O del massimo Lario antica Donna,
O di Grecia e di Roma eletta sede
Al purissimo sangue: O d’onorati
Ingegni altrice e libera di eroi
Armi potente un dì madre e d’impero,
A te ne vengo. L’ubertosa valle
E i culti monti che ti fan corona
Rispondano al mio canto.
Castone Rezzonico, Opere, T. II
Sulle sponde del lago di Como si trovano ancora oggi gli splendidi suburbani che le famiglie nobili lombarde fecero costruire tra la fine del Cinquecento e la metà dell’Ottocento.
Attraverso la lettura del libro Viaggio pel lago di Como di Poliante Lariano del conte Giovio, pubblicato con enorme successo nel 1818, tanto da avere ben cinque edizioni successive, scopriremo le bellezze architettoniche dei suburbani sul lago di Como e alcune particolarità degli illustri personaggi che vi hanno vissuto o ne sono stati ospiti.
Il mineralogista danese Brunn-Neergaard sosteneva nel suo Voyage pittoresque et historique du Nord de l'Italie del 1807, che le ville di cui le sponde del lago di Como si erano abbellite, situate nei punti più pittoreschi, sembravano costruite più per il piacere dell’occhio che per soggiornarvi, grazie alla cura e la magnificenza con cui erano state decorate.
Il primo dei suburbani che incontriamo nel nostro viaggio a ritroso nel tempo è, in corrispondenza di Como, quello della marchesa Eleonora Villani, discendente dagli Sforza Visconti di Caravaggio; l’edificio, uno dei più lussuosi a quel tempo, prese in seguito il nome di Villa Saporiti. Fu costruita tra il 1790 e il 1793 su progetto di Leopoldo Pollack e fu proprietà dei Villani fino al 1858, quando fu acquistata all’asta dal marchese Marcello Rocca Saporiti. Divenuta proprietà dei Resta Pallavicino, fu da loro venduta nel 1951 all’Amministrazione provinciale di Como. La villa era conosciuta come “La Rotonda”, per via della facciata a lago, con un imponente corpo centrale tondeggiante dalle semicolonne intervallate a finestre e sormontate da medaglioni con divinità pagane dell’acqua. Per gli interni la marchesa scelse degli arredi che s’ispiravano ai luoghi da lei visitati durante i suoi viaggi all’estero. Ricordiamo lo scalone a forbice di Luigi Cagnola, la biblioteca, le colonne corinzie e le statue del primo Ottocento. Il sala ovale centrale fu descritta dal conte Gian Battista Giovio come “magnifica a stucchi lustri, piena d’aria e di sole”. La Rotonda fu citata in numerose guide pubblicate in Italia e all’estero soprattutto per gli ospiti che vi soggiornarono: nel giugno del 1797 Napoleone con Giuseppina e l’intero Stato maggiore francese; il principe di Beauharnais, la regina di Napoli, la principessa Carolina di Galles (prima di acquistare, anch’ella, villa d’Este sul lago) e lo zar Alessandro II.
Lasciata la Rotonda arriviamo all’Olmo, villa così chiamata perché situata all’interno di un antico bosco d’olmi dove, secondo la leggenda, sarebbe sorta la villa di Plinio il Giovane e successivamente, nel 1136, un monastero di Umiliati chiamato Santa Maria di Vico. Nel 1664 i terreni furono acquistati da Marco Plinio Odescalchi, ma la villa fu edificata solo agli inizi degli anni Ottanta del XVII secolo dal marchese Innocenzo Odescalchi. I lavori iniziarono nel 1782 e terminarono solo nel 1796, sotto la supervisione dell’architetto Simone Cantoni. Già nel 1797 il sontuoso edificio ospitò il generale Bonaparte; nel 1805 la sua prima moglie Giuseppina visitò di nuovo la villa. Nel 1808 Ugo Foscolo, ospite nella villa dei Giovio, volle visitare l’Olmo. I nipoti del marchese, della famiglia Raimondi, ne ereditarono la proprietà nel 1824. Tra gli ospiti del marchese Giorgio Raimondi ricordiamo nel 1835 la Regina delle Due Sicilie, Maria Cristina, e la Regina di Sardegna, Maria Teresa Cristina; nel 1838 ci furono altri illustri ospiti: l’imperatore d’Austria Ferdinando I, accompagnato dal principe Metternich e dal maresciallo Radetzdy. Schieratosi dalla parte dei patrioti, il marchese Raimondi fu costretto a scappare nel Canton Ticino; tornato in patria nel 1859, ospitò nella villa Giuseppe Garibaldi dopo la sua vittoria a San Fermo. Il condottiero trascorse all’Olmo giorni di passione con la marchesa Giuseppina, figlia illegittima ma riconosciuta di Giorgio Raimondi.
Il matrimonio tra Garibaldi e Giuseppina fu celebrato nel 1860, ma annullato nel 1880 a causa di presunti tradimenti della donna, che era legata sentimentalmente a un fervente patriota e ammiratore di Garibaldi, Luigi Caroli, già prima di incontrare l’eroe dei due Mondi. Con molta probabilità quando sposò Garibaldi era già incinta di Caroli. Giuseppina abbandonò il marito nel 1863 per seguire il suo amante in Polonia, partito nel tentativo di esportare gli ideali patriottici e indipendentisti, ma la missione fu un fallimento; Caroli fu arrestato dai Russi e confinato in Siberia. Nel 1883 la villa fu acquistata dal duca Guido Visconti di Modrone, che la fece ristrutturare e volle un piccolo teatro di novantadue posti, rinomato nella zona per la sua acustica perfetta. Alla morte del duca nel 1925 gli eredi cedettero la proprietà al Comune di Como, che ne fece una sede di rappresentanza; dal 1982 Villa Olmo è sede del Centro Alessandro Volta. La sala maggiore del palazzo fu paragonata da Giovio a quelle dei palazzi imperiali per la ricchezza di marmi e ori; pregevoli sono l’affresco di Appiani e quelli del pittore ticinese Domenico Pozzi, tutti a tema mitologico, come era tradizione a quei tempi nei palazzi e nelle ville lombarde. Davide Bertolotti, autore di un’altra famosa guida dei dintorni del lago nell’Ottocento, riconosce nell’olmo di villa Odescalchi quello descritto da Plinio nell’antichità.
Prima di proseguire nel nostro viaggio vogliamo soffermarci su un episodio di cui il conte Giovio fa menzione nel suo libro. Si tratta dell’arresto del diplomatico francese Charles Louis Huguet, marchese di Semonville, che fu sorpreso nel 1793 dalle milizie austriache a Novate, sull’omonimo lago vicino a quello di Como, mentre si stava recando a Torino in missione segreta, su indicazione del generale rivoluzionario Charles François du Périer, detto Dumouriez, per convincere Vittorio Amedeo III di Savoia a rompere l’alleanza con l’Austria. Una volta arrestato, gli effetti personali del marchese furono spediti immediatamente a Vienna; Semonville era partito da Genova, dove era in servizio diplomatico, con quattro carrozze, due grosse casse ripiene di stoffe e merletti pregiati, ottantamila luigi in denaro, un servizio d’oro della corte di Francia, due cassette piene di gemme del valore di circa ottantamila fiorini, tra cui si trovavano le più belle pietre appartenute ai regali di Francia e una grande quantità di diamanti, non ancora incastonati, che il marchese aveva intenzione di far montare a Costantinopoli a seconda della moda dei paesi e del gusto delle persone a cui sarebbero stati destinati.
