità rispetto al mondo
classico, ma molto vicino
all’immaginario ebraico, è che le donne
romane di età cristiana fossero in
condizione di gestire la propria dote e
il proprio “patrimonio personale”, in
modo che, in caso di divorzio o ripudio
non avessero difficoltà
economico-finanziarie tali da non poter
permettersi né uno stile di vita
dignitoso e decoroso, né il mantenimento
dei figli legittimi. Questo però non ci
deve trarre in inganno. La donna romana
era “libera”, ma entro certi limiti ben
precisi. Essa era il mezzo attraverso il
quale si compiva il vero significato del
matrimonio romano: quello di unire due
famiglie, rafforzandone i rapporti
economico-politico-finanziari, tramite
l’azione pratica del trasferimento della
donna dalla casa paterna alla casa del
marito (deductio), nella quale
era sottoposta alla patria potestas
del suocero, se ancora in vita, o sotto
la potestas del marito.
In latino, infatti, il termine
matrimonium si riferisce proprio
alla condizione legale della matrona,
cioè la donna sposata (Gellio,
Istituzioni, 18, 6, 8-9). La sposa
entrava nella casa del marito loco
filiae, che poi, come dice Claudine
Leduc, è lo stesso status della
sposa greca nel cosiddetto “matrimonio
da nuora”. Il matrimonio da nuora, cioè
quello che prevedeva lo spostamento
della donna dalla casa paterna a quella
del marito, collocava, di fatto, la
sposa nella posizione giuridica di
figlia di suo marito e quindi di
“sorella” dei suoi figli.
In familiam uiri transibat filiaeque
locum optinebat
(Gaio, Istituzione I, 111)
Entrava nella famiglia del marito e
otteneva lo statuto di figlia. Altro
obiettivo del matrimonio, esattamente
come per gli ebrei e i greci, era quello
di assicurarsi una discendenza che
potesse servire lo Stato e la patria e
che facesse, nel caso degli uomini,
un’eccellente carriera politica e
portasse lustro ai suoi antenati e alla
sua casa.
Se quindi il significato e gli scopi del
matrimonio, anche nei primi anni
dell’Alto Medioevo, restano pressoché
identici a quelli di età classica, lo
stesso non può dirsi per il cerimoniale
dell’ufficio nuziale che in parte si
rinnova e in parte rilegge in chiave
cristiana e devozionale prassi già
consolidate nel mondo classico.
Dalla lettura di alcuni testi della
letteratura cristiana delle origini, ci
si può rendere conto che durante l’epoca
cristiana il cerimoniale nuziale
nell’Impero Romano riprende alcune
caratteristiche del matrimonio ebraico,
così come lo conosciamo dai testi sacri.
Purtroppo, come rileva Lamberto
Crociani, per la fase più antica della
Roma cristiana, possediamo i testi della
liturgia eucaristica per le nozze, ma
non ci è pervenuto il rituale per la
celebrazione del sacramento.
Gli elementi comuni alle due culture
sono essenzialmente due: il rito è
officiato alla presenza di un sacerdote
e non più in casa; gli sposi sono
coperti sotto un unico velo.
È
possibile però affermare, sulla base del
De Corona di Tertulliano, che
alcuni Padri della Chiesa furono ostili
all’incoronazione degli sposi, visto
come qualcosa legato all’antichità
pagana. Infatti, il rito romano
cristiano del matrimonio non prevederà
più l’incoronazione degli sposi, ma la
velatio, che appare fin dalle più
antiche testimonianze, non anteriori,
però, al IV sec. d.C. Sant’Ambrogio in
una sua epistola parla del velo steso
sugli sposi durante la benedizione,
pratica questa confermata anche nel V
sec. d.C. da Paolino da Nola, il quale
con certezza parla di una celebrazione
del matrimonio fatta in chiesa e non più
in casa, durante la quale il vescovo
pronuncia una benedizione sugli sposi
che sono ricoperti dal velo.
Sed prope nihil gravius quam copulari
alienigenae, ubi et libidinis et
discordiae incentiva et sacrilegii
flagitia conflantur. Nam, cum ipsum
coniugium velamine sacerdotali et
benedictione santificari oportet,
quomodo potest coniugium dici, ubi non
est fidei concordia? Cum oratio communis
esse debeat, quommodo inter dispares
devotione potest esse coniugali communis
caritas?