Dopo questa breve digressione arriviamo al “Grumello” o Grumella, che dal 1775 fu proprietà del conte Gian Battista Giovio. Costruita già alla fine del Quattrocento, la villa fu modificata secondo il volere di Tommaso d’Adda nel 1578. Nel volume delle Ordinazioni decurionali dal 1577 al 1581 si trova, alla data del 5 agosto 1573, la concessione per poter raccogliere l’acqua del lago dalla parte del monte Olimpino che serviva ad alimentare la fontana della villa: “Villa Grumelli magnifice edificatæ ad hilaritatem fere publicam maximam sint allaturæ hilaritatem”. Fu prima luogo di delizie del Vescovo di Modena Sisto Vicedomini, poi passò a un certo cavalier Porta e poi ai fratelli Carlo e Benedetto Odescalchi, avi di Innocenzo, proprietario dell’Olmo.
Il cardinale Benedetto, pontefice dal 1676 al 1689 con il nome di Innocenzo XI, la fece riedificare secondo il progetto iniziale del Pellegrini per la famiglia d’Adda. Divenne di proprietà della Chiesa con monsignor Neuroni, per passare poi a Carlo Galli di Piacenza e successivamente al conte Giovio, che nel suo Viaggio pel lago di Como scrive del Grumello: “ed in vero angol non v’ha di monte, non sen di lago che sfugga allo sguardo lusingato e pago”. Ospite del conte fu in varie occasioni Ugo Foscolo, come testimonia il busto dedicato al poeta che si trova ancora oggi nel parco della villa. La villa poi fu di proprietà della famiglia Celesia, fino al 1954, quando fu donata all’Ospedale S. Anna di Como dalla contessa Giulia Cays, nata Celesia; successivamente la villa fu affittata alle Seterie Ratti.
Davanti a noi appare la “lunata” di Como, mentre a sinistra troviamo Villa d’Este e Villa Pizzo.
Saliamo per l’ampia strada che la principessa Carolina di Galles fece aprire nel 1815 per arrivare fino a Villa D’Este in Cernobio. Tra i casini che abbellivano il lido dove si trova Villa D’Este c’era quello di Pietro Configliachi, discepolo di Volta. Arriviamo davanti a un arco di trionfo che si sgretola e sta per cadere in macerie, accanto troviamo un pilastro con la seguente iscrizione:
Karolina De Brunswick princeps Walliae in Anglia ad pubblicum bonum a pago Crumelio ad Atestinam villam sibi deliciarum et quietis sedem rebus omnibus comparatam repressis lacus undis effluentibus aggerum murorum arcuum molitione complanato solo clivis subactis ponte lapideo Blesiae exundanti imposito ex angusta praerupta difficili novam hanc amplam percomodam suo aere viam fecit anno 1815.
Attraversato l’arco appare alla nostra vista una torricola che svela l’aspetto in cui troviamo la villa nel 1820 e che ricalca la caducità delle cose umane; in un luogo dove un tempo tutte le arti si raccoglievano intorno a una principessa di sangue guelfo, Carolina di Brunswick, ora troviamo solo rovine e abbandono. Bertolotti così descrive lo stato di abbandono della villa:
Ora qui tutto è solitudine, ed il silenzio regna all’intorno. Eppure non è guari che la festa e il tripudio occupavano cotesto recinto e cotesti giardini; d’ogni lato ferveva l’opera, strideva lo scalpello, ed il pennello operava; scalpitavano lungo la strada i generosi cavalli, e solcavano l’onda del lago le gondolette dipinte a mille colori. Così l’umana vita trascorre; al corteggio della giovinezza succede l’abbandono de’ giorni senili…
Nel 1442 il vescovo di Como Gerardo Landriani fondò, alla foce del torrente Garovo, un convento di suore, che dopo più di un secolo il cardinale Tolomeo Gallio fece demolire tra il 1565 e il 1570 per farvi erigere una sfarzosa villa su progetto di Pellegrino Tibaldi e che fu denominata “Garovo” come l’omonimo torrente. Con il passare del tempo la villa fu luogo d’incontro per letterati, politici e dignitari ecclesiastici, ma dopo la morte del cardinale attraversò un periodo di decadenza. Nel 1749 l’edificio fu affittato ai Gesuiti che lo utilizzarono come ritiro spirituale fino al 1769; poi fu ceduta al conte Mario Odescalchi e successivamente, nel 1778, al conte Marliani, un colonnello dell’esercito austriaco e ancora alla famiglia Calderara di Milano, che la ristrutturò sostituendo al vecchio parco uno all’italiana, con uno splendido ninfeo, detto “Il Mosaico” e un tempietto con un gruppo neoclassico di Ercole e Lica. La marchesa Calderara, alla morte del marito, si risposò con il conte Domenico Pino, generale napoleonico. In memoria delle gesta del generale in Spagna fu eretta nel parco una fortezza dove, in alcune occasioni, si riunivano i cadetti della Scuola militare di Milano. Nel 1814 Carolina di Brunswick, moglie di Giorgio Augusto Federico, principe di Galles e futuro re d’Inghilterra, s’innamorò della villa durante un soggiorno sul lago.
La principessa volle dare alla villa il nome “d’Este” in memoria delle presunte origini estensi. All’interno vi erano il teatrino con recite e operette che allietavano gli ospiti della principessa; la sala Napoleonica, allestita per l’imperatore francese, ma che non visitò mai la villa; un piccolo appartamento con quattro sale, alla greca, alla romana, all’etrusca e all’egiziana, da cui si accedeva alla sala dell’Oracolo. La principessa Carolina fu ripudiata dal marito e non divenne mai regina d’Inghilterra perché accusa di aver condotto in Italia una vita di facili costumi. Nel 1820 ne divennero proprietari i principi Torlonia e poi gli Orsini, che non ne curarono a dovere la manutenzione, pur ospitando nel 1825 l’imperatore austriaco Francesco I. Divenne covo di patrioti una volta passata nelle mani del barone Ippolito Ciani; nel 1860 il barone organizzò una festa in maschera a cui parteciparono molti patrioti rientrati in Italia da varie parti del mondo. Nel 1868 la villa ritornò in auge con la zarina Maria Feodorovna, moglie di Alessandro III, che fece parlare di sé in Italia per le sue feste notturne, illuminate da fiaccole e fuochi d’artificio. Nel 1888 la zarina dovette lasciare la residenza, che tornò in un desolante stato di abbandono. Nel 1873 l’edificio fu trasformato in un albergo di lusso, su iniziativa dell’allora sindaco di Milano Giulio Bellinzaghi e di alcuni Senatori del Regno. Ancora oggi all’interno della villa si trovano interessanti pezzi d’arte, come il gurppo Eros e Psiche realizzato dall’atelier di Antonio Canova, nella sala Flora, e le statue di marmo di Carrara di Antonio Prestinati raffiguranti Adamo e Eva, nell’attuale Bar Canova. Nel parco si trova ancora oggi uno dei platani più longevi della Lombardia, di oltre cinquecento anni.
Volgiamo ora lo sguardo verso Villa Pizzo dei conti Mugiasca, edificio settecentesco sorto nel luogo in cui già nel Quattrocento si trovava una casa padronale. Soprannominata in passato “Pizzo” o “Apiciano” (dal latino apex) perché situata sulle pendici montuose tra Cenobio e Moltrasio, si può vedere per intero solo dal lago, grazie a un’architettura in armonia con la natura che la circonda. Il 9 luglio 1435 Giovanni Muggiasca, un mercante di Como, acquistò i terreni per costruire un edificio rurale. Nel 1630, a causa della peste, i Muggiasca lasciarono Como per risiedere al Pizzo, dando ospitalità a tanti comaschi, che per sdebitarsi lo aiutarono nella bonifica dei terreni e nell’ampliamento della tenuta. Sorsero in quegli anni una casa da massaro, locali per la servitù, una serie di rustici, una stalla, una cantina e una piccola fattoria. Alla fine del Settecento l’abate Giovanni Francesco Muggiasca fece edificare un piccolo oratorio. L’ultimo erede Muggiasca, Giovanni Battista, in seguito vescovo di Como, donò nel 1842 la villa all’Ospedale S. Anna di Como, che lo mise all’asta. L’edificio divenne proprietà dell’arciduca Ranieri d’Austria, viceré del Lombardo-Veneto dal 1818 al 1848, e di sua moglie Maria Elisabetta, sorella di Carlo Alberto di Savoia. Con i moti del ’48 l’arciduca fu costretto ad abbandonare la residenza per rifugiarsi a Verona. Nel parco del Pizzo si rifugiavano coloro che dalla Svizzera scendevano per la val d’Intelvi o dal monte Bisbino per distribuire le pubblicazioni patriottiche clandestine pubblicate a Capolago, nel Canton Ticino. Due cannoncini che si trovavo in esposizione all’ingresso della villa furono sottratti dai patrioti e utilizzati in occasione delle cariche contro la caserma S. Francesco a Como.
Dal 1857 al 1859 fu residenza fuori Milano del successivo viceré del Lombardo-Veneto, Massimiliano d’Asburgo, e della sua consorte Carlotta. Nel 1865 la villa divenne di proprietà di Madame Musard, la favorita del re Guglielmo d’Olanda. La Musard diede ordine di ricoprire gli affreschi quattrocenteschi della villa con pitture in stile pompeiano, come voleva la moda dell’epoca. Dal 1871 la villa è passata nelle mani della famiglia milanese Volpi Bassani. Il conte Giovio la ricorda nel suo libro per gli splendidi giardini soleggiati pieni di agrumi. I viali e i sentieri s’intrecciano in un bellissimo arabesco che si dispiega tra ponticelli, pozze d’acqua e piccoli ruscelli; nel mezzo del parco è ancora oggi conservata una fontana in onore di Alessandro Volta, voluta da Giovanni Battista, con attorno le false rovine d’un tempietto classico. Dal parco si accede al “Ceppio”, un po’ più avanti rispetto alla dépendance di Villa d’Este, a un piccolo viale soprannominato “in Genova” per il clima mite di quella parte del lago, con una moltitudine di piante esotiche, agavi, orchidee. La vecchia darsena sul versante occidentale dà sul bacino di Villa d’Este, quella nuova, costruita per volere dei Volpi Bassani, si staglia sul bacino di Moltrasio fino alla punta di Torno.
A Moltrasio troviamo Villa Passalacqua, che merita una particolare attenzione. Si erge a cavallo dei due assi che dividono il promontorio di Torno e da Borgovico arriva quasi fino a Nesso. Costruita sulle pendici del monte, presenta degli splendidi giardini terrazzati collegati tra loro mediante scaloni in pietra arricchiti da statue e grandi vasi. La biblioteca conteneva all’inizio dell’Ottocento più di tremila volumi, tra cui pregiati codici in pergamena e una ricca raccolta di Storie d’Italia. Le sale sono disposte su tre piani, tra loro collegate da uno scalone monumentale decorato da un bronzo di Auguste Rodin. Ai primi dell’Ottocento nella villa era esposto l’unico originale di una testa di cavallo in marmo dello sculture milanese Monti, di cui furono fatti moltissimi gessi dall’autore. La volta ribassata del salone da pranzo è sorretta da sedici colonne marmoree in stile neoclassico; il salone è decorato da pitture monocrome di Giocondo Albertolli, che affrescò anche la sala della musica, dove Vincenzo Bellini si esibiva per amici e conoscenti.
Sul soffitto del salone sono ancora visibili alcuni affreschi di Andrea Appiani, che per questa villa realizzò anche nel 1790 una Madonna con bambino che Bertolotti ritiene essere “degna degli antichi maestri”. Il nucleo originale della villa fu costruito alla fine del XVIII secolo sulle rovine di un antico monastero degli Umiliati per volere della famiglia Odescalchi. Nel 1787 lo acquistò il conte Andrea Passalacqua, che utilizzando anche i contributi del Soave e dell’Albertolli, trasformò l’edificio in una sfarzosa villa. Quando il conte morì la villa fu ereditata da Giambattista Lucini Passalacqua, che in età matura volle ritirarsi in solitudine a Moltrasio costituendo un ricchissimo fondo bibliotecario e intrattenendosi con artisti, letterati e musicisti, tra cui il poeta milanese dialettale Carlo Porta e il compositore Vincenzo Bellini. Tra il 1829 e il 1833 Bellini frequentò Villa Passalacqua e s’ispirò a essa per la composizione di opere quali Norma, La straniera e La sonnambula; l’ultima opera citata è legata alla figura della famosa cantante lirica Giuditta Pasta, che possedeva anch’ella una villa sul lago a Blevio in stile neoclassico, edificata dall’architetto Filippo Ferranti. Ultimi eredi dei Passalacqua furono i marchesi Negretto Cambiaso, in qualità di nipoti, che vendettero la proprietà nel 1885. Per alcuni decenni fu proprietà della baronessa Ruby von Sederhoelm. Dopo anni di declino la residenza dei Passalacqua è stata ristrutturata solo negli anni Settanta del XX secolo da Oscar Kiss Maerth ed è attualmente un centro residenziale.
Bertolotti fa notare che il monte di Moltrasio è ricco d’ardesia con impronte di fossili marini. A quel tempo l’estrazione delle ardesie regolari costituita circa un terzo delle entrate del comune di Moltrasio. Lo scrittore ricorda inoltre la caverna sopra alla villa che conteneva alabastro venato, ampiamente utilizzato per i lavori a Villa Passalacqua.