(Ambrogio,
Epistola XIX ad Virgilium episcopum
Tridentinum,
7)
Ma non c’è quasi nulla di più grave che
unirsi in matrimonio con uno straniero
[pagano], nel quale confluiscono gli
stimoli della libidine e della discordia
e l’orrore del sacrilegio. Infatti, se è
necessario che lo stesso coniuge sia
santificato dal velo imposto dal
sacerdote e dalla benedizione, come può
chiamarsi matrimonio quello in cui non
c’è l’accordo della fede? Dal momento
che l’orazione deve essere comune, come
può esserci il comune amore nuziale tra
persone di religione diversa?
Hinc Memor, officii non immemor, ordine
recto
Tradit ad Aemilii pignora cara manus.
Ille jugans capita amborum sub pace
jugali,
Velat eos dextra, quos prece santificat.
(Paolino da Nola, Carmina XXV,
vv. 224-227)
Quindi memore, non immemore del dovere,
nel giusto ordine da la mano ai cari
segni d’amore di
Emilio.
Quello [il sacerdote] congiungendo le
teste di entrambi sotto la pace del
matrimonioli vela con le mani, e con una
preghiera li consacra.
A una prima analisi potrebbe sembrare
che in realtà non ci sia nessuna
differenza con il cerimoniale romano
antico, dove l’uso del velo c’era e
aveva anche una sua valenza simbolica
molto forte. Per l’epoca cristiana,
però, le cose sono un po’ diverse.
Esattamente come afferma Lamberto
Crociani nel suo saggio intitolato:
Celebrazione e rito del matrimonio nella
prassi antico-cristiana, il velo,
usato per la benedizione degli sposi,
non può assolutamente essere messo in
relazione con il flammeum di età
classica, perché nella Roma antica era
solo la sposa a velarsi (nubere,
appunto) per lo sposo. Per quanto
concerne la prassi cristiana, invece, è
la coppia a velarsi insieme, perché
insieme, costituendo un solo corpo, essi
simboleggiano la sposa che si unisce
all’unico Sposo, cioè Cristo.
I due sposi, proprio nel rispetto del
comandamento di Dio di essere un solo
corpo staccandosi da tutto quello che
erano prima, diventano tali proprio
durante la cerimonia stessa. Secondo i
riti della chiesa cristiana delle
origini, che in parte possiamo
recuperare tramite il Sacramentarium
Veronese e il Gelasiano, dopo
la celebrazione dell’eucarestia, il
sacerdote recitava una preghiera facendo
riferimento al mistero dell’unione tra
la Chiesa e Gesù.
La benedizione della coppia come unica
entità sotto lo stesso velo è possibile
ritrovarlo anche presso la cultura
ebraica. Infatti, i due giovani, coperti
dal velo che partiva dalla testa del
ragazzo e copriva la ragazza, ricevevano
insieme la
binkhot ha-nissu’in
(benedizione del matrimonio),
proprio perché insieme essi iniziavano a
formare quel solo corpo previsto dal
primo comandamento di Dio presente nella
Genesi: “Questa volta è osso
delle mie ossa e carne della mia carne.
Pertanto si chiamerà iscià (donna)
essendo stata tratta da ish (uomo).
Perciò l’uomo abbandona padre e madre,
si unisce con la moglie e diviene con
lei come un solo essere”.
Questa è un’ulteriore dimostrazione
sull’influenza dei costumi ebraici su
quelli romani nel momento del dilagare
della religione cristiana nell’impero,
ma non dobbiamo dimenticare, però, che
il matrimonio in epoca cristiana diventa
un sacramento e quindi non è più visto
soltanto come un qualcosa di interesse
politico e sociale come nel mondo
antico, come potevano concepirlo i
romani e gli ebrei per esempio. Infatti,
mentre nel mondo antico i due giovani
che si sposavano, una volta contratto il
matrimonio cambiavano semplicemente
status in matrona e
paterfamilias, nel mondo cristiano
questo non succede più, ma diventano
uomo e donna che condividono gioie e
dolori della vita insieme.
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