A Tremezzo si trova Villa Carlotta, edificata per volere del marchese Giorgio II Clerici intorno al 1690. I Clerici erano una ricca e potente famiglia lombarda con proprietà e terre a Milano e dintorni. L’ultima dei Clerici a ereditare la tenuta fu Claudia, figlia di Antonio Giorgio, il quale morì dopo aver dilapidato il patrimonio di famiglia. La marchesa, maritata al conte Vitaliano Bigli, vendette nel 1801 la villa a Gian Battista Sommariva, che allora ricopriva la carica di presidente del Comitato di Governo della Repubblica Cisalpina ed era uno dei più importanti collezionisti d’arte, in contatto con Canova, David, Girodet, Prud’hon e Thorvaldsen. Nella villa di Tremezzo Sommariva collocò parte delle sue preziose collezioni, rendendola una delle ville più famose d’Europa. Furono molte le celebrità che visitarono la villa, tra cui ricordiamo Stendhal, Lady Morgan e Flaubert. In bellezza e ricchezza d’opere d’arte la villa faceva concorrenza a quella dell’eterno nemico di Sommariva, Francesco Melzi d’Eril, che a sua volta aveva fatto costruire una residenza proprio di fronte a quella del conte Sommariva, sulla penisola di Bellagio. I due erano acerrimi nemici da quando Napoleone aveva preferito Melzi d’Eril a Sommariva, nel 1802, per l’incarico di vicepresidente della Repubblica Italiana; così Sommariva, nel tentativo di riacquisire prestigio e notorietà, iniziò a collezionare opere d’arte divenendo in breve tempo uno dei più grandi collezionisti dell’epoca.
Nel 1843 la villa fu venduta alla principessa Marianna di Nassau, moglie del principe Alberto di Prussia; nel 1847 la villa fu donata a loro figlia Carlotta, in occasione delle sue nozze con il granduca Giorgio di Sassonia-Meiningen e d’allora l’edificio porta il suo nome. La coppia Sassonia-Meiningen vendette ciò che rimaneva delle raccolte d’arte del conte Sommariva lasciando nella villa solo alcune sculture e i grandi dipinti. I figli Bernardo e Giorgio II, appassionati di botanica, impreziosirono il giardino con rododendri, azalee, camelie, felci e palme. Durante la prima guerra mondiale ai beni di Villa Carlotta non fu applicata eccezionalmente la normativa che prevedeva il sequestro e, in seguito, con il regio decreto del 12 maggio 1927 fu costituito l’Ente morale Villa Carlotta con il vincolo di devolvere tutti gli introiti ricavati dalla vendita dei biglietti ai visitatori della villa al miglioramento del complesso. Tra le opere d’arte della collezione Sommariva che si trovano ancora nella villa ricordiamo: l’altorilievo con L’ingresso di Alessandro Magno in Babilonia di Thorvaldsen, i quattro modelli originali per le figure allegoriche dell’Arco della Pace di Milano e la Terpsychore di Canova, la cui scultura in marmo è esposta nella dimora parigina del conte. Inizialmente doveva trattarsi del ritratto di Alexandrina Bleschamps, moglie di Lucien Bonaparte, fratello di Napoleone, ma quando Sommariva ne rilevò la commissione assunse l’attuale fisionomia idealizzata per volere del conte. In questo gesso è possibile riscontrare le repère (chiodini metallici usati come veri e propri punti di riferimento) ancora intatte, caratteristica di un processo creativo tipico del Canova. Un altro capolavoro dello scultore veneto esposto nella villa è il Palamede, che l’artista fu costretto a restaurare dopo che la statua cadde nel suo studio romano a causa del cedimento del bilico su cui poggiava. L’incidente ispirò il poeta Melchior Missirini:
Mouver veggio, e spirar l’aura primiera
Chi di Cadmo emulò le illustri imprese,
E ordir falangi in bellicosa schiera
Sagacemente dagli Augelli apprese.
Ecco la fronte nobilmente altera,
Che dal treicio Iddio le forme prese,
Ecco le forze della man guerriera,
Indomita agli assalti, alle difese.
Ma ahimè che fia? Già cade il Campion forte:
Forse Ulisse rinnova un altro inganno?
Tanto ancor Gelosia l’ange e divora?
Ah no, Tu sei, crudele invida Morte,
Che al suol lo traggi dell’eburneo scanno,
Che redivivo lo credesti ancora!
Conservata in villa è una replica della scultura Amore e psiche, commissionata al Canova dal principe russo Yussupoff e attualmente conservata all’Ermitage; la copia di Villa Carlotta deriva invece dal modello originale che Canova aveva donato al suo allievo prediletto, Adamo Tadolini, e che quest’ultimo eseguì tra il 1818 e il 1820 utilizzando un unico blocco di marmo di Carrara. La scultura di Tadolini fu portata a Tramezzo nel 1834, dove a lungo fu scambiata per l’originale di Canova. La villa custodisce infine L’ultimo addio di Romeo e Giulietta, realizzato da Francesco Hayez nel 1823. Riguardo a Thorvaldsen Davide Bertolotti narra che lo sculture danese fu chiamato da Sommariva quando ancora era intento a lavorare su alcuni bassorilievi al Quirinale, che Napoleone gli aveva commissionato e che rimasero incompiuti dopo la definitiva sconfitta dell’imperatore francese. Una volta Bertolotti fu ospite di Sommariva a pranzo e il giorno seguente lo scrittore volle ammirare la preziosa raccolta di miniature, smalti e gemme intagliate appartenute al Sommariva: “Il giorno seguente io passai molte ore in veder le gemme figurate ed altri preziosi lavorii, raccolti negli scrigni che il cavaliere Sommariva trasporta mai sempre con sé”. Una particolarità di Sommaria era di portare nei suoi viaggi cammei che riproducevano in miniatura opere scultoree di sua proprietà. Grosso clamore ebbe a Milano la Maddalena del Canova, che Sommaria custodiva gelosamente nella sua cappella boudoir tra tende di seta nera e luci soffuse, come riportato nel saggio di Gabriella Tassinari Incisori in pietre dure e collezionisti a Milano nel primo Ottocento.
Accanto a Villa Sommariva si trovava, su una spiaggia sabbiosa, la Majolica o London-Hôtel, con un doppio nome per le seguenti ragioni: la prima è che fu in precedenza sede di una scuola di esperti vasai; la seconda è che nell’Ottocento i visitatori più assidui del lago di Como erano gl’Inglesi e perciò l’albergo fu intitolato in loro onore.
Al nome della famiglia Giovio è legata anche Villa Balbiano, che Ottavio Giovio vendette nel 1596 al cardinale Tolomeo Galli conte delle Tre Pievi, poi duca d’Alvito. La costruzione originale era della fine del Quattrocento e il cardinale la fece modificare utilizzando i disegni di Pellegrino Tibaldi, detto il Pellegrino, commissionati dalla famiglia Giovio prima che il cardinale ottenesse nel 1586 la contea delle “Tre Pievi”: Gravedona, Sorico e Dongo. Nel 1778 la proprietà tornò al conte Gianbattista Giovio, che la cedette nel 1787 al cardinale Angelo Maria Durini, nunzio pontificio, cultore delle arti e delle lettere, mecenate e collezionista. Il nuovo proprietario ne ampliò i giardini, fece predisporre un viale carrozzabile ed eresse fontane e statue. Divenne la villa di delizie del cardinale e sede del suo noto cenacolo letterario; il cardinale vi trasferì la sua ricca biblioteca e le sue collezioni d’arte. Nel 1872 la villa passò a una famiglia d’industriali tedeschi, i Gessner, che trasformarono la sala da ballo in filanda, andata distrutta nel 1930. Dal secondo dopo guerra in poi la villa appartenne al barone Hermann Hartlaub di Monaco, che commissionò i lavori di restauro allo svizzero Vuillomenet. Attualmente la villa è di proprietà della famiglia Canepa. Giovio così la descrive: “Vi s’inoltri il viaggiatore e verragli incontro l’amenità, in fine poi d’esso l’orror sagro della valle e lo spruzzo quasi della Perlana saluterallo”.
Il cardinale Durini acquistò nel 1787 un’altra residenza sull’adiacente dosso di Lavedo, da lui chiamata Villa del Balbianello, con un chiaro riferimento all’altra sua villa sul lago. Il cardinale trasformò il preesistente monastero francescano in una residenza privata; alla sua morte nel 1796 la villa fu acquistata da Giuseppe Sepolina, che volle intitolare la residenza alla sua famiglia con il nome di “Villa Sepolina”. Nell’Ottocento la villa fu residenza del conte Luigi Porro-Lambertenghi, un patriota milanese, che vi ospitò Silvio Pellico nel 1819 come precettore dei suoi figli. Successivamente la residenza passò al marchese Giuseppe Arconati Visconti; sua moglie Costanza Anna Luisa Trotti, letterata, accolse nella sua dimora Giovanni Berchet, Alessandro Manzoni e Giuseppe Giusti. Furono ospiti della villa anche il primo ministro francese Gambetta e il pittore Arnold Böcklin. All’inizio del XX secolo proprietario della villa fu il barone Hartlaub; seguì un lungo periodo di abbandono fino a che la tenuta non fu acquistata dall’ufficiale statunitense Butler Ames e nel 1976 dall’esploratore Guido Monzino, che l’arredò con pezzi d’arte e d’artigianato raccolti durante le sue tante spedizioni in giro per il mondo. Alla sua morte nel 1988 la villa fu donata al Fondo per l’Ambiente Italiano. Nella villa furono girati scene dei film Star Wars – L’attacco dei cloni e Agente 007 - Casinò Royale.
Attraverso la lettura del libro del conte Giovio arriviamo a Villa Serbelloni, citata anche da Stendhal. L’edificio, situato sulla collina di Bellagio, è una delle ville più suggestive del lago. Il conte Giovio sostiene la teoria che, proprio in quel luogo, nell’antichità sorgesse una delle due dimore di Plinio il Giovane: la Tragedia. Giovio cita nel suo libro la lettera di Plinio a Voconio Romano (VII del IX libro), in cui si parla della villa che “coll’alta schiera del monte divideva due laghi”. Il conte fa inoltre riferimento all’iscrizione “M. PLIN…./OVF. SA…./IIII. VIR I./T. V.” che già Benedetto Giovio, umanista e antiquario del Cinquecento, aveva indicato nella sua collettanea trovarsi in quel luogo; l’altra residenza di Plinio sul lago, la Commedia, sarebbe sorta a Lenno secondo altre fonti. Nel Medioevo lì fu edificato un castello, che fu però presto abbandonato e divenne covo di briganti per la favorevole posizione a cavallo tra i due rami del lago. Nel 1375 Gian Galeazzo Visconti, padre di Filippo, fece diroccare il castello di cui rimase in piedi solo un torrione quadrato, successivamente ristrutturato da Ercole Sfondrati. Nel Quattrocento, sulle rovine del castello, fu costruita la residenza estiva di un noto umanista milanese, Daniele Birago, vescoco di Mitilene, commendatario dell’abbazia di Piona.
Nel 1489 la residenza e gli annessi terreni divennero proprietà del marchese Stanga, tesoriere e ambasciatore di Ludovico il Moro; il marchese volle costruirvi un palazzo sfarzoso, distrutto alcuni anni dopo da un incendio, forse di natura dolosa. Giovio attribuisce l’incendio ai Cavargnoni. Le rovine di palazzo Stanga furono riedificate prima da Francesco e poi da Ercole Sfondrati, che elesse la residenza sul lago a sua dimora negli ultimi anni della sua vita, caratterizzati da grande fede religiosa; così nel 1614 sorsero anche la chiesa e il convento dei Cappuccini, mentre la collina si trasformò col tempo in un meraviglioso giardino di aranci, limoni, bossi, allori, rose, gelsomini, peri e melograni. Nel 1788 acquisì la proprietà della tenuta Alessandro Serbelloni, che ne arricchì gli interni con preziose opere d’arte del Seicento e del Settecento e gli esterni con piante ancora più pregiate come oleandri, rododendri e cedri. La villa fu ammirata da regali quali l’imperatore d’Austria Francesco I e Maria Luigia di Parma; furono ospiti dei Serbelloni Tommaso Grossi, Alessandro Manzoni e Giuseppe Parini; Gustave Flaubert la cita inoltre nel suo diario di viaggio del 1845. Nel 1903 fu venduta e trasformata in albergo; nel 1930 fu acquistata dall’americana Ella Walkner, sposa del principe Thurn und Taxi. Alla morte della principessa la villa fu donata alla Fondazione Rockfeller di New York.
Alcune parole vanno spese poi per Villa Giulia, che congiunge i due bracci del Lario tra Lecco e Bellagio. Il suburbano è caratterizzato dalla splendida doppia facciata e dallo scenografico ingresso che parte dalla scalinata del borgo di Loppia. Dedicata dal conte Pietro Venini alla moglie, fu inizialmente la casa di villeggiatura della famiglia Camozzi (o Camuzj). I lavori di edificazione, terminati nel 1806, furono lunghi e dispendiosi; il conte Giovio ne apprezza particolarmente la sala dipinta dagli ultimi Bibiena: “Se fosse dato di verderla a quel gentile spirito del Conte Francesco Algarotti, non diria egli già, che in quelle prospettive ed architetture vi si passi il limite del vero e del verosimile”. Dopo il conte Venini il successivo proprietario fu Leopoldo I, re del Belgio, che amava la quiete del lago. Alla morte del sovrano, nel 1865, la villa divenne per un breve periodo un albergo di lusso; uno dei visitatori, il barone Gay, banchiere polacco, l’acquistò per permettere alla moglie malata di tisi di soggiornare in un luogo dal clima mite. Alla morte della baronessa la villa fu venduta al nobile romeno Enrico Kirakirschen. Davide Bertolotti nel suo libro apprevva particolarmente gli splendidi giardini pensili.
Insieme al conte Giovio arriviamo a Villa Melzi d’Eril, impreziosita da pitture e affreschi di Appiani. Davide Bertolotti narra nel suo libro che davanti alla villa è necessario chiarirsi le idee sul suo proprietario, prima di entrarvi: “che taluno mi avea dipinto con il più illustre de’ moderni Italiani, e tal altro come ligio all’ambizione, servo del potere e sovente zimbello di astuti raggiratori”. Si tratta di Francesco Melzi d’Eril, nominato duca di Lodi da Napoleone, per il quale ricoprì la carica di vicepresidente della Repubblica Italiana dal 1802; dal 1805, con la proclamazione del Regno d’Italia, divenne cancelliere dell’Impero. I lavori d’edificazione della villa costarono un milione di lire, una cifra esorbitante per l’epoca. Lo scultore a cui il duca commissionò molte opere fu Giovanni Battista Comolli, autore anche del monumento funebre del Melzi, mentre i dipinti della villa furono per la maggior parte realizzati da Giuseppe Bossi, che trascorse in questa villa il suo ultimo anno di vita dipingendo. A testimonianza della presenza del pittore nella villa una lettera datata 10 gennaio 1815 scritta dall’Albertolli e indirizzata a Bossi sullo stato dei lavori di decorazione.
Nel giardino, pieno a quel tempo di rare piante esotiche, si trova una statua con Beatrice che conduce Dante in paradiso e un busto di Vittorio Alfieri, entrambi realizzati da Comolli. È proprio il giardino all’inglese sulle rive del lago a introdurre la villa; arricchito da monumenti e cimeli, tra cui un’originale gondola veneziana, voluta da Napoleone, e due statue egizie; rare piante esotiche, alberi secolari, camelie, azalee e rododendri giganti, il giardino di Villa Melzi è un unicum nel suo genere, progettato dall’agronomo Luigi Villoresi e da Luigi Canonica. Il viale alberato che conduce alla villa è costeggiato da platani tagliati a ombrello per dare refrigerio dal caldo, un tipo di potatura in uso a quei tempi sul lago di Como. L’edificio fu costruito tra il 1815 e il 1820 su progetto di Giovanni Albertolli, in stile direttorio; appoggiata alla parete esterna a nord si trova la porta dell’antica casa Melzi di Milano, attribuita al Bramante, insieme a una lapide di famiglia. Davanti al portale si può notare un fregio in pietra del 1200 con i simboli dei quattro evangelisti. Gli ospiti illustri furono molti; qui citiamo l’amico e viceré Eugenio de Beauharnais con la moglie Agusta, l’imperatore e l’imperatrice d’Austria Ferdinando I e Marianna nel 1838, scortati dal principe Metternich, nonché la zarina di Russia Maria Feodorovna, che visse come abbiamo visto a lungo a Villa d’Este. Era solito passeggiare a lungo nel parco della villa anche Franz Litz, ospite nella villa presso un tempietto in stile arabo. Si crede che proprio lì molte delle sue composizioni abbiamo visto la luce, come la Sonata a Dante.
Il giardino incantò perfino Stendhal, che in Rome, Florence et Neaples ne descrive la sua bellezza e i suoi monumenti. Vent’anni dopo lo scrittore francese citerà tali luoghi nella Certosa di Parma. Fino all’arrivo dell’ultima erede che abitò nella residenza, Joséphine Melzi d’Eril Barbò, che modificò le sale della villa secondo la moda dannunziana, lo stile della villa fu quello voluto dal duca Francesco. I Gallarati Scotti successero ai Melzi; Ludovico Melzi sposò Joséphine Barbò, da cui ebbe due figlie; una di loro si unì in matrimonio con Giancarlo Gallarati Scotti, principe di Molfetta, ricongiungendo così le proprietà dei Melzi al patrimonio della famiglia del marito.
Legata al nome dei Melzi è anche la settecentesca villa dei Barbò marchesi di Soresina, i quali, quando la proprietà passò a Pompeo Musa ai primi del Novecento, portarono via il cancello d’entrata con in alto lo stemma del casato. Il nuovo proprietario fece fare una fedele copia del cancello con una vistosa “M” posto dello stemma dei Barbò.
Passiamo rapidamente poi a Villa Ciceri, che il conte Ignazio Caimo utilizzò per molti anni come residenza di villeggiatura, suo figlio Carlo Ciceri fu vescovo sotto Innocenzo XI e poi cardinale. Seguita da Villa Taverna, elegantissima, situata al livello del lago, tanto che le onde delle acque agitate vi s’infrangevano sopra.
Villa Trotti, in prossimità di Villa Ciceri, aveva la particolarità di far specchiare i suoi giardini nel lago; a proposito di questi giardini dice il conte Giovio:
Nè duolmi punto, che tal giardino sia della foggia antica, perciocchè quando lo spazio non sia vastissimo, l’anglomania d’imitar coll’arte la natura ci riduce sempre a sforzi meschini, e un gobbo quindi nel giardino s’appella collina, e foresta un piccolo intralcia mento di rami, fra quale si lascia germinare l’ortica e il cardo.
Davide Bertolotti invece si sofferma nel suo libro sul nome della villa, indissolubilmente legato a quello di Paola Trotti, decantata dal Minozzi in Delizie del Lario:
TROTTA, ben voi di Trotta il nome aveste
Che in voi di Trotta ogni gran pregio è nato;
Quella il bel sen di candidezza veste
E ‘l petto Voi d’uno splendor beato;
Quella è pesce sovrano, e Voi celeste;
Gran nuoto ha quella, a Voi gran senno è dato;
Quella d’acque dolcissime si pasce,
In Voi d’Amore ogni dolcezza nasce.
Quella di belle macchie ornato ha ‘l dorso,
Ornata voi di mille fregi siete;
Quella ferisce con pungente morso,
Voi con dardi d’amor l’alme pungete,
Quella mentre il cielo arde, ha freddo il corso,
E Voi nel foco altrui fredda vivete;
In ambe un sol divario avvien ch’io veda;
Predatrice Voi siete, e quella preda.
Scopriamo ora la Pliniana a Torno: “il rumor della spumante acqua ne invita, e il nobile edifizio, e più il miracol del fonte venerabile per la memoria, che ne fecero i nostri due Plinj”. La villa, citata da Shelley e Stendhal, porta questo nome perché sembra che qui sorgesse nell’antichità la dimora di Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane e perché in questo luogo si sarebbe trovata la fonte da loro descritta. Il 27 giugno 1813 A. L. Castellan sostenne l’incontrovertibilità di questa tesi con un articolo sul Monitore francese. L’edificio originario fu costruito nel 1573 dal conte Giovanni Anguisciola o Anguisola, governatore di Como per Filippo II di Spagna nel 1570, come descritto nel Compendio delle Croniche di Como del Ballarini, scritto nel 1619. In quegli anni correva voce che fosse uno dei quattro piacentini che gettarono dalla finestra il duca Pier Luigi Farnese, figlio del pontefice Paolo III, nel 1547. Così egli si ritirò a vita privata nella sua villa sul lago. Quando il conte fu ucciso da un sicario nel 1579, il palazzo passò al nipote Giulio, marchese Pallavicini, che lo vendette al conte Fabio Pirro Visconti Borromeo nel 1590. Il conte cercò di rinnovare il suburbano, ma i suoi eredi non seguirono il virtuoso esempio e la tenuta entrò in disuso. L’acquistò il marchese Francesco Canarisi nel 1676, che portò la villa al suo massimo splendore. Tra il XVIII e il XIX secolo fu tappa di politici e artisti: Giuseppe II, Napoleone, Stendhal, Alessandro Volta, Bellini, Rossigni, Byron, Foscolo e Fogazzaro, che ivi trasse l’ispirazione per il suo romanzo Malombra, da cui poi fu tratto il film di Mario Soldati del 1942 girato nella villa stessa. Ai primi dell’Ottocento acquistò la villa il principe Emiliano Barbiano di Belgioioso, che la riportò agli antichi splendori. Il principe convolò a nozze nel 1824 con la principessa Cristina Trivulzio, animatrice di salotti politici e letterari. Dopo il fallimento del loro matrimonio, Cristina, politicamente impegnata nei circoli mazziniani, si trasferì a Parigi per la causa politica. Il principe Belgioioso tra il 1843 e il 1851 ebbe una relazione clandestina con Anna Berthier, principessa di Wagram e moglie del duca di Plaisance.
Nel 1843 i due amanti fuggirono a Parigi con grande scandalo nelle corti e nei salotti europei. La villa, dove i due consumarono la loro passione, può essere considerata il simbolo della cultura romantica dell’epoca. La Pliniana richiamava a sé l’elite di nobili lobardi del tempo: Melzi, Sommariva, Arconti e alcuni ferventi patrioti come Carlo Bellerio. Massimo d’Azeglio faceva tappa alla Pliniana sulla via per la sua residenza di Loveno; a lui il principe Belgioioso aveva espresso forti preoccupazioni per il radicalismo dei carbonari e dei mazziniani. Dopo i moti del ’48 la Pliniana tornò a essere luogo di eventi mondani, ma terminata anche la relazione con Anna Berthier il principe si ritirò a vita privata trascorrendo le giornata a curare il suo giardino. Dopo la morte del principe la villa divenne proprietà del marchese Lodovico Trotti-Bentivoglio, genero della defunta Cristina Trivulzio, e nel 1890 ai Valperga di Masino, che prima di rivenderla trasferirono gli arredi nelle stanze del castello di Masino, in Piemonte, ora proprietà dal F.A.I. Il conte Giovio ne esalta la bellezza dei viali ricchi di faggi, pioppi e castagni e si rammarica che nel giardino non si possa più ammirare la statua di Milone Crotoniate descritta dal Boldoni. Nel mezzo del giardino sta ancora la famosa fonte descritta da Plinio il Giovane a Licinio, che è riportata in latino e in italiano sotto il portico dorico. Lo scienziato spagnolo Gimbernat soggiornò nel 1817 alla Pliniana per quaranta giorni al solo scopo di osservare il particolare flusso e riflusso della fonte, che Plinio attribuiva a venti sotterranei; i suoi studi furono poi pubblicato negli atti dell’Accademia di Monaco. Dietro alla fonte si trova la loggia, le cui porte d’accesso sono sormontate da quattro timpani spezzati, che in origine contenevano i busti di Carlo V, di Filippo II, dell’Anguissola e di sua terza moglie, Delia Spinola. Non v’è più traccia neanche dell’antico marmo di scuola canoviana raffigurante Giotto pastorello nell’atto di ritrarre una pecora, che originariamente era esposto nel salone, dove erano conservati anche il piccolo stipo che Napoleone nel 1797 aveva donato ai padroni di casa come ringraziamento per la loro accoglienza e il pianoforte su cui Rossini compose in soli tre giorni l’opera Tancredi.
A Torno si trovano appunto i giardini del canonico Canarisi colmi di limoni, sopra cui si trovavano quelli dei Tridi e del Ruspino, che aveva potuto acquistare quei terreni e altri ancora grazie alla fortuna fatta in Russia.
Arriviamo poi alla Perlasca, o Villa Tanzi, in cui Leopoldo II si fermò a pranzo nel 1791 e dove all’inizio dell’Ottocento tutti i viaggiatori desideravano mettere piede. La peculiarità di questa tenuta era un’enorme pianta di gelsomino e una rigogliosa magnolia. Ancora una volta il conte Giovio spende qualche parola per gli splendidi giardini: “L’allegria e il gusto dei giardini v’attirano i curiosi. Avvi senza stento una idea delle vaghezze Inglesi e Cinesi. Spuntan dagli scogli gli aloè, i varj arbusti americani. I mirti e gli oleandri non vi temono il freddo”. Il conte Giovio rimane colpito poi dal casino detto La Roda, all’interno della tenuta dei Tanzi, che all’inizio dell’Ottocento apparteneva a madame Ribier con un bel frutteto, un viale di tigli e di platani e un comodo porto. L’ammirazione di Bertolotti va invece alla grotta di sculture “ove una perlata luce entra a traverso di sottili lastre d’alabastro: e di là uscendo, per ameni sentieri, ombreggiati di allori e di altre piante ognor verdi, ci conducemmo per l’erto sino al simulacro di fortezza ch’è in alto”. La vista che si può godere dalla loggia del fortino è mozzafiato. Scendendo sulla via del ritorno troviamo colonne, iscrizioni e piramidi inframmezzati da gigantesche aloe. Sul luogo dove ora sorge la Perlasca si trovava un antico castello, distrutto da un incendio, e simbolo delle lotte intestine tra i signorotti della zona. Nel 1545 gli Odescalchi possedevano su quel terreno una residenza, acquistata dai Canarisi. Nel 1787 Antonio Tanzi fece costruire l’attuale villa, dove l’abate-poeta Giuseppe Parini soggiornò spesso. La villa fu poi venduta ai conti Taverna, che la ristrutturarono nell’attuale forma a ferro di cavallo. Tra gli ospiti dei Taverna ricordiamo: il granduca di Toscana Leopoldo II, il principe von Bülow, Cristina di Belgioioso, il figlio del cancelliere Bismarck e Laura Acton, moglie del presidente del Consiglio Marco Minghetti.
A Blevio si trova Villa Sannazzaro, così chiamata dal nome della contessa che vi soggiornava ai tempi di Giovio. La villa fu fatta costruire dove una volta sorgeva il casino Versaglia di Pasqual Ricci, maestro di cappella a Como. Il conte Giovio apprezza anche in questa villa il delizioso giardino all’inglese con un folto boschetto che ripara dal sole anche nelle ore più calde, con cedri e un viale sulla spiaggia. La villa fu dei nobili Avogadro, che nel 1770 la cedettero ai Ricci, che a loro volta la rivendettero a Carlo Vertemate, che la vendette ancora a donna Maddalena Imbronati, vedova del conte Sannazaro, nel 1804. Manzoni e Porta furono ospiti della villa, che la colta e intelligente proprietaria teneva con raffinato gusto.
A Blevio abitava ai tempi di Giovio il sig. Altaria, un famoso editore specializzato in musica e stampe in rame che visse a lungo a Vienna.
Da Blevio ci spostiamo a Geno, dove il conte Giovio fa soffermare il lettore su un edificio di recente costruzione, Villa Menafoglio Ghilini, acquistato dalla marchesa Cristina Menafoglio Ghilini, che l’acquistò i terreni nel 1790 dall’Ospedale di Como, che aveva utilizzato quel luogo nel 1630, durante la peste, come lazzaretto. Sulla proprietà si trovava anche un chiostro di Umiliate, che la marchesa fece buttare giù durante i lavori scoprendo una lapide con triplice iscrizione, che fece credere che nel luogo fosse sorta nell’antichità una villa romana. In seguito la lapide fu attribuita al periodo del consolato di Flavio Cecina Basilio nel 436.
A Geno invece Bertolotti è colpito da Villa Cornagia, “ove una ridente cedraja di lunata forma e colorata in rosso si attrae piacevolmente lo sguardo”. La villa si trovava accanto al cimitero, tristemente noto durante la peste. Ecco la descrizione di Boldoni del lazzaretto:
Patrum nostrorum memoria, cum peste laboraretur, ne contagiose urbs tota vitiaretur, Comenses huc œgrotos a frequentiori cœtu ablegatos ad curandum mittebant, pendentque adhuc ruinœ ingentes earum œdium, in quibus et affecti ac tacente et ipsi etiam suspecti servabantur.
Il nostro viaggio per le sponde del lago di Como sta per giungere a termine; vogliamo ora citare due residenze che hanno legami con la Russia: il casin del Sasso, che fu abitato dai fratelli Arnaboldi, di cui ricordiamo Cristoforo, noto sopranista che cantò a Venezia dal 1775 al 1779, a Vienna per poi trasferisci a San Pietroburgo fino al 1786; durante il suo soggiorno russo si arricchì con la compravendita di pezzi d’arte e sfruttando la sua conoscenza di gemme e cammei, che acquistava in Italia per poi rivenderli nella capitale zarista.
Successiva alla pubblicazione del Viaggio di Giovio è Villa Troubetzkoy a Blevio, costruita verso il 1850 dall’omonimo principe russo, sposato con una delle figlie della nota ballerina Marta Taglioni; il principe era emigrato in Italia dopo sei anni di lavori forzati in Siberia, a cui era stato condannato da Nicola I per tentata insurrezione. Per eliminare rapidamente le rocce che si trovavano sulla riva che il principe aveva scelto per edificare la villa-chalet, fece esplodere diverse mine, da qui il soprannome di principe “Turbascogli”. Gli attuali proprietari della villa sono i signori Pozzi di Milano.
La descrizione del conte Giovio degli splendori architettonici del lago di Como si conclude con il suburbano della Gallietta del cavalier Flaminio della Torre di Rezzonico, così chiamato in onore del primo proprietario che lo fece erigere nel 1615, l’ecclesiastico Marco Gallio. La leggenda vuole che anche qui sorgesse la residenza di Plinio il Giovane nell’antichità e di Paolo Giovio nel Cinquecento. Dai Gallio passo ai Rezzonico, originari di Como, la famiglia da cui proveniva Clemente XIII, papa dal 1758 al 1769. L’ameno suburbano fu acquistato dalla famiglia Giovio all’inizio dell’Ottocento. La villa passò poi ai Fossano nel 1772 e in seguito al nobile milanese Gaetano Bellotti, che aveva sposato Teresa Crivelli Visconti. Mossi da sentimenti anti-austriaci i due organizzavano nella villa incontri segreti tra patrioti. La proprietà passò ancora in mano ai baroni Leonino e nel 1901 ai signori Crespi di Milano. Nel 1957 l’Amministrazione Provinciale di Como l’ha acquistata. Originariamente fu un chiostro di eremiti con un affresco che rappresentava l’apparizione del Redentore a S. Agostino vestito da pellegrino. il conte Giovio scoprì che l’affresco era una copia della nona tavola del libro pubblicato nel 1624 su Sant’Agostino con le incisioni di Scheldt Bolswert. Le sale della villa furono affrescate dal Morazzone.
Chiediamo al lettore di perdonarci se, per seguire le pagine del conte Giovi, siamo stati costretti a tralasciare ville quali Villa Val Scura, edificio di fine Settecento, residenza del feld-maresciallo austriaco, conte Radetzky. Il 27 ottobre 1845 lo zar Nicola I fece visita all’ufficiale austriaco, come testimoniato dalla targa bronzea sul viale del parco della villa. Successivamente fu di proprietà della famiglia milanese Borletti, mentre attualmente è un condominio.
L’altra villa dimenticata da Giovio è Villa Da Riva, edificata dove, pare, sorgesse la casa di Pantero Pantera, capitano delle galee pontificie di Clemente VIII, che la volle costruire nel 1617. Fu poi dei Cattaneo e nell’Ottocento divenne proprietà degli editori musicali Tito e Giulio Ricordi. Si succedettero ancora i De Bayet e i Da Riva, noti cotonieri. La signora Bianca Ramponi Da Riva donò la villa all’Istituto Angelicum di Milano, ma nel 1890 fu di nuovo acquistata da un’immobiliare. Oggi l’edificio è gestito da un ente religioso ed è centro di accoglienza per ragazze madri.
Riferimenti bibliografici:
Amoretti, C. (1801). Viaggio da Milano ai tre laghi Maggiore, di Lugano, e di Como. Milano, presso Giuseppe Galeazzi.
Bertolotti, D. (1821). Viaggio al lago di Como. Como, presso Carlantonio Ostinelli.
Cantù, C. (1847). Guida al lago di Como ed alle strade di Stelvio e Spluga. Como, pei figli di C. A. Ostinelli.
Giovio, G. B. (1817). Viaggio pel lago di Como di Poliante Lariano. Como, presso Carlantonio Ostinelli.
Porta Musa, C. (2008). “Una magica giovinezza in un piccolo borgo antico.” La provincia di Como. 20/08/2008.
http://www.laprovinciadicomo.it/stories/Cultura%20e%20Spettacoli/26858/.
Perpegna, A. (1828). I paesi del lago di Como in nuova foggia descritti [...]. Milano, co' tipi di Francesco Sonzogno q.m G.B.
Alcune delle informazioni sono tratte dal sito dei Beni Culturali della Lombardia – Percorso tematico “Ville storiche sul lago di Como”.